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Volume 30, capitolo 3 “Slancio impetuoso”, puntate 1-5 - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 11:22

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Volume 30, capitolo 3 “Slancio impetuoso”, puntate 1-5

«Se potessi, scriverei una lettera di apprezzamento e incoraggiamento a ognuno di voi. Ma sono una persona sola e c’è un limite fisico a quello che posso realizzare. Così ogni giorno scrivo una puntata de La nuova rivoluzione umana. È la mia lettera quotidiana a tutti voi» (D. Ikeda)

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«Se potessi, scriverei una lettera di apprezzamento e incoraggiamento a ognuno di voi. Ma sono una persona sola e c’è un limite fisico a quello che posso realizzare. Così ogni giorno scrivo una puntata de La nuova rivoluzione umana. È la mia lettera quotidiana a tutti voi» (D. Ikeda)

Seguite le puntate che il presidente Ikeda sta scrivendo ogni giorno pubblicate su www.sgi-italia.org/riviste/nr/

Nella narrazione, l’autore, Daisaku Ikeda, rappresenta se stesso con lo pseudonimo Shin’ichi Yamamoto

[1] Pechino era avvolta da una splendida luce solare. Il dolce paesaggio campestre che si estendeva nei dintorni dell’aeroporto lasciava presagire la primavera. Alle due e trenta del pomeriggio del 21 aprile 1980, la quinta delegazione della Soka Gakkai in visita in Cina, guidata da Shin’ichi Yamamoto, arrivò all’aeroporto di Pechino. Era la prima visita all’estero di Shin’ichi dopo le dimissioni da presidente. Nel suo cuore ardeva la determinazione di rendere ancor più solido il ponte dorato dell’amicizia sino-giapponese, costruito grazie agli scambi che aveva promosso fino ad allora a livello privato, e di ampliare ulteriormente la strada maestra della pace verso il ventunesimo secolo.
Sun Pinghua, vicepresidente dell’Associazione per l’amicizia tra Cina e Giappone, che era venuto ad accogliere la delegazione all’aeroporto, si rivolse a Shin’ichi: «In questi ultimi due, tre giorni a Pechino c’è stata una forte tempesta di polvere gialla».
Le tempeste di polvere sono fenomeni per cui dense nuvole di polvere vengono sollevate verso il cielo da forti venti.
«Non si vedeva a distanza di pochi metri. Ma ieri sera, finalmente, la tempesta si è calmata. Oggi il cielo è tornato azzurro e abbiamo un magnifico clima primaverile. È come se la natura volesse festeggiare il suo arrivo in Cina!».
Nella lettera d’invito che Shin’ichi aveva ricevuto, c’era scritto che l’Associazione avrebbe voluto accogliere la delegazione «nella stagione primaverile, con una temperatura mite e i boccioli in fiore», e quel giorno era proprio così.
Per un istante Shin’ichi pensò alla situazione in cui si trovava la Gakkai in Giappone: «I giovani preti della Nichiren Shoshu stanno continuando ad attaccare la Gakkai sino all’inverosimile. È proprio come una “tempesta di polvere gialla”. Tuttavia, tale situazione non continuerà in eterno. Superandola, potremo sicuramente aprire le porte a un futuro di speranza per la realizzazione di kosen-rufu, proprio come testimonia questo cielo azzurro». La delegazione venne condotta in una sala riservata alle personalità di riguardo all’interno dell’aeroporto, dove una tela ricamata raffigurava un’imponente cascata. Si trattava della grande cascata del Fiume Giallo, in fondo alla quale scorre la corrente impetuosa della “porta del drago”, così chiamata per via di una leggenda secondo cui i pesci che riescono a risalirla si tramutano in draghi.
Anche negli scritti di Nichiren Daishonin viene citata la porta del drago (RSND, 1, 890), una metafora che illustra la difficoltà di conseguire l’Illuminazione attraverso la pratica buddista. La delegazione fissava la tela ricamata raffigurante la cascata e pensava a quante volte la Gakkai aveva dovuto superare impetuose correnti.

[2] La mattina del 22 aprile la delegazione di Shin’ichi, dopo aver visitato la mostra su Zhou Enlai allestita nel Museo nazionale di Storia di Pechino, fece visita presso la sua abitazione privata alla moglie dell’ex premier, Zhou Deng Yingchao, che ricopriva la posizione di vice presidente del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, su suo espresso invito.
Guidati da lei fecero il giro dello splendido giardino dove sbocciavano fiori di melo cinese e di lillà. Shin’ichi si intrattenne a parlare per un’ora e mezza nella sala per gli ospiti, dove lo scomparso premier Zhou accoglieva i dignitari stranieri.
Era trascorso quasi un anno dal loro ultimo incontro avvenuto nell’aprile dell’anno precedente presso la State guest house a Tokyo, e fu un colloquio piacevole ricordando il premier Zhou. Quel pomeriggio, anche durante il ricevimento di benvenuto presso il palazzo dell’Assemblea nazionale del popolo parlarono dello spirito con cui era vissuto Zhou, e Deng Yingchao ricordò commossa il giorno in cui, a bordo di un aereo, aveva sparso le ceneri del defunto marito. Fu un racconto commovente.
«Da giovani io e Zhou Enlai giurammo di dedicare tutta la nostra vita per il bene del popolo cinese. Negli ultimi anni, per tener fede al nostro giuramento anche dopo la morte, decidemmo insieme di rinunciare a far conservare le nostre spoglie».
In questo caso, infatti, sarebbe stato eretto un edificio imponente come un mausoleo che avrebbe reso necessario un luogo da adibire, oltre a un’immane forza lavoro. Ma non era questo che intendevano per “dedicare la propria vita al popolo”. Facendo spargere le proprie ceneri, invece, divenendo concime per la terra esse sarebbero state almeno di qualche utilità.
Ciò tuttavia non rientrava nel costume e nelle tradizioni cinesi. Si trattava di un gesto inaccettabile per i più, un gesto veramente rivoluzionario, in tutti i sensi.
«Quando la malattia si fece più grave – continuò Deng – tanto da impedirgli di reggersi in piedi senza l’aiuto degli infermieri, il compagno Zhou ribadì la sua ferma volontà: “Ti prego di realizzare assolutamente questa promessa”. Quando morì, l’unica richiesta che avanzai al Comitato centrale del partito fu di non imbalsamare le sue spoglie, ma di spargere le sue ceneri sulla terra del suo paese. Mao Zedong e il Comitato centrale acconsentirono a questa mia richiesta e io potei così mantenere la promessa». Un episodio che esprime lo spirito a cui Zhou Enlai rimase sempre fedele, di dedicare tutto se stesso al popolo.
Una volontà può dirsi genuina quando viene messa in pratica, e si trasforma in vera determinazione quando viene portata avanti fino in fondo.

[3] Il pomeriggio del 22 aprile la delegazione di Shin’ichi fece visita all’Università di Pechino dove venne accolta dal vice rettore Ji Xianlin. Nell’edificio storico di Linhuxuan venne stipulato un accordo di scambi accademici con l’Università Soka e, in quell’occasione, fu comunicata a Shin’ichi la decisione dell’Università di Pechino di insignirlo di una laurea ad honorem.
Dopo aver espresso la sua gratitudine, Shin’ichi tenne una conferenza intitolata Alla ricerca di una nuova dimensione per il popolo. Considerazioni personali sulla Cina.
La Cina, definita una volta “nazione senza Dio”, è probabilmente uno dei paesi che per primi hanno rinunciato a una visione teistico-mitologica del mondo.
Durante la conferenza Shin’ichi parlò di Sima Qian (celebre storico cinese, 145-86 a.C., n.d.t.) il quale, condannato all’evirazione dall’imperatore Han Wudi per aver preso le difese del generale Li Ling, caduto prigioniero dei Xiongnu (una tribù nomade della Cina settentrionale, n.d.t.), si mise a riflettere sull’esistenza o meno di un principio divino.
Shin’ichi sottolineò che l’atteggiamento di Sima Qian di interrogarsi sull’esistenza di un principio divino a partire dalle tragedie personali che lo avevano colpito, la ricerca cioè della dimensione universale attraverso la propria condizione individuale, costituisce il fondamento spirituale alla base della civiltà cinese. Al contrario, nella civiltà occidentale fino alla fine del diciannovesimo secolo, il principio universale di una provvidenza divina che regola il mondo, non nasceva da una riflessione a partire dall’essere umano ma da una considerazione di un “dio”, come entità superiore.
Si tratta cioè di una riflessione sull’essere umano e sulla natura attraverso un “prisma” chiamato “Dio”. Se si cerca però di applicare forzatamente questo stesso “prisma” a popoli che si differenziano fortemente per storia e tradizione, vi è il pericolo che si trasformi in un’imposizione e che, alla fine, una concezione colonialistica intrisa di aggressività ed esclusivismo dilaghi pericolosamente in nome di un’entità superiore.
Questa fu la sua considerazione. Shin’ichi ribadì tuttavia l’importanza della ricerca di un principio universale attraverso l’osservazione della realtà. Questa è una tradizione della cultura cinese e anche il professor Arnold Toynbee affermò di aver trovato proprio nella storia di questo popolo la spiritualità del mondo. Egli auspicò inoltre la nascita di una nuova concezione del popolo, un popolo che si facesse protagonista di questo nuovo principio universale. Shin’ichi era convinto delle enormi potenzialità della Cina.
Per questo aveva continuato a visitare ripetutamente questo paese pregando per lo sviluppo dell’amicizia tra Cina e Giappone e per la stabilità dell’intero continente asiatico.

[4] Dopo la conferenza presso l’Università di Pechino si tenne una cerimonia di donazione di libri in favore dell’Università di Sichuan.
In un primo momento era stata programmata una visita di Shin’ichi presso questa università che si trova a Chengdu, nella provincia dello Shichuan, ma per incompatibilità con l’agenda di Shin’ichi la cerimonia venne spostata presso l’Università di Pechino.
Quando il vice rettore dell’Università di Sichuan ricevette nelle sue mani il catalogo con la lista di mille libri e il diploma di consegna da parte di Shin’ichi, esplose un fragoroso applauso in sala. Era stato aperto un nuovo varco negli scambi educativi e culturali fra i due paesi. La mattina del 23 aprile Shin’ichi ebbe un incontro con Chang Shuhong, il direttore del Centro studi sulle grotte di Dunhuang (l’attuale Dunhuang Academy) e sua moglie, presso il Beijin Hotel, dove alloggiavano.
Chang Shuhong aveva settantasei anni. Era un eminente studioso a livello mondiale del patrimonio artistico delle Grotte di Mogao (o Grotte dei mille Budda), a Dunhuang, e della Via della Seta, nonché membro rappresentante del quinto congresso dell’Assemblea nazionale del popolo.
Sebbene il giorno prima fosse rientrato da un viaggio nella Germania dell’Ovest, partecipò all’incontro senza lasciar trasparire la minima stanchezza. Shin’ichi chiese innanzitutto le ragioni che avevano spinto il professore a intraprendere i suoi studi sulle opere di Dunhuang.
La risposta fu estremamente interessante. Nel 1927, a ventitré anni, aveva compiuto un viaggio di studio in Francia per approfondire la sua conoscenza dell’arte occidentale. A Parigi si era imbattuto in un libro fotografico su Dunhuang ed era rimasto profondamente colpito dalla qualità espressiva di quelle opere di cui ignorava l’esistenza, nonostante appartenessero al patrimonio artistico del suo paese. Comprese il suo errore e nel 1936 abbandonò ogni cosa e fece ritorno in Cina per dedicarsi alla ricerca, alla salvaguardia e alla promozione dell’arte di Dunhuang. Nel 1943 finalmente entrò nel sito archeologio di Dunhuang come membro del team che preparava l’istituzione del Centro studi. Da quel giorno vi si stabilì per ben trentasette anni, dedicando la sua vita alla conservazione del sito e al lavoro di restauro. «La grande arte di Dunhuang – affermò il direttore – si è formata nel corso di mille anni di storia. Ma le spedizioni straniere trafugarono questi inestimabili tesori e li portarono all’estero».
Il volto del direttore Chang Shuhong lasciava trasparire un profondo senso di amarezza. Ma sicuramente egli aveva trasformato quell’amarezza in passione e tenacia impegnandosi nell’opera di conservazione e studio del sito. Un’incrollabile, indomita tenacia è il requisito necessario per realizzare una grande impresa.

[5] Nel periodo in cui Chang Shuhong aveva iniziato a vivere nel sito delle Grotte di Mogao, a Dunhuang, questa era una zona completamente isolata dal mondo. Circondata dal deserto, per procurarsi i beni di prima necessità occorreva raggiungere una città a venticinque chilometri.
Ovviamente egli non possedeva nemmeno una macchina. Su un basamento in mattoni di terracotta stendeva una stuoia con della paglia e ne faceva un giaciglio per dormire, con un pezzo di stoffa come coperta. Non c’era nemmeno acqua potabile a sufficienza. Non di rado le temperature in inverno scendevano sotto i venti gradi.
Non esistevano nelle vicinanze strutture mediche, tanto che la seconda figlia, che si era ammalata, morì cinque giorni dopo l’arrivo.
Un pittore che aveva vissuto a Dunhuang portando avanti i suoi studi prima di lui, il giorno della partenza commentò scherzando che per lui si era trattato di un carcere a vita.
Chang Shuhong, al contrario, descrisse il suo stato d’animo con queste parole: «Pensai che avrei accettato più che volentieri anche il carcere a vita immerso in quell’immenso mare dell’antica civiltà buddista».
Coloro che hanno preso una salda risoluzione sono forti. Solo nella ferma decisione di avanzare imperterriti fra terribili tempeste e avversità è possibile portare fino in fondo il proprio intento originario, e in ciò risiede la vittoria nella vita. Questo è l’atteggiamento di un buddista. Per questa ragione Nichiren Daishonin afferma: «Dite loro di essere preparate al peggio e di non aspettarsi tempi buoni, ma dare per scontati quelli cattivi» (RSND, 1, 886).
Le Grotte di Dunhuang, in stato di completo abbandono per anni, sepolte sotto le sabbie mobili e in balìa dell’azione di erosione di sabbia e vento, erano sull’orlo della rovina. In una situazione del genere il direttore si mise all’opera per preservare e restaurare gli affreschi parietali e le sculture della Grotta. Il suo lavoro iniziò con la piantumazione degli alberi al fine di proteggere il sito dalla sabbia e dal vento. Un lavoro massacrante, senza fine. Ma i suoi sforzi vennero infine ricompensati e il Centro studi iniziò a essere apprezzato a livello internazionale.
Quel giorno fra Shin’ichi e Chang Shuhong ebbe luogo un piacevole colloquio, e fra i due nacque una sincera intesa. Fino al 1992 si incontrarono per dialogare in numerose occasioni, in tutto sette volte. Nel 1990 questi loro scambi vennero pubblicati nel libro Lo splendore di Dunhuang. Parlando della bellezza e della vita.
Erano dialoghi nati dalla volontà tenace di aprire “la via della seta” dell’amicizia e della cultura per il futuro.

(continua)

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