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L’inclusione: un problema che riguarda tutti e tutte - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 08:06

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L’inclusione: un problema che riguarda tutti e tutte

A cosa ci riferiamo quando parliamo di inclusione? E in che modo è un tema ci riguarda personalmente? In questo focus affrontiamo diverse implicazioni legate a un problema come quello dell’inclusione a cui la società deve trovare soluzioni urgenti. Soluzioni che, nella prospettiva buddista, cominciano da ciò che ognuno e ognuna può fare ora nel proprio ambiente circostante

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L’etimologia del termine “inclusione” viene dal latino inclusioonis e consiste ne «l’atto, il fatto di includere, cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto» (Enciclopedia Treccani). A oggi, quando parliamo di inclusione, ci riferiamo principalmente all’inclusione sociale, ossia l’inserimento in un gruppo sociale precostituito di una parte di individui che in passato erano sistematicamente esclusi e discriminati per via di diverse caratteristiche sociali, fisiche, politiche, identitarie. 
Anche se la società negli ultimi decenni ha fatto progressi nel processo di inclusione di gruppi minoritari sottoposti a marginalizzazione, siamo ancora costretti ad assistere a fenomeni di discriminazione, alcuni più visibili di altri.

Una premessa necessaria è considerare le minoranze non solo da un punto di vista numerico. Quando parliamo di minoranze non ci riferiamo infatti solo a un gruppo di individui che numericamente sono inferiori rispetto a un altro. Una minoranza sociale è l’insieme dei gruppi di individui che ancora oggi subiscono un diverso trattamento e hanno accesso a minori opportunità sulla base di diversi elementi come il colore della pelle, la religione, la posizione politica, le condizioni psico-fisiche, il genere, l’orientamento sessuale e così via. 
In tal senso, una minoranza sono anche le donne, in quanto gruppo di individui che ancora oggi subisce gli effetti di una società patriarcale nella quale, sotto molteplici punti di vista, è dato diverso spessore e opportunità al genere maschile.In quest’ottica, è possibile affermare che nella società contemporanea gli individui maggiormente sottoposti a discriminazione sono: gli anziani, le donne, i membri della comunità LGBTQ+, i minori, i migranti, i disabili, i detenuti o ex detenuti, le persone che stanno soffrendo per una qualche dipendenza e coloro che vivono in una condizione di povertà. 

La discriminazione non può essere giustificata in alcun luogo e in nessuna misura. Così come nessun individuo dovrebbe mai essere limitato nella propria innata capacità e diritto di partecipare attivamente alla vita sociale e collettiva, di avere accesso a un lavoro e a un’altra serie di diritti riconosciuti, indiscriminatamente, a ogni essere umano. 
Ribadire questo concetto, per quanto possa sembrare scontato, è fondamentale nel delineare la differenza tra il termine integrazione e inclusione, spesso confusi tra di loro.
Il sociologo Jurgen Habermas afferma:

«Inclusione non significa accaparramento assimilatorio, né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti» (L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Milano, ed. Feltrinelli 1998, pag. 278)

Le caratteristiche uniche di cui ogni individuo è portatore non possono essere utilizzate come scusanti nella limitazione dei diritti e delle libertà di ogni singola persona. Così come non può essere giustificato un meccanismo di omologazione che va a privare ogni individuo della propria unicità. 
Per fare un esempio concreto, di estrema importanza è stata la creazione dell’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute), a carico dell’Istituto Mondiale di Sanità nel 2001. La nuova prospettiva offerta da questo documento è il riconoscimento della sfera bio-psico-sociale nella quale l’individuo è immerso, piuttosto che sulla disabilità di cui il singolo è portatore. In questo senso sono le strutture sociali che devono essere modificate in modo che tutti possano avere pari opportunità di accesso alla vita collettiva e sociale.

Un altro aspetto fondamentale quando parliamo di inclusione è l’uso del linguaggio. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una sempre maggiore attenzione verso la necessità di modificare la nostra lingua e dare vita a un linguaggio che sia veramente inclusivo.
Un esempio è l’utilizzo dei pronomi, soprattutto nei confronti delle persone non binarie (coloro che non si identificano esclusivamente nel genere femminile o maschile). Le barriere e le limitazioni presenti all’interno della società contemporanea sono incredibilmente vaste e, come si può notare, non si manifestano solo nella creazione o meno di opportunità di carattere legislativo o strutturale, ma in ogni interazione sociale che compiamo nella nostra quotidianità, a partire dal linguaggio che decidiamo di utilizzare con gli altri. 
Sarà forse capitato a ognuno di noi di leggere articoli o post su social media che trattavano l’argomento, per poi imbattersi in commenti del tipo: «Adesso non va più bene niente! Bisogna stare attenti a ogni parola che si usa!», e via dicendo. Molti si sono chiesti per quale motivo proprio adesso si stia parlando in maniera così ampia di questioni – come questa del linguaggio – di cui prima non si era nemmeno lontanamente consapevoli. 
La verità è che la società sta evolvendo, le persone si stanno ponendo maggiori domande e ci si rende sempre più conto di quanto l’emarginazione sociale abbia a che fare con un modo di pensare radicato nel passato, in una logica del potere che oggi risulta inammissibile. 
In sintesi, per dare vita a una società veramente inclusiva, ogni aspetto di questa società va ripensato, ponendo enfasi e attenzione a coloro che per lungo tempo sono stati marginalizzati. 

Quando parliamo di inclusione, non possiamo lasciare da parte il tema dei privilegi.
Per privilegio si intende un «vantaggio, prerogativa, condizione favorevole di cui si gode rispetto ad altri», ma andando a scavare più a fondo, analizzando l’etimologia del termine, ci si rende conto che esso viene dal latino “privilēgĭu(m), comp. di privus “che sta a parte” e lex, legis “legge” (Dizionario Internazionale). Sta quindi a significare un vantaggio, una condizione favorevole attribuita a qualcuno al di là di quanto stabilito dalla legge. 
È quindi, anche per questa ragione, molto difficile rendersi conto dei privilegi che si hanno rispetto ad altre persone e di quanto la discriminazione – seppur combattuta attraverso leggi e trattati internazionali – rimanga una parte consistente della nostra società, perché si basa su una serie di elementi che non sono presi in considerazione dalla legge, ma sono “a parte”. 

Un esempio concreto di privilegio, nella società occidentale, è essere di pelle bianca. In particolar modo se si è un uomo cis-gender, di pelle bianca, si ha, in maniera del tutto automatica, una serie di privilegi – di cui spesso non ci si rende conto – che non sono riconosciuti ad altri individui. Questi privilegi si manifestano con un riconoscimento sociale differente, una maggiore libertà nell’uso del proprio corpo, una maggiore riconoscenza sul posto di lavoro, una maggiore autorevolezza riconosciuta, spesso, non sulla base delle caratteristiche uniche di quella persona, ma su una scala di preferenze che è la stessa società a costruire. 
Anche una donna bianca ha dei privilegi che altre donne non hanno. Come la scrittrice e drammaturga Michela Murgia ha affermato durante una sua intervista:

«Se tu fossi una donna nera e io una donna bianca, quale sono, saremmo discriminate sul piano del genere in una società patriarcale, ma io sarei una privilegiata perché sono di pelle più chiara. E non potrei mai dimenticare che, quando parlo della discriminazione di genere c’è una donna affianco a me che ne subisce due, anche quella razziale. E se in questo gioco io fossi quella ricca e lei quella povera lei ne avrebbe tre da gestire di discriminazioni» (Rep Idee 2020. – “Dove va l’America”, Maurizio Molinari e Michela Murgia)

Il privilegio, però, non è una colpa. Ma diviene una responsabilità chiedersi quali sono i nostri privilegi e agire concretamente affinché la cultura nella quale siamo immersi possa essere trasformata, al punto tale che ogni individuo abbia le stesse opportunità e diritti, e tutto ciò che ad oggi viene riconosciuto sulla carta, abbia un effettivo riscontro nella realtà concreta di ogni persona.

«Sospesa sopra la reggia del dio Indra, simbolo delle forze naturali che nutrono e proteggono la vita, vi è una vastissima rete. A ognuno dei suoi nodi è legato un gioiello. Ogni gioiello riflette in sé l’immagine di tutti gli altri, rendendo la rete meravigliosamente luminosa»

Questi gioielli incastonati nei nodi della rete siamo noi, persone comuni la cui lucentezza e movimento produce, simultaneamente, un effetto su tutti gli altri gioielli della rete.
È una metafora estremamente importante che ci fa comprendere quanto la vita, la rivoluzione umana e le azioni di ognuno e ognuna producano immancabilmente un effetto sull’ambiente circostante.
Inclusione, per il Buddismo, significa riconoscere il valore immenso e imperituro della vita di ogni singolo essere vivente, compresa la nostra. Riconoscere che in questa rete di interazioni sociali della quale siamo parte c’è spazio per ogni singolo gioiello, e che rimuovere, oscurare anche solo uno di questi gioielli, porterebbe l’intera rete a perdere di brillantezza e splendore. 
A noi la responsabilità di continuare a lucidarlo e prendercene cura. A noi la responsabilità di non chiudere più gli occhi di fronte a ciò che deve essere assolutamente trasformato perché, come la docente Maria Guajardo, dell’Università Soka in Giappone, spesso afferma al termine di ogni suo corso:

«Ora sai troppo per far finta di non sapere»

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