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“Un sole gioioso di felicità” - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:20

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“Un sole gioioso di felicità”

Valentina Conti, Livorno

La relazione con la compagna non viene accettata dalla famiglia ma le parole del maestro Ikeda incoraggiano Valentina a credere nella sua unicità e bellezza. Da quel momento riesce a vincere sulla malattia, trasformare la situazione lavorativa, concludere gli studi e diventare il sole della famiglia

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La relazione con la compagna non viene accettata dalla famiglia ma le parole del maestro Ikeda incoraggiano Valentina a credere nella sua unicità e bellezza. Da quel momento riesce a vincere sulla malattia, trasformare la situazione lavorativa, concludere gli studi e diventare il sole della famiglia

Ho conosciuto questo Buddismo grazie a un’amica, ma impiegai quasi due anni per decidere, nel 2010, di seguirla a uno zadankai, scettica e razionale com’ero, e mi convinsi solo dopo aver toccato con mano la sua prova concreta. Fu la mia salvezza, perché mai avrei immaginato che cosa di lì a poco sarebbe emerso nella mia vita, a quel tempo fatta di un lavoro che non mi piaceva, una relazione al capolinea, un disturbo alimentare mai veramente risolto e un rapporto molto conflittuale con mia madre, il tutto condito con un profondo senso di fallimento per aver abbandonato gli studi universitari.
La monotonia delle mie giornate fu interrotta da un vero e proprio terremoto emotivo, quando capii che l’amicizia nata tra me e una collega di lavoro non era solo amicizia.
Lasciai il mio fidanzato e quando la mia famiglia venne a conoscenza della situazione fu l’inizio di un incubo.
Il loro rifiuto fu totale, ogni giorno subivo una violenza psicologica e un senso di emarginazione che mi toglievano il respiro. Il senso di fallimento trovò sfogo nel cibo e la bulimia tornò a divorarmi. Non avevo niente, avevo solo la mia amica Chiara e quelle riunioni a cui partecipavo osservando in silenzio quelle persone così felici che quasi mi infastidivano, e quella frase per me impronunciabile.
Ricordo il giorno in cui recitai Nam-myoho-renge-kyo per la prima volta. Ero sola, persa, stanca. Tutto intorno mi urlava che ero sbagliata e indegna, mia madre mi aveva appena detto che per lei ero una figlia morta. Mi trovai a leggere avidamente un articolo di Sensei che diceva che ero un fiore meraviglioso, una giovane donna di valore, e che recitando Daimoku sarei diventata felice. Mi aggrappai a quelle parole e nella disperazione iniziai a praticare.
L’anno successivo, dopo essere stata mandata via di casa, sia io che la mia compagna a cui avevo fatto shakubuku decidemmo di ricevere il Gohonzon, promettendo a Sensei di vincere.
Un principio buddista è stata la mia bussola fin dal principio: la vita consiste nel manifestare l’unicità del nostro carattere e delle nostre capacità come fiori di «ciliegio, susino, pesco e prugno selvatico» (BS, 124, 47).
Iniziavo a credere di avere anch’io una mia unicità e bellezza, non c’era bisogno di paragonarmi agli altri ma piuttosto di vincere su me stessa e diventare felice.
Ricevere il Gohonzon fu come nascere un’altra volta, ricominciare: iniziava la mia rivoluzione umana, mi sfidavo senza riserve, ogni responsabilità che accettavo, ogni attività, in particolare quella di byakuren, mi insegnava la cura per gli altri attraverso la quale imparavo a prendermi cura anche di me stessa. Il desiderio di incoraggiare le persone abbassava le mie difese e dialogare con gli altri mi insegnava ad ascoltarmi.
Decisi profondamente di guarire dalla bulimia dopo aver visitato la mostra Senzatomica, dove un video all’entrata proiettava in loop l’immagine accelerata di una bocca che divorava hamburger. Trovai un centro specializzato in disordini alimentari e dopo un po’ di tempo finalmente il cibo fu per me cibo e nulla di più.
Ho impiegato diverso tempo per trasformare la rabbia verso mia madre davanti al Gohonzon: grazie al Daimoku e approfondendo lo studio del Buddismo, ho imparato a vederla come un essere umano con il suo karma, dotato di Buddità come chiunque altro, nonostante le sue azioni.
A oggi, il rapporto con lei è migliorato molto. Anche se non accetta ancora la relazione con la mia compagna, porto avanti la promessa fatta a Sensei di diventare un faro nella mia famiglia.
Negli anni ho iniziato a comprendere il significato di missione come shimei, “usare la vita”, provando a dare un senso anche alle mie esperienze dolorose mettendole a disposizione degli altri per incoraggiarli e sforzandomi di vedere nelle difficoltà l’opportunità di trasformare il mio karma. Ho vinto gli attacchi di panico intensificando le visite a casa alle giovani donne e l’attività byakuren, che mi richiedeva di stare centrata e concentrata.
Questa vittoria mi ha motivata a riprendere un obiettivo accantonato e fonte per me di grande sofferenza: finire il mio corso di studi universitario, obiettivo che ho condiviso con altre due giovani donne della mia zona: quest’anno abbiamo tutte e tre terminato i nostri studi e vinto insieme, è stato meraviglioso!
Nel lavoro ho vissuto un periodo veramente difficile: nell’azienda per cui lavoravo spesso venivano messe in campo azioni non proprio rispettose nei confronti di noi lavoratrici.
Nel 2019 tornai dal Corso europeo di studio giovani con questa frase della Proposta di pace di Sensei nel cuore: «Sradicare la patologia della rassegnazione celata nelle profondità del nostro essere sociale» (Allegato a BS, 194, 17).
Da lì decisi di ripartire. Lo studio del Gosho è stato una lanterna nell’oscurità, ogni volta che ricadevo nello sconforto lo riprendevo in mano e ripartivo.
Recitavo Daimoku per aprire la mia strada, per trovare un lavoro che mi permettesse di stare in mezzo alle persone, di portare avanti kosen-rufu e affermare i valori del Buddismo, la dignità della vita prima di tutto.
A fine 2020 sono stata eletta delegata sindacale sul mio luogo di lavoro e attualmente sono in distacco sindacale come funzionaria: non è un lavoro ma una missione, una lotta quotidiana contro la mia insicurezza e il mio sentirmi inadeguata che spariscono quando mi metto all’ascolto dell’altro e lotto per aiutarlo.
Dopo anni sto comprendendo come anche il mio mondo di collera, debitamente illuminato, sia un aspetto che mi spinge a lottare contro le ingiustizie, qualcosa che posso mettere a servizio degli altri.
Recito Daimoku ogni giorno per realizzare la promessa fatta a Sensei che ogni giovane donna della regione diventi felice.
Tenendo sempre nel cuore il mio maestro mi sforzo ogni giorno di creare valore lì dove sono, senza paragonarmi agli altri ma cercando di vedermi come lui mi vede, come vede ogni giovane donna, “un sole gioioso di felicità”.

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