Ho sempre sentito che la fede nel Gohonzon sarebbe stato il regalo più prezioso. Mi sono sforzato di donargli il mio cuore, la fiducia nel futuro, la speranza per una vita felice. Ne ero certo, al di là di ogni aiuto assistenziale, solo Nam-myoho-renge-kyo gli avrebbe potuto restituire una vera vita
Grazie a chi mi ha avvicinato al Buddismo, ho iniziato a praticare all’età di diciotto anni, e mi ritengo davvero fortunato. Quando tre anni fa è morto mio papà è iniziato per me un nuovo ciclo di vita. La vita di mio papà ha continuato a scorrere nella mia, e ho imparato una cosa: la morte insegna la vita, insegna a vivere intensamente ogni giorno come se fosse l’ultimo.
Nel 2006 ho conosciuto una persona, anche lui di nome Paolo, come me. In estate avevo deciso di aprire il più possibile la mia vita, alimentando ogni giorno il desiderio di fare shakubuku. Quel giorno mi trovavo in un bar in centro a Bologna, con una mia amica a cui stavo appunto parlando di Buddismo, quando s’inserì nella conversazione un uomo sulla cinquantina. Incuriosito dai nostri discorsi, mi chiese: «È possibile cambiare il karma?». Io gli risposi di sì: il Buddismo insegna che “in un istante tutto può cambiare”.
E fu così che mi raccontò di come trent’anni prima, nel corso di una lite, con un semplice pugno uccise un uomo; finì in prigione per omicidio e una volta libero cominciò a entrare e a uscire dal carcere dopo che la sua vita era andata completamente allo sbando. Uscito grazie all’indulto del 2006, viveva ora in un dormitorio comunale e pranzava alla mensa dei poveri. Era senza un lavoro e soprattutto senza alcuna speranza o fiducia nella vita. In quel bar gli dissi che avrebbe potuto cambiare in positivo il proprio destino, se solo avesse iniziato a praticare il Buddismo. Gli lasciai il libro Felicità in questo mondo col mio numero di telefono. Recitai a lungo affinché si rifacesse vivo. Un mese più tardi ricevetti la sua telefonata, lo invitai a casa mia e fu così che Paolo iniziò a praticare.
Il suo stato vitale cominciò a migliorare di giorno in giorno. Iniziò a porsi degli obiettivi, tra cui trovare lavoro. Ricordo ancora con emozione il giorno in cui a casa mia, dopo aver pregato assieme, gli prestai giacca, camicia e cravatta per fare una fototessera. A più di cinquant’anni aveva deciso di scrivere il suo primo curriculum.
A Natale fui l’unico a fargli gli auguri e a dargli un regalo, invitandolo a scrivere i suoi obiettivi per l’anno nuovo. E qualcosa cominciò a muoversi. Non gli ho mai dato soldi o altri beni materiali. Ho sempre sentito che la fede nel Gohonzon sarebbe stato il regalo più prezioso. Mi sono sforzato di donargli il mio cuore, la fiducia nel futuro, la speranza per una vita felice. Ne ero certo, al di là di ogni aiuto assistenziale, solo Nam-myoho-renge-kyo gli avrebbe potuto restituire una vera vita.
L’ho sempre incoraggiato a fare shakubuku. E così fece. Poco tempo dopo un suo vecchio conoscente, a cui parlò di Buddismo, ricevette il Gohonzon.
Nonostante ciò, il 2007 è stato per Paolo un anno pieno di difficoltà. Ogni volta che la sua determinazione aumentava, il karma del passato si ripresentava e sembrava avere la meglio su di lui. Ma sapevo che, affrontando tutte queste vicissitudini, Paolo avrebbe potuto purificare e trasformare il suo karma negativo. «Continua a credere, nonostante tutto!», gli ripetevo. Per me fede significa “credere nonostante”. Credere che il famoso “dodicesimo giorno della luna sulla capitale“ sia oggi, non domani.
Nel sostenere Paolo ho imparato che fare shakubuku è un po’ come svolgere il ruolo di genitore, con severità e dolcezza assieme; che shakubuku è soprattutto una promessa, un voto, un’assunzione di responsabilità. E nello svolgere questo ruolo ho percepito che la vita di mio papà sta davvero continuando a scorrere nella mia.
Ma i debiti col karma, e soprattutto quelli con la giustizia, vanno affrontati, e non ci si può sottrarre solo perché si pratica. Fu così che una tarda sera di febbraio mi arrivò un suo Sms: «Mi stanno arrestando». Esisteva nei suoi confronti una condanna a nove mesi di carcere che, da un momento all’altro, sarebbe potuta diventare esecutiva. Lo richiamai subito, fece in tempo a dirmi che lo stavano portando al carcere di Bologna e che aveva la ferma intenzione di non uscire più vivo da lì. Io gli risposi risolutamente: «Continua a recitare Nam-myoho-renge-kyo qualsiasi cosa accada», e subito dopo mi misi a pregare con la forza di un leone all’attacco per riuscire a rivederlo vivo.
Mi attivai subito per andarlo a trovare, ma dovetti aspettare un permesso speciale dal Tribunale di sorveglianza. Nel frattempo cominciai a spedirgli numerose lettere, e lo stesso fecero anche gli altri praticanti che Paolo aveva conosciuto a Bologna. Che emozione quando ricevetti la sua prima lettera di risposta, scritta sul retro di un modulo del Ministero di Grazia e Giustizia, perché non aveva altra carta da utilizzare. Mi scrisse che le uniche cose che lo avevano fatto desistere dal farla finita erano state la mia amicizia e le parole di Ikeda.
Ricevuto il permesso, era una meravigliosa giornata di sole, per la prima volta in vita mia entrai in carcere. Tanto era alto il mio stato vitale che allo spalancarsi del cancello non trovai un anonimo secondino ad accogliermi, bensì una poliziotta bionda che sembrava appena uscita da una telefilm poliziesco. Entrai nella sala colloqui. Lo salutai al mio solito modo: «Ciao Budda Paolo!», e scoppiammo a piangere dalla gioia.
Si trovava però nel reparto infermeria, praticamente in isolamento, e pensai: «Così isolato non può aprire la sua vita!». Poco tempo dopo fu trasferito nel carcere di Ferrara dove, finalmente, ebbe l’occasione di entrare in contatto con altri detenuti e fare shakubuku. Il risultato? Il suo compagno di cella, Lauro, un omone grande e grosso, ma buono, finito dentro per rapina, ha iniziato a praticare. Cristian, un ragazzo della mia età, ha iniziato a praticare. Addirittura anche un altro detenuto, Giuseppe, ha deciso di riprendere a praticare: aveva conosciuto la pratica negli Stati Uniti venti anni prima. Insomma, si poteva quasi fare una riunione di discussione!
Il principale obiettivo per Paolo aveva una data precisa: il 17 giugno si sarebbe svolta l’udienza in cui il giudice avrebbe potuto approvare o meno la richiesta di scontare la pena in libertà, all’interno di un programma di reintegrazione.
Scrive Ikeda: «La felicità richiede coraggio» (RU, 10, 160). E sia io, sia Paolo abbiamo recitato Daimoku con coraggio e col desiderio di ottenere e dare una prova concreta anche agli altri detenuti che avevano iniziato a praticare. La prova concreta è ciò che fa la differenza tra lo star bene e l’essere felici.
Martedì 17 la sentenza. Giovedì 19, squilla il mio cellulare… non ci potevo credere: era Paolo! In stazione a Bologna io l’ho accolto con una bottiglia di spumante, lui mi ha mostrato con fierezza la “cartolina dei dialoghi” per il 16 marzo con i nomi dei suoi cinque shakubuku fatti in carcere. In quel momento ho sentito che il suo cuore era libero, aperto alla vita e ho imparato che fede significa libertà.
Oggi Paolo vive in un paesino dell’Appennino bolognese. Ha un lavoro, un piccolo stipendio e un appartamento messo a disposizione dalla cooperativa sociale che gestisce il programma di recupero; sta continuando a sostenere via lettera gli altri detenuti che sono ancora in carcere.
In tutta questa storia ho sentito che, sostenendo Paolo, ho sostenuto la mia stessa vita. Ho imparato a vedere il karma non più come un nemico, piuttosto come un amico: il miglior amico, un alleato per la felicità. E sono proprio felice! Sono felice e grato perché ho aperto la mia vita al coraggio, perché mi sento innamorato della vita e sto vivendo intensamente come mai ho vissuto prima. Ma soprattutto ho sconfitto quella che io chiamo “la paura della felicità”.
Infine, desidero dedicare questa mia esperienza a due persone: a mio papà, che vive nelle mie vittorie e gioisce del mio amore; al maestro, che ci sta chiedendo di osare. Osare per realizzare tutti i nostri sogni, per cambiare il destino delle nostre vite e del luogo in cui viviamo. Sensei ci sta chiedendo di osare. E pregare osando è il primo passo per vincere.