Nato in una famiglia di praticanti, Tommaso affronta una lunga serie di difficoltà per trovare la sua identità. Continuando a basarsi sugli incoraggiamenti del maestro Ikeda, senza arrendersi mai, scopre la chiave per trasformare la sua vita
Ho venticinque anni e vivo a Bologna. Sono nato a Roma in una famiglia buddista. Il primo a praticare fu mio nonno, a Chiba, in Giappone, nel 1954. Aveva perso la mamma molto piccolo e per riuscire a cavarsela si era arruolato, senza sapere che da lì a qualche anno sarebbe scoppiata la Seconda guerra mondiale.
A metà degli anni ’50, nel pieno delle durissime sofferenze del dopoguerra, un uomo condivise con lui il Buddismo di Nichiren Daishonin e la settimana successiva mio nonno diventò membro della Soka Gakkai. Lo stesso fece due anni dopo tutta la sua famiglia.
Io ho iniziato a praticare il Buddismo a Capodanno del 2008, facendo Gongyo con mia mamma. In quegli anni vivevo grandi difficoltà scolastiche e relazionali. Iniziando a recitare Daimoku mattina e sera sono riuscito per la prima volta a dare una direzione alla mia vita e a confrontarmi seriamente con le problematiche che hanno caratterizzato la mia adolescenza.
Nei primi sei mesi di pratica buddista sono cambiate tante cose. Il rapporto con le mie insegnanti, prima pieno di incomprensioni, ha iniziato a basarsi sul confronto e il dialogo. Persi diciotto chili: la mia trasformazione interiore si stava manifestando anche all’esterno. Da quel momento in avanti ho continuato a praticare, ma con minore intensità perché, risolti i primi problemi, ho abbassato la guardia. Di conseguenza rimasi in una sorta di limbo, tornando a vivere senza una chiara direzione. L’inquietudine aveva di nuovo preso il sopravvento.
Alla fine del liceo ho ripreso a praticare più seriamente e ho deciso di sfidarmi per tirare fuori tutto il mio potenziale. Dopo la maturità sono partito per l’Inghilterra, in cerca di indipendenza. È stata durissima.
Nonostante avessi trovato un lavoro e una casa, ho affrontato una grande solitudine: mi svegliavo, recitavo Daimoku e andavo al lavoro, ma non avevo nessun legame con altre persone.
Nei giorni liberi, non sapendo cosa fare, andavo alla piccola biblioteca vicino a casa. Lì, per la prima volta, ho iniziato a studiare il Gosho e a cercare in quelle parole l’ispirazione per la mia vita. Nichiren Daishonin afferma: «Qualsiasi cosa accada, comunque non devi disperare. Abbi un atteggiamento fermo e se le cose non dovessero andare come desideri […], allora decidi di essere più contento che mai» (Il grano raffinato, RSND, 2, 543).
Il Daimoku mi ha dato la forza di non retrocedere e di portare a termine quest’esperienza.
Mi sentivo cresciuto. Finita la parentesi inglese, mi sono trasferito ad Amsterdam, dove ho avuto la fortuna di fare attività e conoscere tanti membri. Ma nemmeno lì ho trovato la mia strada.
Dall’Olanda sono rientrato in Italia. Ancora non era chiaro dentro di me il percorso da intraprendere e, nell’incertezza, decisi di trasferirmi a Bologna per iniziare una triennale che però non rispecchiava i miei interessi e le mie capacità.
Non mi sono arreso e in questi anni ho avuto modo di confrontarmi con tantissimi giovani grazie all’attività nel Gruppo studenti e con alcuni di loro ho stretto profondi legami d’amicizia. Mi sono sfidato più che mai nella mia pratica personale e nell’incoraggiare ogni persona.
Nonostante gli sforzi, sentivo ancora un senso di pesantezza nella mia vita.
In un momento di grande difficoltà ho deciso di trascorrere l’estate in Giappone dai miei parenti. Sono stati mesi molto duri, in cui passavo il tempo da solo vagando senza meta e scattando fotografie.
In particolare ricordo quando mi sono trovato al porto di Yokohama, a Kanagawa, di fronte al mare in una giornata cupa e piovosa. Ricordo ancora lo sconforto, l’assenza di prospettive e la sensazione di disagio che provavo.
Nel suo Diario giovanile il maestro Ikeda afferma: «Ho incontrato il signor Toda alla sede centrale nella stanza del presidente. Gli ho descritto le mie condizioni di salute. Mi ha dato un consiglio: “Sei impegnato nella battaglia contro i tre ostacoli e i quattro demoni. Non ci sono altri modi per riuscire a vincere se non attraverso la preghiera, versando lacrime davanti al Gohonzon”. Devo vivere con forza! Devo alzarmi con forza! E devo combattere con forza!» (Esperia, pag. 279).
Così ho cercato di fare, impegnandomi su tutti i fronti, compreso lo shakubuku e il sostegno agli altri. Nel corso del tempo questa si è rivelata la chiave per trasformare la mia vita.
Nel 2018, due anni dopo quel viaggio in Giappone per me così difficile, sono tornato a Tokyo per partecipare con altri giovani da tutta Europa al corso “Il voto”.
L’ultimo giorno, nell’affacciarmi dal Centro culturale di Kanagawa mi sono ritrovato a poche decine di metri dallo stesso punto di due anni prima. Ho provato una grande commozione: la mia condizione interiore era completamente diversa. Dove più avevo sofferto, ora ero pieno di gioia.
L’ultimo anno è stato quello delle grandi vittorie! Ho portato a termine dei corsi di formazione di fotografia e cinema che mi stavano molto a cuore. Ho preso parte a una mostra che mi ha dato grandi soddisfazioni. Ho ricominciato l’università e ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare come educatore.
Buddismo, educazione e arte sono i miei obiettivi quotidiani. Quello che più mi ha fatto soffrire in passato è stata l’incertezza rispetto alla mia identità, e oggi ciò che mi rende più grato è aver avuto l’occasione di fare la mia rivoluzione umana.
In particolare grazie all’impegno nel sostenere gli altri e nello shakubuku sento che, attraversando tutte le difficoltà, sto costruendo una chiara direzione nella mia vita.
Vorrei concludere con un incoraggiamento di Sensei che mi ha sostenuto molto in questi anni: «Lo spirito di non arrendersi è tutt’uno con il voto condiviso di maestro e discepolo. Lo spirito di non arrendersi è un altro nome per indicare la condizione vitale di Buddità. Lo spirito di non arrendersi è la forza motrice della vittoria degli esseri umani. Finché nella Soka Gakkai continuerà a pulsare lo spirito di non arrendersi, sarà possibile lasciar scritta la storia immortale e vittoriosa delle persone comuni per i diecimila anni dell’Ultimo giorno della Legge e più, per l’eternità. I protagonisti di questo poema epico siete voi, giovani successori» (NR, 626, 26).