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La famiglia che ho scelto - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

20 dicembre 2025 Ore 14:48

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La famiglia che ho scelto

Daniela Verduci, Torino

«Mio padre sentiva tutto il peso del suo senso di colpa e del mio giudizio. E ciò che mi aiutò a superare quei primi momenti fu pensare che io nella sua condizione avrei voluto che mi fosse data un’altra possibilità»

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«Mio padre sentiva tutto il peso del suo senso di colpa e del mio giudizio. E ciò che mi aiutò a superare quei primi momenti fu pensare che io nella sua condizione avrei voluto che mi fosse data un’altra possibilità»

Avevo ventiquattro anni quando, dieci anni fa, sono andata per la prima volta a una riunione di discussione. Ero con mia mamma e mia sorella. Tutte e tre eravamo molto scosse dall’improvvisa morte della nonna. Quando ho iniziato a praticare il Buddismo mi sembrava che nella mia vita non ci fossero particolari problemi: ero convinta di vivere in una famiglia tutto sommato felice.
Mia madre lavorava tanto e si lamentava spesso della stanchezza e mio padre, pur lavorando, conduceva una vita abbastanza disordinata e tutte le sere era fuori casa. Mi ero fatta un’idea di mio padre come di un uomo libero, che faceva tutto quello che voleva senza render conto a nessuno, senza considerare che per noi era difficile ricucire i vuoti dati dalla sua assenza e dalla mancanza di soldi. Infatti la nostra famiglia aveva difficoltà economiche notevoli dovute al fatto che mio padre giocava enormi quantità di denaro al casinò. I miei studi universitari (frequentavo la facoltà di farmacia) proseguivano a rilento e senza entusiasmo né progetti e la mia vita sentimentale era disastrosa, in quanto spesso avevo al mio fianco ragazzi insicuri, incerti e superficiali.
I primi benefici della pratica riguardarono lo studio, tanto che in un anno sono riuscita a fare una quantità di esami sufficiente per poter chiedere la tesi.
Nel giugno del 1994 fui incoraggiata a pormi obiettivi ambiziosi in quanto sarebbe arrivato in Italia il presidente Ikeda. Benché non sapessi neanche che cosa significasse per me questo evento, stabilii alcuni obiettivi chiari tra cui quello di incontrare la persona più giusta per me.
Di lì a poco conobbi un ragazzo, Rodolfo, totalmente diverso dalle persone che avevo avuto vicino fino ad allora, e quel nuovo sentimento mi mise di fronte all’esigenza di concludere gli studi e diventare autosufficiente per poter vivere e sposarmi con lui.
Mentre cercavo di realizzare questo progetto, la mia famiglia di origine cominciò a sfaldarsi. Nel dicembre del 1995 mio padre se ne andò di casa e per mesi non avemmo sue notizie. Mia madre cadde in una profonda crisi depressiva. Tutti gli sforzi che aveva fatto fino ad allora per tamponare la situazione, erano crollati. Mia sorella diciottenne, inquieta, iniziò a stare spesso fuori casa, era scontrosa, ci prendeva in giro quando io e la mamma recitavamo Daimoku e detestava mio padre.
In mezzo a questa bufera, recitavo Daimoku ovunque durante la giornata e poi la sera, fino a tardi, davanti al Gohonzon, pensando alla frase del Gosho Il vero aspetto del Gohonzon: «Come una lanterna nell’oscurità, come un forte braccio che ti sostiene lungo un sentiero infido, il Gohonzon ti proteggerà, signora Nichinyo, dovunque tu vada» (SND, 4, 203).
Infine riuscii a laurearmi. Trovai subito lavoro e nel luglio del 1996 io e Rodolfo ci sposammo. Da quel momento considerai quella con Rodolfo la mia vera famiglia. Avevo un buon lavoro come farmacista, una bella casa, un marito che mi voleva bene. Dimenticai le sventure della mia famiglia di origine, mi sembrava normale che ognuno facesse la sua vita e, soprattutto, dimenticai di avere un padre.
Iniziò un periodo abbastanza lungo in cui, insieme alla pratica personale, mi dedicai alle altre persone, svolgendo varie attività buddiste. Queste azioni, e altre come visitare a casa o incoraggiare le persone a me vicine o parlare del Buddismo agli amici, mi davano una gioia profonda che non conoscevo e mi facevano sentire sempre più vicina al cuore del mio maestro.
Ogni tanto ricevevo notizie vaghe su mio padre: mi dicevano che era in miseria, sempre alla ricerca di prestiti, in locali e con amicizie poco raccomandabili. Mia sorella viveva una serie di vicissitudini sentimentali e lavorative disastrose; era sempre insoddisfatta e di praticare il Buddismo non ne voleva proprio sapere.
Mia madre riuscì a praticare in maniera più stabile e a trovare un maggiore equilibrio ma spesso era insicura e soffriva molto per mia sorella. I momenti più difficili erano il giorno del mio compleanno oppure le feste natalizie quando pensavo, con grande sofferenza, alla famiglia che avrei voluto avere e non avevo. Nonostante l’amore di mio marito e il lavoro dove professionalmente mi sentivo valorizzata, provavo sempre una sensazione di incompletezza.
Proprio un primo gennaio, rileggendo il Gosho di Capodanno rimasi colpita dalla frase: «L’Inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si prende cura di sua madre» (SND, 4, 271) e così capii l’origine del mio malessere.
Prendermi cura di mia madre che cominciava davvero a stare meglio mi sembrava più facile, mentre mi era impossibile pensare di riavvicinarmi a mio padre. Lo decisi davanti al Gohonzon, ma senza compiere azioni precise in questo senso né stabilire di recitare una determinata quantità di Daimoku per il mio scopo perché avevo molta paura di quello che poteva succedere.
Giungiamo così a luglio dell’anno scorso, in un momento dell’attività buddista molto particolare in cui mi sembrava di aver perso qualsiasi punto di riferimento. Una sera, tornando a casa da una riunione, mio padre mi aspettava sotto casa con una faccia che mi fece molta paura: aveva bisogno di soldi e mi sembrava disposto a qualsiasi cosa per averne. Non gli diedi nulla, ma il giorno dopo scoprii che aveva avvicinato mia sorella e si era fatto prestare tutti i suoi soldi, lasciandola senza niente. Questa vicenda fece nascere in me un odio tale da aver paura dei miei sentimenti nei suoi confronti.
Un giorno di metà ottobre 2002, dopo essere stata a trovare una ragazza, in treno lessi una guida del presidente Ikeda. Rimasi colpita da come sensei parlasse di “spegnere le fiamme dell’odio attraverso il dialogo”. Allora decisi nuovamente e con maggiore forza di riavvicinarmi a mio padre, decisi di recitare ogni giorno una certa quantità di Daimoku per questo scopo e infine gli telefonai.
I nostri primi incontri furono alquanto imbarazzanti e spesso recitavo Daimoku prima che venisse a trovarmi. Mio padre sentiva tutto il peso del suo senso di colpa e del mio giudizio. E ciò che mi aiutò a superare quei primi momenti fu pensare che io nella sua condizione avrei voluto che mi fosse data un’altra possibilità. La cosa più bella fu che iniziò a dirmi che, nonostante tutti gli eventi passati, mi voleva bene.
A novembre 2002 mio padre venne con me a una riunione; facemmo Gongyo insieme, ero molto tesa, ma anche tanto felice e gli regalai una copia del poema del presidente Ikeda.
Per rimediare ai debiti e alla disastrosa situazione economica, mio padre iniziò a svolgere anche i lavori più pesanti, per molte ore al giorno. Però era contento che lo cercassi e iniziò a venire con me alle riunioni di discussione. Una sera in cui dovevamo andare a una riunione si sentì male, improvvisamente gli si paralizzò una gamba e non riusciva a camminare: soffriva di ipertensione ma si era sempre trascurato. Io non sapevo che cosa fare, allora aprii il Gohonzon e insieme recitammo mezz’ora di Daimoku. Fu dura, ma sentii una grandissima gioia e la fortuna di avere proprio lui come padre. Ciò che capii davanti al Gohonzon è che se io oggi sto vivendo quest’esperienza di pratica buddista è comunque grazie al fatto di avere un padre così.
Quando finimmo di recitare mio padre stava benissimo, il suo dolore era passato e io sentivo che tutto il rancore che provavo si era sciolto.
Intanto mia sorella iniziò a farmi più domande su nostro padre. Una sera di maggio, appena tornata da un corso a Trets, passai a trovarla e mi raccontò dell’ennesima delusione sentimentale. Invece di ascoltarla superficialmente come avevo sempre fatto, decisi di incoraggiarla proprio come avevo appena incoraggiato le ragazze al corso. Il giorno dopo mia sorella iniziò a praticare regolarmente tutti i giorni, decise di telefonare a mio padre e si incontrarono.
A luglio mia mamma che vive e lavora già da un anno in Emilia Romagna è venuta a Torino. In occasione dell’ultima riunione di discussione di luglio siamo andati tutti e quattro alla riunione e poi insieme a mangiare una pizza: non mi sembrava vero! I rapporti con la mia famiglia sono totalmente cambiati. Oggi mi sento felicissima di avere avuto proprio questi genitori.

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