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Un prezioso scrigno - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:23

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Un prezioso scrigno

Il corpo è il palazzo della nona coscienza, ricorda Nichiren Daishonin. Il corpo, con cui spesso abbiamo un rapporto difficile, ha un ruolo fondamentale per la nostra felicità. Non solo contiene un tesoro ma lo è esso stesso

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Il corpo è il palazzo della nona coscienza, ricorda Nichiren Daishonin. Il corpo, con cui spesso abbiamo un rapporto difficile, ha un ruolo fondamentale per la nostra felicità. Non solo contiene un tesoro ma lo è esso stesso

15 settembre 2001, circuito automobilistico di Lausetzenring. Alex Zanardi, giovane e promettente pilota, non riesce a controllare la vettura e la sua auto viene centrata in pieno da un’altra. Non perde la vita, ma gli amputano tutte e due le gambe.
Dopo poco più di un anno Zanardi completa quel giro sullo stesso circuito, guidando con le sue protesi a 300 chilometri all’ora. A chi gli chiede perché lo ha fatto risponde: «Ci tenevo a venire qui a mostrare alla gente che non bisogna mai accettare passivamente un destino avverso: bisogna lottare per vivere la vita».
«La vita è il più prezioso di tutti i tesori – scrive Nichiren Daishonin –. Anche un solo giorno di vita in più ha maggior valore di dieci milioni di ryo d’oro. […] Un giorno di vita è molto più prezioso di tutti i tesori dell’universo, quindi, prima di tutto, devi accumulare una fede sincera. Questo è il significato del brano del settimo volume del Sutra del Loto quando afferma che bruciarsi il dito mignolo in offerta al Budda e al Sutra del Loto è meglio che donare tutti i tesori dell’universo. Una sola vita vale più di tutto l’universo. Hai ancora molti anni davanti a te, e inoltre hai incontrato il Sutra del Loto. Se vivi anche un solo giorno di più puoi accumulare una fortuna ancora più grande. Quant’è preziosa la vita!» (Il prolungamento della vita, SND, 4, 89-90).
Lottare per vivere la vita, le parole di Alex Zanardi esprimono un amore infinito, quello di un uomo consapevole della preziosità dell’esistenza, dell’importanza di tenersela stretta ogni giorno e di viverla al meglio.
Lo stesso concetto fa parte degli insegnamenti buddisti e spesso gli scritti di Nichiren Daishonin sottolineano che la vita di ogni essere umano ha un grande valore.
«Non cercare mai questo Gohonzon al di fuori di te. Il Gohonzon esiste solo nella carne mortale di noi persone comuni che abbracciamo il Sutra del Loto e recitiamo Nam-myoho-renge-kyo. Il corpo è il palazzo della nona coscienza, l’immutabile realtà che regna su tutte le funzioni della vita» (SND, 4, 203-4). Parole famose quelle che Nichiren Daishonin rivolge alla signora Nichinyo ne Il vero aspetto del Gohonzon. Parole importanti, quelle che dedica al corpo. Questo corpo, che in ogni specchio ricorda la sua presenza, questo corpo, amato, odiato, esibito o nascosto. È grazie a questo involucro fisico che non si stanca mai di farmi compagnia che posso ogni giorno assaporare la vita e imparare ad apprezzare la mia natura di Budda. Grazie a lui posso in ogni istante manifestarla. Solo per questo meriterebbe di essere amato.
Ciò non vuol dire essere ossessionati dalla propria forma fisica, ricercare a tutti i costi una prestazione sportiva superiore, magari grazie a compiacenti ritrovati della chimica, o affidare il proprio benessere alla poderosa circonferenza del bicipite. E neppure mortificarsi per seguire strategie nutrizionali fai-da-te o nelle quali ci si è imbattuti per caso seguendo il flusso del sentito dire. O magari cessare di mangiare, nello sforzo di sparire, nel corpo e nello spirito.
Prendersi cura di sé vuol dire innanzitutto cambiare punto di vista. Per il Buddismo il corpo e la mente sono inseparabili l’uno dall’altra; insieme formano un’entità indistinta che rende ciascun individuo qualcosa di irripetibile e prezioso, proprio grazie alle sue peculiari caratteristiche: un paio di baffi, un tono di voce, un muovere le mani, o quel sapermi capire senza che debba spiegargli tutto.
Cominciare a guardare con meraviglia il corpo, anche quando non ci piace poi così tanto e si vorrebbe essere un po’ più o un po’ meno qualcosa, a seconda, è più complicato di quanto sembri. Amarlo, poi, non è così facile; a volte, anzi, si preferirebbe dimenticarsene e lasciarlo nell’armadio come si fa con quel vestito che non ci piace più.
Tanto è vero che capita che venga in mente solo quando dà dei problemi, solo allora ci si ricorda e si rimpiange il benessere perduto.
Prendersi cura di sé è però qualcosa che va al di là delle strategie per mantenersi in forma o per rimanere in salute. Il benessere non è la ricerca di un farmaco che tenga lontane le sofferenze fisiche o quelle psicologiche e nemmeno il tentativo di impedire i cambiamenti allontanando ogni dubbio che possa turbare una tranquillità che assomiglia di più a una anestesia.
«Il dottor Cousins – scrive Daisaku Ikeda – sintetizzava il suo credo in una sola parola, speranza. La speranza, diceva, era la sua arma segreta. Durante le nostre conversazioni, disse: “La morte non è la più grande tragedia che si possa abbattere su di noi. Molto più tragico che una parte di noi stessi muoia mentre siamo ancora in vita. Non c’è tragedia più terribile di questa. Ciò che conta è portare a termine qualcosa in questa vita”. La salute non è semplice assenza di malattia. Essere sani implica una sfida costante e una costante creatività. Una vita feconda, una vita davvero sana è in costante avanzamento, apre scenari sempre nuovi. Uno spirito indomito dà il potere di andare avanti» (Il bene più prezioso, pag. 5).
Sembra facile lo spirito indomito, ma là fuori c’è lui, il corpo, a respirare aria inquinata, a mangiare cose che magari proprio sane non sono, a sopportare «le sferzate e le irrisioni del tempo, i torti dell’oppressore, le offese dei superbi, le pene di un amore respinto, i ritardi della legge, l’arroganza dei potenti, gli scherni che il meritevole pazientemente subisce da parte di gente indegna» come direbbe Amleto.
Ed ecco che zitto zitto si affaccia quel sentirsi fuori posto, quel pensare che gli altri “ce l’hanno con me”, quella sfiducia in se stessi e nel mondo che lascia dentro come un buco, un dolore antico e sordo, una ferita sempre pronta a sanguinare. E magari succede anche che questo dolore interiore, subdolo si infila nel corpo. Il mal di testa insistente che funesta il fine settimana, lo stomaco che fatica a fare il suo lavoro, tutti messaggi d’allarme, sintomi di una malattia senza nome. Con poche parole la descrive Ungaretti: «Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia.»
Eppure nel Dhammapada Sha-kya-muni afferma: «Viviamo gioiosamente, non sofferenti tra le sofferenze. Dimoriamo privi di sofferenza tra gli uomini sofferenti. Dimoriamo gioiosamente, non agitati tra l’agitazione. Dimoriamo privi di agitazione, tra gli uomini agitati». E questo non è un invito a rifugiarsi nell’illusione o in un’ebete rassegnazione.
Vuol dire partire da ciò che mi è più vicino per trasformare il mondo ben oltre la linea dell’orizzonte. Vuol dire rivoluzionare la mia vita, prenderla qui, tra le mani, e portarla verso la felicità. Una felicità capace di essere così grande che non riesco a tenerla tutta per me, ma la devo condividere.
Una felicità nella quale il corpo ha un ruolo fondamentale. Sono felice perché posso stabilire una relazione con gli altri, sono felice di guardare il sorriso sdentato della mia bambina, di accarezzare il mio gatto, di ascoltare una canzone, di parlare con un’amica e magari aiutarla a sperare ancora, a dispetto delle apparenze immediate.
Perché i miei occhi, le mie mani, le mie orecchie, la mia bocca, i miei pensieri, mi aiutano a manifestare la mia forza vitale, a riconoscermi Budda tra tanti altri Budda, a capire, ascoltare, amare, vivere. E in questo vivere è importante amarsi e rispettarsi e cercare il più possibile di prendersi cura di sé, come si fa con le cose alle quali si tiene in modo particolare e si vuole che durino a lungo.
Rispettare i propri ritmi, i limiti inevitabili dell’età, cedere alla benedizione del sonno quando serve, curarsi all’occorrenza, consolarsi o farsi consolare nei momenti in cui se ne ha bisogno, sono tutti modi di riconoscere la preziosità della vita.
È uno scrigno il mio corpo, anzi è lui stesso il tesoro. Un tesoro che comprende tutte le parti di me, quelle che preferisco e quelle che volentieri dimenticherei. C’è il coraggio di affrontare ogni giorno la vita, così come è senza chiedere sconti, la saggezza per dire tra le tante proprio le parole che servivano, la forza da trasmettere anche a chi pensa di averla perduta.
Ma c’è anche la paura di sbagliare, che ogni volta mi aiuta ad usare al meglio la mia preghiera, il dolore, grazie al quale posso comprendere più a fondo i dolori degli altri, la rabbia, che posso trasformare in impegno contro le ingiustizie. “Dal letame nascono i fiori” e qualunque aspetto della mia vita, anche quello meno “presentabile”, può diventare il mezzo che mi permette di trasformare il peso delle sofferenze nella libertà della gioia.
Anche quei difetti che fanno parte di me e che considero un male inevitabile, alla luce della mia natura di Budda diventano punti di forza, uno stimolo per capire che ognuno di noi è molto di più della somma delle sue singole parti.
Facendo emergere la natura di Budda le dissonanze si armonizzano, come quando in un’orchestra si accordano i suoni e il tamburo trova il suo posto accanto al violino.
«Perfino un devoto del sutra che sia incapace, che manchi di saggezza, che abbia un corpo impuro o che non osservi i precetti, sarà sicuramente protetto finché recita Nam-myoho-renge-kyo – si legge nel Gosho Sulle preghiere –. Non gettar via l’oro solo perché la borsa che lo contiene è sporca; se gli alberi di eranda fossero detestati per il loro lezzo, non ci sarebbe il legno di sandalo. Chi evita lo stagno in fondo alla valle perché è melmoso, non può cogliere i fiori di loto» (SND, 9, 183).
Ognuno di noi è una Torre Preziosa, il nostro corpo, come quello di Abutsu-bo, «è composto dei cinque elementi universali di terra, acqua, fuoco, vento e ku. Questi cinque elementi sono anche i cinque caratteri del Daimoku. Perciò Abu-tsu-bo è la Torre Preziosa stessa, e la Torre Preziosa è Abutsu-bo stesso. Senza questa consapevolezza tutto il resto è inutile» (La torre preziosa, SND, 4, 212).
Ci sono dei momenti nei quali posso anche sentirmi una borsa sporca, ma non devo permettermi di dimenticare che dentro c’è una ricchezza infinita, la mia Buddità. Quella Buddità che mi porta ad amare me e gli altri non “nonostante” ma proprio “grazie a” tutte le imperfezioni, così vere, così umane, così mie.

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