Dall’analisi generale degli scritti di Nichiren Daishonin fino alla trattazione ragionata e dettagliata delle persecuzioni subite dal Daishonin. Il riassunto delle tredici puntate che saranno l’argomento dei prossimi esami del dipartimento di studio
L’importanza degli scritti di Nichiren Daishonin (NR 256, 16-24)
«Il Gosho è la scrittura buddista per l’Ultimo giorno della Legge» afferma Daisaku Ikeda all’inizio del Mondo del Gosho, la serie di dialoghi che sta conducendo insieme ad alcuni responsabili del Dipartimento di studio della Soka Gakkai in cui l’insegnamento di Nichiren Daishonin viene approfondito alla luce dei suoi scritti, dimostrando quanto essi siano coerenti e inseparabili dal suo comportamento e dai vari eventi che hanno caratterizzato la sua vita. Su quali elementi si basa un’affermazione apparentemente così forte?
Nei testi buddisti l’Ultimo giorno della Legge, che ha inizio tradizionalmente 2500 anni dopo la morte del Budda, viene descritto come un’epoca travagliata e piena di conflitti in cui fra le persone ad ogni livello prevale la tendenza a scontrarsi. Il Daishonin si rese conto che il Giappone del suo tempo rispecchiava fedelmente tutte le caratteristiche di quest’epoca e l’effetto principale di questa corrente sotterranea fatta di lotte per il potere e di autoaffermazione a spese degli altri era il dilagare dell’infelicità e della miseria fra la gente comune. Di fronte a queste sofferenze il Daishonin decise di ricercare «il modo per riuscire a vivere in un’epoca simile, cambiando radicalmente la propria esistenza per ottenere la felicità assoluta e allo stesso tempo trasformare la società». Ma la sua ricerca non si limitò all’analisi di testi e documenti, come afferma Ikeda «fu una battaglia che consumò tutto il suo essere. La vita del Daishonin fu un susseguirsi di lotte per condurre all’Illuminazione le persone dell’Ultimo giorno».
In un’epoca che vede tumulto e confusione sia nella società che nel mondo religioso, solo un insegnamento che permette a ciascuno di manifestare la propria innata natura di Budda può condurre tutte le persone alla felicità e trasformare il corso dei tempi. In altre parole, l’unico modo per realizzare felicità e pace per tutti nell’Ultimo giorno è sviluppare l’enorme potenziale contenuto nell’essere umano.
Per questo il Gosho è inseparabile dal re dei sutra, cioè il Sutra del Loto, l’insegnamento che afferma l’unicità e il supremo valore della vita di ogni singolo essere vivente e la possibilità per tutti di rivelare le proprie immense potenzialità in questa vita. Il Gosho e il Sutra del Loto si rivelano particolarmente adatti a questa epoca in quanto per contrastare conflitto, individualismo e sete di potere occorre un grande umanesimo. Non antropocentrismo, tiene a sottolineare Ikeda, ma umanesimo pieno di rispetto per tutte le altre forme di vita e di fiducia nelle illimitate possibilità degli uomini di vivere in armonia fra loro e con l’ambiente naturale. Umanesimo basato sulla ferma convinzione che la natura di Budda esiste, in noi e negli altri.
Il Gosho, la vita del Daishonin, il movimento di kosen-rufu hanno tutti origine dal “grande desiderio” di Nichiren che poi è il “desiderio orginario della vita” di ogni essere umano: essere pienamente felici insieme agli altri. Il grande desiderio è il voto che il Budda esprime nel Sutra del Loto: permettere ad ogni persona di ottenere la sua stessa condizione vitale di Illuminazione. E il voto solenne del Daishonin è di diffondere la Legge che permette di trasformare il desiderio del Budda in realtà.
Le due grandi promesse: diventare il più saggio per aiutare gli altri (NR 259, 11-19)
A dodici anni, animato dal desiderio di ripagare il debito di gratitudine verso i suoi genitori e le persone a lui vicine, il Daishonin giura di diventare la persona più saggia del Giappone. L’effetto di questo suo primo voto per la felicità degli altri è l’acquisizione di “un gioiello di saggezza”, una condizione illuminata che gli permetterà di condurre un’approfondita ricerca sui testi buddisti. Ne risulterà la “scoperta” che è Nam-myoho-renge-kyo l’insegnamento adatto per condurre le persone all’Illuminazione, che lo porterà a formulare il secondo voto poco prima di proclamare il suo insegnamento: il voto di realizzare kosen-rufu affrontando quasiasi persecuzione per diffondere la Legge. Questo secondo voto e le persecuzioni che effettivamente poi affronterà per mantenerlo gli permetteranno di abbandonare la sua identità provvisoria e rivelare la vera identità, quella di un comune mortale che è riuscito a manifestare lo stato di Buddità che esiste da sempre in ogni persona.
Come afferma Daisaku Ikeda: «In sintesi potremmo delineare queste tappe nella vita del Daishonin: voto, Illuminazione, voto più profondo, Illuminazione più pro-fonda».
È un percorso che è uguale per tutti i Budda. Gli esempi di Shakyamuni e Nichiren Daishonin, ma anche di T’ien-t’ai, Makiguchi e Toda ci mostrano che un Budda non è un essere assoluto che dopo l’Illuminazione si ritira dal mondo per goderne i frutti. Al contrario è una persona che condivide le sofferenze degli altri, di tutta l’umanità e riflette seriamente su come cambiare questa situazione. Per questo fa voto di condurre all’Illuminazione i suoi simili e di trasformare radicalmente la società in cui vive. E la forza del suo voto produce una copiosa saggezza, un’Illuminazione la cui portata cresce, in un processo senza fine, al crescere della sua compassione per gli altri.
L’esposizione dell’insegnamento e la critica alle quattro scuole (NR 261, 12-19)
Il 28 aprile 1253 il Daishonin comincia a “lavorare” per mantenere il suo voto, proclamando ufficialmente il proprio insegnamento. Saito, Morinaka e Ikeda analizzano le circostanze storiche, le riflessioni che portarono il Daishonin alla decisione di esporlo e la refutazione delle principali scuole buddiste dell’epoca. Alla base della sua decisione c’era sempre il “grande desiderio”, la voglia di diffondere Nam myoho-renge-kyo, l’insegnamento in grado di permettere ad ogni persona di rivelare la propria intrinseca natura di Budda e diventare felice, così come aveva fatto lui. Così facendo sapeva già che avrebbe incontrato grandi difficoltà ed era pronto a battersi per questo. La refutazione delle altre scuole principali dell’epoca non deriva da un atteggiamento fanatico ed esclusivista ma è solo una critica logica e puntuale a queste scuole, sintetizzata nelle quattro massime: 1) Il Nembutsu conduce all’inferno di incessante sofferenza, 2) lo Zen è un invenzione dei demoni celesti, 3) Lo Shingon è una dottrina perversa che distruggerà il paese e 4) la setta Ritsu è una traditrice della nazione (vedi SND, 9, 104).
Nelle quattro massime il Daishonin mise in luce il fanatismo e l’ipocrisia con cui le scuole buddiste tradizionali del suo tempo celavano la propria vera natura dietro la maschera dell’autorità religiosa. Alla base delle quattro massime c’è la compassione del Daishonin e il suo desiderio di proteggere le persone comuni.
Per la pace nel paese (NR 263, 12-21 e NR 268, 13-21)
Ikeda spiega che la vita del Daishonin ruota in larga misura intorno al Rissho ankoku ron (Adottare la dottrina corretta per la pace del paese), il più noto trattato del Daishonin col quale si dice che comincino e finiscano i suoi insegnamenti, in quanto l’obiettivo fondamentale della sua propagazione era proprio concretizzare il principio di “adottare la dottrina corretta per la pace del paese”.
«Tuttavia – osserva Saito – penso che non esista un principio più frainteso dai giapponesi di quello che viene esposto in quest’opera»; un fraintendimento che ha aperto la porta al Nichirenismo, l’interpretazione nazionalista del pensiero di Nichiren, sorta nel Giappone moderno. Per sgombrare il campo dalle interpretazioni errate occorre chiarire anzitutto che cosa significa “adottare la dottrina corretta”.
«Nella nona e nella decima sezione del trattato – puntualizza Ikeda – il Daishonin spiega che la chiave per realizzare il principio di “adottare la dottrina corretta per la pace del paese” risiede in una riforma delle proprie convinzioni. Vale a dire che trasformare radicalmente se stessi è la base per “adottare la dottrina corretta”».
Inoltre, ai tempi del Daishonin le varie sette religiose cercavano di accaparrarsi i favori dei potenti, pregando per loro senza curarsi della felicità delle persone comuni, sempre a caccia di concessioni e di privilegi. «E insistevano nel sostenere erroneamente che quest’intima relazione col potere dimostrava che legge buddista e potere secolare erano complementari» precisa Morinaka.
A quell’epoca la relazione fra potere secolare e Legge buddista in Giappone era piuttosto contorta. In origine il termine “potere secolare” indicava le varie istituzioni governative e sociali e “Legge buddista” l’insegnamento esposto dal Budda per condurre le persone alla felicità e il metodo per praticarlo. Nell’accezione comune invece il “potere secolare” era giunto a denotare i funzionari governativi che ricoprivano cariche influenti e la “Legge buddista” quei preti malvagi che sfruttavano la propria autorità per manipolare i potenti a loro vantaggio.
Ma il Buddismo del Daishonin è un insegnamento che ha come obiettivo la felicità della gente comune nel quale il principio di “fusione del potere secolare e Legge buddista” (obutsu myogo) lungi dal prospettare connivenze fra politica e religione sta a significare la fioritura dello spirito umanista del Buddismo in ogni campo delle attività umane per costruire una società la cui preoccupazione principale sia davvero la felicità di tutti coloro che la compongono.
La discussione sul Rissho ankoku ron prosegue con l’analisi del significato di “pace del paese”. I due concetti che compongono il titolo del trattato sono indissolubilmente legati: adottare la dottrina corretta è la condizione basilare per realizzare la pace del paese e quest’ultima è l’obiettivo fondamentale per cui adottare la dottrina corretta.
Ma il significato dell’espressione “pace del paese” cambia notevolmente in relazione a cosa s’intende per “paese”.
Nel dialogo iniziale del Rissho ankoku ron, in cui il padrone di casa e l’ospite si lamentano delle misere condizioni della gente comune e dell’impotenza della religione ad alleviarle, abbiamo già il primo indizio di ciò che sta a cuore al Daishonin: creare una nazione pacifica che veda al primo posto il benessere del popolo e non gli interessi dei potenti.
Un’ulteriore prova di ciò risiede nei tre diversi caratteri cinesi di cui il Daishonin fa uso nel trattato per esprimere la parola “paese”. Uno è l’ideogramma che rappresenta un re all’interno del suo territorio. Un altro raffigura un’arma all’interno di un territorio, a significare protezione armata del paese. Tuttavia, nell’80% dei casi in cui la parola “paese” appare nel trattato, il Daishonin usa il carattere che raffigura il popolo all’interno di un territorio.
«Quel carattere – fa notare Ikeda – sta a significare che il paese è il luogo in cui dimorano le persone. Forse il Daishonin voleva esprimere l’enorme rilevanza del paese in cui si vive per la felicità della gente».
Siamo Budda adesso (NR 270, 12-23)
A questo punto Ikeda propone di analizzare uno dei nuclei centrali dell’insegnamento di Nichiren Daishonin, l’affermazione «che lo scopo dell’esistenza è il raggiungimento della Buddità in questa vita». Tutte le persone sono intrinsecamente Budda e anche se può esserci differenza nella velocità con cui ottengono la Buddità, tutte possono riuscirci senza alcun dubbio nella loro vita presente. «L’idea che ognuno di noi possa concretamente ottenere la Buddità in questa vita è rivoluzionaria. Ci permette di apprezzare il significato della nostra vita a un livello più profondo» osserva Saito. «A questo punto le domande più urgenti diventano: “Cosa significa raggiungere la Buddità?” e “Cosa significa esattamente Buddità e che modo di vivere richiede?”» che costituiscono l’argomento di questa puntata, tutta incentrata sull’analisi di uno dei Gosho più conosciuti e letti, Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza.
In esso viene enunciata esplicitamente la conclusione a cui Nichiren era giunto nelle sue ricerche: per liberarsi dalle sofferenze di nascita e morte dobbiamo «percepire la mistica verità che è intrinsecamente connaturata alla vita degli esseri viventi». Il Budda percepisce che la sua vita è Myoho-renge, che tutta la vita è Myoho-renge e che ogni essere vivente incarna questa Legge. Per questo il Budda è pieno d’amore e compassione verso tutte le persone e nutre nei loro confronti sentimenti paragonabili a quelli di un genitore verso i figli che trovano espressione nei versi del Sutra del Loto che il Daishonin chiama “il compassionevole voto del Budda”: è la frase finale del sedicesimo capitolo, Durata della vita del Tathagata, che conclude la cerimonia di Gongyo, «Questo è il mio pensiero costante: come posso far sì che tutti gli esseri viventi accedano alla via suprema e acquisiscano rapidamente il corpo di Budda?».
Sempre ne Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza si afferma che «la mistica verità che è intrinsecamente connaturata alla vita degli esseri viventi» è la «reciproca inclusione tra un singolo istante di vita e tutti i fenomeni».
«Questo principio – osserva Saito – insegna che l’intero mondo che ci circonda ha origine dalla nostra mente. Ha molto in comune con il principio dei “tremila regni in un singolo istante di vita”».
«È il principio – spiega Ikeda – per cui quando noi cambiamo il mondo cambia, su cui si basa il concetto di “rivoluzione umana” e di “adottare la dottrina corretta per la pace del paese”. Tutto dipende da noi. Non possiamo biasimare gli altri. Tutto ritorna a noi, gli altri non c’entrano. Se non comprendiamo questo non stiamo abbracciando la Legge mistica».
Come afferma Nichiren Daishonin ne Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza, spiegando l’atteggiamento che si dovrebbe avere nella fede: «Quando reciti myoho e invochi renge dovresti essere profondamente convinto che Myoho-renge-kyo è la tua stessa vita».
È una questione di consapevolezza, di fede nel fatto che noi, la nostra vita e quella di chiunque altro è la Legge mistica. Come affermava Josei Toda, «la nostra esistenza di comuni mortali è l’espediente segreto e mistico, la verità è che noi siamo Budda».
Il punto fondamentale è crederlo, il che equivale ad avere fede nella Legge mistica e vivere in base a questa convinzione. Per questo Morinaka conclude affermando che «l’azione stessa di continuare a credere in Myoho-renge-kyo costituisce l’ottenimento della Buddità». Si tratta del primo accenno al principio per cui “abbracciare la Legge è di per sé Illuminazione” alla cui discussione in seguito verrà dedicata un’intera puntata.
Unità e diversità (NR 272, 11-19)
Ci sono due tipi di relazioni umane basate sulla Legge buddista dalle quali dipende la realizzazione di kosen-rufu. La prima è quella fra maestro e discepolo che si instaura quando qualcuno ha qualcosa da trasmettere a qualcun altro, in questo caso la Legge mistica. La seconda è quella fra compagni di fede che dovrebbe essere basata sul principio di itai doshin (diversi corpi, una sola mente). Queste due tipi di relazioni sono paragonabili alla trama e all’ordito di un tessuto. La relazione di itai doshin denota l’unità fra persone che pur mantenendo la propria preziosa e insostituibile diversità individuale perseguono uno stesso scopo in armonia e rispettandosi fra loro.
«È un tipo di unità – sottolinea Ikeda – in cui si valorizza al massimo l’individualità di ogni persona, permettendogli di esprimersi appieno»; e prosegue: «“Diversi nel corpo” indica la consapevolezza che la missione, le capacità e le circostanze di vita di ognuno di noi sono uniche. “Uno nella mente” significa che nonostante la nostra individualità, dobbiamo essere uniti nello spirito. Al contrario “diversi nel corpo e diversi nella mente” descrive una situazione di totale disunità, mentre nel caso di “uno nel corpo, uno nella mente” è il pensiero del gruppo a dominare, l’individualità viene ignorata e il risultato finale è il totalitarismo. In entrambe i casi non viene permesso alle persone di manifestare le proprie capacità uniche».
«L’organizzazione ideale – concorda Morinaka – è quella in cui molte persone diverse sono unite dallo stesso spirito e con tale spirito alla base esse agiscono in gruppo in vari modi diversi».
Nell’Eredità della Legge fondamentale della vita, il Daishonin scrive che attraverso una fede basata su itai doshin, «anche il grande desiderio di kosen-rufu può essere realizzato senza alcun dubbio» (SND, 4, 217) e nel Gosho Itai doshin egli afferma che tramite l’unità di itai doshin i suoi discepoli «realizzeranno la grande missione di propagare il Sutra del Loto» (SND, 4, 268).
Avere la stessa mente significa condividere il desiderio di realizzare kosen-rufu, il grande desiderio del Budda di condurre tutte le persone all’Illuminazione. E poiché viviamo in un’“epoca corrotta” per riuscire a farlo è indispensabile incoraggiarsi a vicenda ed essere “buoni amici” gli uni degli altri. La caratteristica delle “funzioni demoniache”, le forze che cercano di ostacolare il raggiungimento della Buddità a livello individuale e la realizzazione di kosen-rufu a livello collettivo è sempre quella di distruggere l’unità fra le persone.
Per questo Nichiren ammonisce severamente i suoi seguaci dal parlare male gli uni degli altri: «Per quanto possa non piacerti, devi stringere rapporti amichevoli con loro» (SND, 4, 175); «Anche se i tuoi fratelli sono in parte colpevoli, devi fare finta di nulla» (GZ, 1176); «Devi mantenere buoni rapporti con gli altri credenti senza vedere, sentire o rilevare ciò che può dispiacerti» (SND, 6, 177).
Osserva Ikeda: «Noi siamo tutti Budda. Dunque criticarci a vicenda è come criticare un Budda. E dato che siamo tutti Budda, dobbiamo rispettarci». E: «La cosa importante è voler realizzare kosen-rufu a tutti i costi. Allora non rimane tempo per i litigi. Nichiren più di una volta mette in guardia i praticanti buddisti dal bisticciare stupidamente di fronte al nemico, paragonando la loro condotta a quella “della vongola e del cormorano”, catturati dal pescatore mentre sono occupati ad accapigliarsi fra loro».
Un cuore di leone (NR 274, 15-21)
«“Unicità di maestro e discepolo” – dice Ikeda – significa portare avanti in prima persona lo spirito di Nichiren Daishonin che è il “re leone”. Agendo così diventiamo “i cuccioli del re leone”». E spiega che la chiave sta nel coraggio e nella forza vitale, latente in noi, che si manifesta quando decidiamo coraggiosamente di proteggere la Legge. È allora che riveliamo lo stato vitale di Buddità.
«Nel Buddismo il cuore del re leone è la condizione vitale interiore di una persona che grazie alla Legge mistica ha vinto sull’oscurità fondamentale inerente alla vita e manifesta il potere dell’Illuminazione. È la Buddità che si manifesta se riusciamo a superare le illusioni innate della vita grazie a una forte fede. Perciò il “cuore del re leone” ha la saggezza e la compassione del Budda. La fede è la causa e la condizione vitale della Buddità è l’effetto. Sia la causa che l’effetto sono contenuti in un singolo istante vitale».
Nei sutra il leone simboleggia spesso la Buddità e in ogni epoca e in ogni parte del mondo sono tanti i simboli e i concetti associati al leone: sovranità, coraggio, valore, calma, assenza di paura, ma anche immortalità e perenne giovinezza. Il leone rappresenta il sole, il potere della parola e la vittoria sul male. Per questo, come il leone è il re degli animali, il Sutra del Loto viene definito il re dei sutra.
«Ma la cosa più importante – dichiara Ikeda – è l’unicità di maestro e discepolo, il fatto che un cucciolo di leone diverrà anch’esso un leone. Con questa frase il Daishonin ci insegna a combattere con lo stesso spirito del maestro».
Il Sutra del Loto insegna che tutte le persone sono Budda e il desiderio di Shakyamuni era che tutti potessero ottenere una condizione vitale elevata come la sua. Perciò l’essenza della relazione maestro discepolo non risiede in un rapporto di dipendenza ma nella coraggiosa decisione di prendere esempio dalla dedizione del maestro e perseguire con la stessa forza e lo stesso coraggio lo scopo comune.
È una questione di coraggio, un coraggio che scaturisce dalla compassione.
In Lettera a Gijo-bo il Daishonin afferma esplicitamente che non risparmiare la propria vita è la strada per rivelare la condizione vitale della Buddità. E lo fa in base al suo esempio personale affermando di aver manifestato la propria Buddità vivendo e mettendo in pratica la frase del Sutra del Loto: «Con un’unica mente desiderano vedere il Budda e non esitano nemmeno a costo della vita». Per questo il Daishonin esorta a praticare esattamente come ha fatto lui. Solo lottando sinceramente per la felicità della gente come ha fatto Nichiren Daishonin è possibile ottenere la Buddità.
Persecuzione di Matsubagayatsu ed esilio di Izu (NR 276, 17-21 e NR 278, 16-21)
Ma una simile battaglia è destinata ad attirare persecuzioni su chi la combatte. Quando il Sutra del Loto viene diffuso nell’Ultimo giorno della Legge, l’“epoca di conflitti in cui la vera legge è andata perduta e oscurata” gli altri insegnamenti esposti da Shakyamuni ne ostacolano la pratica e fanno sorgere le funzioni della natura demoniaca intrinseca alla vita che blocca la strada per l’ottenimento della Buddità.
Questa è la causa profonda delle persecuzioni dell’Ultimo giorno che, come spiega il Sutra del Loto, dopo la morte di Shakyamuni si manifesteranno sotto forma di attacchi da parte dei “tre potenti nemici”descritti nel capitolo tredicesimo capitolo Esortazione alla devozione: 1) laici ignoranti di Buddismo che denunceranno i devoti del Sutra del Loto e li attaccheranno con spade e bastoni, 2) preti arroganti e astuti che calunnieranno i devoti, 3) preti che godono del pubblico rispetto e che temendo di perdere fama e profitto indurranno le autorità secolari a perseguitare i devoti.
Decidendo di diffondere la Legge mistica a costo della propria vita Nichiren Daishonin fece puntualmente apparire i tre potenti nemici, uno dopo l’altro.
Le persecuzioni ebbero inizio immediatamente dopo la proclamazione del suo insegnamento e le principali furono quattro: la persecuzione di Matsubagayatsu (1260), l’esilio di Izu (1261), la persecuzione di Komatsubara (1264) e la persecuzione che ebbe inizio con il tentativo di esecuzione a Tatsunokuchi e proseguì con l’esilio a Sado (1271).
Appena proclamato ufficialmente il suo insegnamento, nel sermone che pronunciò a mezzogiorno del 28 aprile 1253 al tempio Seicho-ji, il Daishonin fu costretto a fuggire a causa dell’ostilità del signore del luogo Tojo Kagenobu, fervente credente Nembutsu che era riuscito a indurre i monaci più rappresentativi del tempio a convertirsi alle idee della setta Nembutsu. Nel suo sermone il Daishonin aveva refutato aspramente quella religione, definendola un “insegnamento che conduceva all’inferno di incessante sofferenza”, suscitando così le ire di Kagenobu che aveva fatto minacciare anche Dozen-bo, il vecchio maestro del Daishonin, per indurlo ad allontanare quest’ultimo dal Seicho-ji.
Lasciato il Seicho-ji, il Daishonin si trasferì a Kamakura dove si costruì un alloggio a Matsubagayatsu e diede inizio a un’intensa attività di propagazione.
Nel Rissho ankoku ron, il trattato che compose per riassumere le conclusioni a cui era giunto, ha un grande peso la confutazione del Nembutsu, la religione che egli definiva l’unico grande male alla base delle sofferenze della persone. Fu recapitato all’ex reggente Hojo Tokiyori, che continuava a rimanere il membro più influente del clan reggente dello shogunato di Kamakura, il 16 luglio 1260 e, poco più di un mese dopo, il 27 agosto, ebbe luogo la persecuzione di Matsubagayatsu dove la capanna in cui viveva fu attaccata da una banda di seguaci Nembutsu e il Daishonin riuscì per un pelo a fuggire.
Dopo la persecuzione di Matsu-bagayatsu, il Daishonin fece ritorno a Kamakura dove il prete Doamidabutsu, capo dei credenti Nembutsu della zona e probabilmente implicato nella persecuzione, lo sfidò in un dibattito dottrinale. Ma dopo le prime due o tre affermazioni il Daishonin lo confutò con facilità e lo sconfisse.
Così i Nembutsu cominciarono a diffamarlo alle spalle, incitando la gente ad attaccare le case dei suoi seguaci e cercando di influenzare le autorità locali con varie calunnie nei suoi confronti.
A causa di queste ripetute calunnie, il 12 maggio 1261 il reggente Hojo Nagatoki condannò il Daishonin all’esilio a Izu. Come effetto delle persecuzioni nei confronti del Daishonin il clan Nagatoki andò distrutto.
Ma questa prima ondata di persecuzioni, rafforzò le convinzioni del Daishonin. Vedendo nell’esilio di Izu le prime avvisaglie della comparsa del terzo potente nemico, si convinse ancor più profondamente di essere veramente il devoto del Sutra del Loto che avrebbe condotto all’Illuminazione le persone dell’Ultimo giorno della Legge.
Le persecuzioni di Komatsubara e Tatsunokuchi (NR 282, 17-21 e NR 284, 17-21 e NR 286, 15-21)
Nell’autunno del 1264, poco dopo il ritorno dall’esilio di Izu, il Daishonin fece ritorno ad Awa, suo paese natale, per vedere la madre ammalata e far visita alla tomba del padre.
L’11 novembre nei pressi di Komatsubara, il suo antico nemico Tojo Kagenobu lo attaccò con una banda di seguaci Nembutsu mentre era in viaggio verso la residenza del suo discepolo Kudo Yoshitaka.
Uno dei discepoli che lo accompagnarono rimase ucciso sul colpo mentre due riportarono gravi ferite e uno di loro morì poco dopo.
Anche il Daishonin, che riuscì fortunosamente a scampare alla morte rifugiandosi fra le montagne, fu seriamente ferito.
I suoi persecutori ricevettero evidenti retribuzioni negative per le cause che avevano posto. Il diretto responsabile, Kagenobu, morì poco dopo e la stessa sorte toccò a Enchi-bo e Jitsujo-bo che erano stato suoi alleati nel minacciare il maestro del Daishonin, Dozen-bo.
La persecuzione di Tatsunokuchi ebbe luogo al culmine di una grave crisi scatenata dalla minaccia dell’invasione mongola. Lo shogunato di Kamakura, un regime militare, decise di combattere il nemico: il paese divenne sempre più militarizzato con la concentrazione del potere in mano a pochi e le varie scuole buddiste fecero a gara nel proporre al governo i propri rituali per sconfiggere la potenza straniera.
Il Daishonin, che vedeva avverarsi la propria profezia di invasione straniera, sosteneva che era soprattutto il potere di una filosofia corretta che poteva proteggere veramente la popolazione e le sue idee guadagnavano sempre più seguito.
Nel mondo religioso era apparso un personaggio chiave: Ryokan priore del tempio Gokuraku-ji. Molte figure centrali del governo si convertirono alla scuola Shingon-Ritsu.
Con il sostegno del clan reggente Hojo, che rappresentava il primo potente nemico, i Nembutsu, rappresentanti del secondo potente nemico, adesso cospiravano con Ryokan, il terzo potente nemico, e nel 1271 questa alleanza iniziò ad attaccare il Daishonin e i suoi discepoli. Sempre in quel periodo, la gestione dei principali servizi pubblici passò dalla scuola Nembutsu a quella Shingon-Ritsu.
Il Daishonin, che sin dagli anni attorno al 1260 aveva cominciato a mettere in luce non più solo gli errori della setta Nembutsu e Zen ma anche quelli della scuola Shingon-Ritsu, si era reso lucidamente conto di cosa stava accadendo. E, poiché teneva d’occhio quell’alleanza, ammonì che l’effetto risultante sarebbe stato il caos e l’infelicità generale.
A precipitare le cose vi fu la sfida di Nichiren Daishonin a Ryokan sulle preghiere per la pioggia nel 1271. In Lettera di petizione di Yoritomo il Daishonin scrive: «Decideremo qual è l’insegnamento corretto attraverso la preghiera per la pioggia. Se piove entro sette giorni potrete credere di rinascere nella Pura Terra in virtù degli otto precetti del Nembutsu. Ma se non piove, dovrete riporre la vostra fede unicamente nel Sutra del Loto». Ryokan, che si era conquistato una certa fama anche come prete capace di pregare per la pioggia, in un periodo in cui il Giappone era afflitto da ripetute siccità, fu entusiasta e annunciò ai suoi discepoli che avrebbe fatto piovere entro sette giorni.
Ma dopo sette giorni non era piovuto e, nonostante la proroga di una settimana, alla fine fu evidente che Ryokan era stato sconfitto.
Invece di ammettere la propria sconfitta, Ryokan fece inoltrare una falsa denuncia nei confronti del Daishonin e dei suoi discepoli che però cadde nel vuoto per assenza di prove. Allora ricorse ad un’altra strategia, sfruttando preti suoi sottoposti e altri intermediari in contatto con personaggi influenti per continuare a diffondere calunnie nei confronti del Daishonin.
Il 10 settembre, per effetto del complotto di Ryokan, il Daishonin fu convocato di fronte al governo e interrogato dal capo della polizia Hei no Saemon, al quale ripeté con calma le conclusioni a cui era giunto nel Rissho ankoku ron. Ma anche questa volta non fu ascoltato e il 12 settembre 1271, un contingente di centinaia di soldati armati di tutto punto capeggiati da Hei no Saemon si presentò presso la sua dimora di Matsubagayatsu per arrestarlo come se si trattasse di un traditore della nazione.
In seguito «fu trascinato per i vicoli di Kamakura alla luce del giorno e trattato come un nemico della casa imperiale» (GZ, 1252). E, senza alcun processo, fu destinato all’esilio sull’isola di Sado. Ma in realtà era già stato deciso di giustiziarlo. Come egli stesso afferma: «Pubblicamente dissero che sarei stato mandato in esilio, ma segretamente avevano deciso di decapitarmi» (GZ, 356).
Prima di giungere al luogo dell’esecuzione Nichiren Daishonin mandò a chiamare uno dei suoi discepoli prediletti, Shijo Kingo, che abitava nei pressi e che si precipitò. Afferrò le redini del cavallo del suo maestro e pianse di dolore. Ma Nichiren lo incoraggiò: «Tu non capisci! Come potrebbe esserci gioia più grande? Non ricordi ciò che hai promesso?» (WND, 767 – SND ,4, 48).
Dopo quel fatto fu deciso che il Daishonin sarebbe stato esiliato a Sado. Ne L’apertura degli occhi, che scrisse l’anno successivo [1272] sull’isola di Sado, egli stesso dichiara: «Nel dodicesimo giorno del nono mese dello scorso anno, tra le ore del topo e del bue [dalle ventitré alle tre del mattino] questa persona chiamata Nichiren fu decapitata. La sua anima è arrivata in quest’isola di Sado e, nel secondo mese dell’anno seguente, in mezzo alla neve, scrive tutto questo per i suoi discepoli più stretti» (WND, 269 – SND, 1, 172).
«Affermando di essere stato decapitato quando in effetti non fu così, il Daishonin intende dire che il suo “io” fino a quel momento era morto sul luogo dell’esecuzione a Tatsunokuchi e che egli era rinato con un nuovo io. “Anima”, nella citazione precedente, è questo nuovo io, la vera identità che il Daishonin manifestò durante la persecuzione di Tatsunokuchi. Questo passaggio viene considerato la dichiarazione del Daishonin di aver concretizzato il principio di “abbandonare il transitorio e rivelare il vero”».
Dopo aver scartato la sua identità transitoria il Daishonin si rivelò come Budda dell’Ultimo giorno della Legge e in quanto tale cominciò ad iscrivere i Gohonzon. Ma non bisogna pensare che fosse diventato un’altra persona, o un essere dalle caratteristiche sovraumane.
«Il Daishonin – puntualizza Ikeda – manifestò il Budda di gioia senza limiti rimanendo un comune mortale. Se lo dimentichiamo potremmo pensare che raggiungere la Buddità significhi diventare un essere superiore distinto da un essere umano, quando invece egli manifestò la vita del Budda eterno all’interno della vita di una persona comune. Questo principio si applica anche a noi. Quando ci dedichiamo a kosen-rufu, superando dolorose sofferenze e perseverando nella fede, anche noi possiamo concretizzare il principio di “scartare il transitorio e rivelare il vero”, cioè da persone comuni possiamo manifestare la stessa vita del Budda come fece il Daishonin».