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Per diventare il cambiamento che desidereremmo vedere - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:19

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Per diventare il cambiamento che desidereremmo vedere

Arun Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi, racconta come è stato educato da suo nonno alla riflessione introspettiva sulle azioni nonviolente. Oggi dirige con la moglie l’Istituto Mohandas Karamchand Gandhi per la Nonviolenza a Memphis, Tennesee; da allora l’Istituto ha sviluppato e attuato progetti per la diffusione della cultura nonviolenta tra i giovani

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Arun Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi, racconta come è stato educato da suo nonno alla riflessione introspettiva sulle azioni nonviolente. Oggi dirige con la moglie l’Istituto Mohandas Karamchand Gandhi per la Nonviolenza a Memphis, Tennesee; da allora l’Istituto ha sviluppato e attuato progetti per la diffusione della cultura nonviolenta tra i giovani

Mio nonno amava raccontare la storia di un antico re indiano ossessionato dal desiderio di scoprire il significato della pace. Voleva sapere cos’era la pace, dove avrebbe potuto trovarla e cosa farne. Aveva persino offerto una cospicua somma di denaro a chi avesse saputo rispondere alle sue domande. Infine qualcuno suggerì al re di consultare un certo saggio e il re lo fece. Senza una parola il saggio andò in cucina e portò al re un chicco di grano: «Qui troverai la risposta alla tua domanda» disse deponendolo sulla mano protesa del re.
Il re era perplesso ma non voleva ammettere la sua ignoranza così afferrò il chicco di grano e ritornò a palazzo dove lo racchiuse in una piccola scatola d’oro che mise in cassaforte. Ogni mattina apriva la scatola per trovare una risposta ma inutilmente. Alcune settimane dopo un altro saggio rispose al suo dilemma: «È abbastanza semplice Vostra Grazia: come il grano rappresenta il nutrimento del corpo, la pace è il nutrimento dell’anima. Se tenete questo chicco chiuso in una scatola d’oro, alla fine morirà senza aver prodotto nutrimento o essersi moltiplicato. Tuttavia se lo lasciate interagire con gli elementi – terra, luce, acqua, aria – maturerà e si riprodurrà e presto avrete un intero campo che darà nutrimento non solo a voi ma anche a molti altri. Questo è il significato della pace. Deve nutrire la vostra anima e quella degli altri, deve moltiplicarsi interagendo con gli elementi». Questa è l’essenza della filosofia gandhiana della “nonviolenza” o ricerca della verità. Quando mio nonno sviluppò la sua filosofia della nonviolenza in Sud Africa decise che il termine sanscrito sarebbe stato il più appropriato e ritenne che satyagraha descrivesse al meglio la sua filosofia. È l’unione di due parole sanscrite satya che significa “verità” e agraha “ricerca di”. “Ricerca della verità” all’opposto dell’idea occidentale di “possesso della verita”. La nonviolenza può dunque essere descritta come una ricerca onesta e diligente della verità. […]
Il modo migliore per comprendere la filosofia della nonviolenza di Gandhi è capire anzitutto la portata della violenza che esercitiamo consciamente o inconsciamente ogni giorno nella nostra vita. Mio nonno mi rese consapevole della violenza nella società, compresa quella dentro di me, facendomi costruire una sorta di albero genealogico della violenza. Disse: «La violenza ha due figli: fisico e passivo. Ogni giorno prima di coricarci vorrei che tu annotassi sotto questi due titoli tutti i casi di violenza fisica e passiva a cui hai assistito durante la giornata e la relazione che sussiste fra questi due tipi di violenza. Dovevo essere sincero e scrivere dei miei stessi atti di violenza compiuti durante il giorno. Vale a dire che ogni notte dovevo analizzare le mie azioni e se scoprivo di essere stato violento dovevo annotarlo al posto giusto. Fu un eccellente esercizio di introspezione e riconoscimento della propria violenza personale. In genere neghiamo la nostra violenza o perché non ne siamo consapevoli o perché siamo condizionati a considerare la violenza solo nelle sue manifestazioni fisiche: le guerre, gli scontri, gli omicidi, le percosse, gli stupri, insomma i casi in cui entra in gioco la forza fisica. Tuttavia non ci rendiamo conto che ogni forma di oppressione, dall’insulto alla derisione, alla mancanza di rispetto, è una forma di violenza. La relazione tra violenza passiva e violenza fisica è uguale a quella che sussiste tra benzina e fuoco. La violenza passiva genera collera nella vittima e poiché quest’ultima non ha imparato a farne un uso positivo, trascende in violenza fisica. Così la violenza passiva è il carburante. Se vogliamo spegnere il fuoco dobbiamo interrompere il rifornimento. La sfida che l’umanità ha di fronte, per citare le parole di Gandhi, è semplice: «Dobbiamo essere il cambiamento che desidereremmo vedere». Se non cambiamo a livello individuale niente cambierà a livello collettivo. Per generazioni abbiamo atteso che l’altro cambiasse per primo. Un cambiamento interiore non viene decretato dalla legge; deve scaturire a livello individuale.

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