Leggendo il poema di Daisaku Ikeda “Il nuovo brillante secolo dell’Italia”
Amici italiani che amo più di ogni altra cosa!
Voi avete iniziato il cammino
del nuovo rinascimento nel maggio del 1981.
Non dimenticherò mai che tutto cominciò
nella terra natale del rinascimento: Firenze.
Ho sentito una grande speranza
negli animi di quei giovani ventenni,
riuniti con tanta vitalità e spontanei.
Le loro figure eroiche non lasceranno il mio cuore
per tutta la vita. Ho sentito la certezza
di un futuro sicuro.
Li ho incoraggiati con tutto me stesso.
Del poema dedicato da sensei all’Italia, vorrei sottolineare alcuni aspetti: l’ammirazione che traspare costantemente per il nostro paese in quanto terra natale del Rinascimento; la riconoscenza verso chi ha diffuso il Buddismo come nei confronti di chi ci ha aperto la via della pratica, rafforzandoci nel valore della speranza e del coraggio. Della cultura non fine a se stessa ma come mezzo per comprendere meglio il mondo, Daisaku Ikeda parla spesso: «La cultura è lo sbocciare della vera umanità di ogni persona e, per questo motivo, trascende tutti i limiti di nazionalità, di tempo, di spazio e qualsiasi altra differenza immaginabile. Allo stesso modo, praticare con correttezza il Buddismo significa coltivare attentamente se stessi e ispirare gli altri a fare altrettanto, conducendo una vita che attinge a piene mani dalla vera cultura» (Protagonisti, 1, 181). Sono i “fiori della cultura”, di cui scrive anche in questo poema, a permettere l’allargamento dei confini individuali. Il presidente Ikeda dimostra ancora una volta un forte legame con la cultura e la letteratura del Rinascimento, in cui coglie semi che, se curati, germogliano e sbocciano nella vita delle persone. Nel suo poema si coglie assai bene un amore infinito per la cultura italiana, una cultura non narcisistica, estranea ai valori della vita, ma che sia strumento di comprensione e di sostegno per gli altri.
Al momento di ricordare i suoi viaggi in Italia sensei parla più volte dei giovani incontrati allora con un grande senso di gratitudine, che anche noi dovremmo sempre avere verso chi ci ha fatto conoscere l’insegnamento buddista. Quando penso al passato, ai miei primi approcci alla Legge, io personalmente provo sentimenti di affetto verso tutte le persone con cui ho condiviso le attività.
Gli amici che sono emersi dalla grande terra
in tutti i paesi, hanno costruito il palcoscenico
del rinascimento. Avanzando su di esso
e piantando i semi del Buddismo dell’eterna pace
e della felicità, essi espandono i fiori della cultura
e dell’educazione unendoli tra loro.
Oh amici che amate gli esseri umani!
Oh amici legati nell’animo e pieni di reciproco rispetto!
Voi siete le vere e giuste persone
del rinascimento del ventunesimo secolo.
Dovremmo riverire tutte le persone che incontriamo come fossero un Budda. Se vogliamo contribuire alla loro felicità, immaginare che essi con noi creino il nuovo rinascimento, non dobbiamo rimandare pensando che nel futuro qualcosa cambierà: se non si decide adesso, in questo istante, domani o tra un anno le cose non saranno differenti perché da sole non possono cambiare, ma se ognuno di noi si impegna al cambiamento fin da questo momento, anche la nostra organizzazione rifletterà queste trasformazioni.
Il poema mi ha fatto sentire che non devo gettare via nemmeno un attimo della mia vita. Ci vuole coraggio, bisogna recitare Daimoku e guardarsi profondamente dentro, per scoprire il valore di se stessi.
Il coraggio maggiore è quello di chi è libero e ha lasciato i propri attaccamenti, non dovremmo avere paura di rimanere soli con noi. Chi ha trovato la propria identità e conosce a fondo se stesso non ha più questa paura. Erich Fromm parla di tre tipi di coraggio (o fortezza): il primo, in cui «una persona può non aver paura perché non le importa di vivere», il secondo, della «persona che vive in sottomissione simbiotica con un idolo» e il terzo, da prendere a modello, della «persona completamente sviluppata che ha fiducia in se stessa e ama la vita» (Erich Fromm, La rivoluzione della speranza, Bompiani, Saggi Tascabili, pagg. 21-22).
Nella famosa parabola “Davanti alla Legge” di Franz Kafka (nel romanzo Il processo) di fronte alla porta della Legge sta un guardiano; un giorno un uomo di campagna si presenta e chiede di entrare, ma il guardiano dice che per il momento non gli è concesso. L’uomo aspetta giorno dopo giorno, anno dopo anno e quando è vicino a morire fa una domanda al guardiano con un filo di voce: «Perché in questo tempo non si è presentato nessun altro a chiedere di entrare?». Il guardiano risponde che quell’ingresso era riservato esclusivamente a lui, l’uomo di campagna e doveva essere lui ad entrare, magari contro le disposizioni.
Non si può perdere tempo ad aspettare, decidiamo subito il cambiamento che vogliamo vedere nella nostra vita.
C’è un Gosho che può essere di particolare incoraggiamento nella situazione in cui ci troviamo: Cavalli bianchi e cigni bianchi (SND, 9, 209-220): vi si narra la storia di un sovrano, il re Rinda, la cui salute e il cui vigore dipendevano dalla possibilità di udire il nitrito dei cavalli bianchi; ma i cavalli bianchi nitrivano solo quando vedevano i cigni bianchi, che un bel giorno scompaiono dal paese. Il re si ammala, perde ogni energia e preoccupato emana un decreto, in cui si invitano tutte le scuole, buddiste e non buddiste, a fare in modo che i cigni bianchi ritornino, dichiarando che avrebbe preso fede nell’insegnamento della scuola che vi fosse riuscita. Il discepolo del Budda, il bodhisattva Ashvaghosha riesce a far tornare i cigni bianchi, così i cavalli bianchi nitriscono di nuovo, il re guarisce e tutto il suo regno e i suoi abitanti tornano a prosperare. Anche il nostro compito è quello di far tornare i cigni bianchi, che per noi significa ritrovare l’armonia e accogliere di nuovo tutte le persone che si sono allontanate.