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Un posto per gli altri - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:24

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Un posto per gli altri

Accogliere. Una parola nuova nel vocabolario dei rapporti umani che può assomigliare a tollerare ma ha sfumature molto più profonde. A partire dal fatto che per accogliere gli altri si deve fare spazio dentro di sé

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Accogliere. Una parola nuova nel vocabolario dei rapporti umani che può assomigliare a tollerare ma ha sfumature molto più profonde. A partire dal fatto che per accogliere gli altri si deve fare spazio dentro di sé

Credo di essere una persona tollerante. Cerco di andare d’accordo con tutti, coi colleghi non ho grossi problemi, a casa qualche discussione c’è ma si sa com’è, succede nelle migliori famiglie.
Certo, a pensarci bene, il termine tollerare ha in sé qualcosa di negativo, si porta dietro un senso di pesantezza, di fastidio, di sopportazione. Ti tollero, e dietro questa parola si sente la fatica, lo faccio perché devo. Anzi, quasi quasi nascondo il mio fastidio per la tua presenza. Chi parla male, pensa anche male, diceva Michele Apicella-Nanni Moretti in Palombella rossa, allora come cambiare le parole e allo stesso tempo i cuori? Provo intanto a sostituire tolleranza con accoglienza. Accolgo a braccia aperte, accolgo con un sorriso. Come cambiano le cose, di fronte a me ho un amico, un fratello.
È un punto di vista completamente diverso, ma è sottile il confine che separa la sensazione di essere migliori di un altro – magari perché non ha la nostra cultura, posizione sociale, conto in banca o, peggio ancora, razza – dalla consapevolezza di vivere in un mondo di uguali. È un Budda quell’amico un po’ noioso, quello che mi tiene al telefono ore, quella che recita Daimoku e si lamenta nella stessa misura. È un Budda anche quella che non solo non la pensa come me, ma me lo rinfaccia anche e quello che ha sempre qualcosa da criticare.
Quante volte li ho tollerati, magari sentendomi anche speciale nel farlo. Accolti, però, mai. Perché non posso accogliere nessuno se prima non provo a comprenderlo. Ed ecco che al massimo lo tollero, giusto quando mi sento buona e decido di fare uno sforzo per dimostrarlo. Ma in questo mio tollerare non c’è nessuna Buddità, nessuna Illuminazione da condividere.
Comprendere, dal latino cum-prehendere: «prendere insieme» presuppone sempre un’altra persona, mi impedisce di accontentarmi della mia solitudine. Nasce da una relazione, dal tornare a quello che mi sta di fronte, dal voler condividere un contatto con lui.
La comprensione è un ponte, fatto di ascolto, fatto di quel silenzio che mi permette di sentire la voce dell’altro e di afferrare quello che mi vuole dire.
Accogliere vuol dire creare quel ponte, senza percepire differenze, perché il Buddismo insegna il valore di ogni persona che si possa incontrare. Non si capisce bene se non col cuore: attraverso il rispetto, l’apertura, la compassione (sempre lei). Accogliere significa anche accettare, che vuol dire anche coraggio di rispecchiarsi nell’altro, di saperlo ascoltare, di accettare il confronto e la critica. Significa non averne più paura.
Lo stesso discorso potrei farlo pensando a me stessa, se mi rinnego, mi rifiuto e non mi accetto, non potrò mai neanche pensare di essere un Budda, non solo in questa vita, ma neanche tra un millennio. È che a volte mi sento come diceva Rimbaud: «io è un altro», e quell’altro non mi piace affatto.
Questo saper accogliere è talmente importante da far sì che Nichiren Daishonin scrivesse: «Il fallimento degli altri nell’ottenere la Buddità è il mio fallimento nell’ottenere la Buddità, e l’ottenimento della Buddità da parte degli altri è il mio ottenimento della Buddità» (dal Gosho Zenshu).
«Il Daishonin afferma: “Gioia significa gioire insieme agli altri” e “Gioia è condividere saggezza e compassione con gli altri” – scrive Daisaku Ikeda ne La saggezza del Sutra del Loto – La gioia è qualcosa che si condivide con gli altri: chi si preoccupa solo della propria felicità è un egoista; chi dice di preoccuparsi solo della felicità altrui è un ipocrita: la vera felicità consiste nel diventare felici insieme agli altri. […] Come dice il Daishonin, questa felicità è fatta di saggezza e compassione, è la vita del Budda. Chi è saggio ma manca di compassione ha chiuso il suo cuore: non si può parlare di autentica saggezza. Chi possiede compassione, ma manca di saggezza, non può aiutare nessuno, neanche se stesso; non sa cos’è la vera compassione» (Saggezza, 3, 279).
Secondo i testi buddisti la compassione comporta almeno quattro aspetti: karuna è la compassione, intesa non nell’accezione negativa di commiserazione, ma come capacità di “sentire” la sofferenza degli altri come se fosse qualcosa che ci riguarda. Il Budda considera le sofferenze di tutti gli esseri come se fossero le sue, e proprio per questo motivo riesce a trovare le parole giuste per ridare speranza a chi crede di averla persa.
Quando sono condivise le sofferenze diventano più piccole e allo stesso tempo le gioie diventano più grandi. Mudita indica dunque il dono di saper gioire per le gioie altrui. Questo implica anche la capacità di mettere a tacere l’invidia e la gelosia che sporcano i miei pensieri di fronte ai successi di una persona che non sono io.
Un altro aspetto è presentato da maitri (metta in pali), che è la benevolenza verso tutti gli esseri viventi. Un sentimento libero da qualunque attaccamento e pregiudizio, quello che spinge a perdonare, perché degli altri si vedono sempre gli aspetti migliori.
L’ultimo aspetto è quello di upeksha (upekka in pali), l’equità, che allarga l’orizzonte dell’altruismo. La compassione non è un sentimento che mi limito a provare nei confronti dei parenti o dei conoscenti, ma è esteso a tutti gli esseri umani, agli animali, alle piante, agli oggetti inanimati. Rappresenta anche l’elemento “razionale”, l’aspetto di distacco della compassione, quello che impedisce di cadere nella disperazione di fronte al dolore altrui, quello che tiene ferma la mano del chirurgo, e alla fine permette di essere realmente d’aiuto.
Se ci penso un po’ non è così difficile, nel Gosho I tre tipi di tesori si legge: «Il vero significato dell’apparizione del Budda Shakyamuni in questo mondo sta nel suo comportamento da essere umano» (SND, 4, 179).
Basterebbe declinare sempre quello che diciamo alla prima persona singolare. Troppo spesso invece guardiamo fuori di noi. Se penso “Devo cambiare”, qualcosa cambierà, se non altro il mio punto di vista. Se invece sono ferma sul “devi cambiare”, posso aspettare quanto voglio inutilmente, ma tutto resterà uguale a prima.
Per imparare ad accogliere voglio partire da me stessa e decidere di essere quel cambiamento che invece spesso chiedo in primo luogo agli altri. Essere un segnale, forte e luminoso, del fatto che ovunque mi giri, intorno a me ci sono dei Budda, i miei meravigliosi compagni di strada.
Questo sentire la vita degli altri nella mia vita è la strada diretta per l’Illuminazione, il modo migliore per realizzare una vita felice e realizzata. Non esiste un altro modo per percepire appieno il senso profondo della nostra vita. Nel Gosho Domande e risposte sulla fede del Sutra del Loto Nichiren Daishonin scrive «…questo resterà l’unico ricordo di questo mondo umano» (SND, 7, 24).
Nella spiegazione de L’eredità della Legge fondamentale della vita, Daisaku Ikeda prende in considerazione gli individui e le relazioni che li legano. Senza relazioni umane siamo come pesci fuor d’acqua, destinati a morire. Le relazioni ci tengono in vita e sono quelle che costituiscono la struttura della nostra comunità. Questo vuol dire che non è la nostra attività buddista che dà senso alle nostre relazioni, ma i legami costruiti che ci permettono di riconoscerci come una comunità. Non è un processo automatico, ma il frutto di una scelta meravigliosa, quella di riconoscere un Budda in ogni sorriso che incontro, in ogni mano che stringo, in ogni parola che mi viene rivolta. Un Budda nascosto in ogni persona, perché il Buddismo insegna che non esiste alcuna differenza tra noi, non esistono persone speciali, siamo tutti speciali. Non contano età, esperienze, razza, classe sociale, non conta l’istruzione, non conta il ruolo che si ricopre nell’associazione. «“Superare tutte le differenze che esistono tra loro” – scrive Ikeda – non significa rinnegare la diversità tra le persone, ma piuttosto evitare le azioni dettate dall’egoismo che impediscono una comunicazione profonda tra le persone. Tali atteggiamenti provocano, alla fine, una rottura dei rapporti umani, perché nessun legame spirituale può resistere a lungo dove le persone sono disunite» (Daisaku Ikeda, La vera entità della vita, Esperia, pag. 120). Superare l’egoismo, attraverso la gratitudine e il rispetto. Ingredienti preziosissimi per imparare a comprendere, ad accogliere la vita di altri nella mia vita, vincendo paure, resistenze, pregiudizi, superando antichi rancori, imparando a guardare ogni giorno con occhi nuovi il mondo fuori dalla mia finestra.
Anche nella Proposta di Pace di quest’anno Daisaku Ikeda parla dell’importanza di creare un mondo dove le relazioni siano “a misura di vita”, dove la globalizzazione non cancelli la sensibilità verso le altrui sofferenze, dove è fondamentale imparare a comprendere l’altro. «“Comprendere”, – si legge – significa sia includere e avvolgere che capire e valutare. Dunque la parola “pensiero” non è utilizzata qui in un’accezione ristretta, cartesiana – un’attività intellettuale che riduce ogni cosa a componenti quantificabili – ma in senso più vasto, includendo le virtù della sensibilità umana e le attività olistiche della vita attraverso una mente sia “matematica” che “intuitiva” che impegna la totalità del nostro essere. Così Pascal cercava di spiegare quelle caratteristiche del pensiero che costituiscono le basi della dignità umana». Partendo dal mio piccolo quotidiano. Tsunesaburo Makiguchi ne La geografia della vita umana, del 1903, affermava che «nobili sentimenti come la compassione, la buona volontà, l’amicizia, la gentilezza, l’onestà e la semplicità non possono essere coltivati con successo al di fuori della comunità locale».
Siamo qui, indissolubilmente legati gli uni agli altri, diventarne consapevoli è il primo passo per costruire uno spirito capace di accogliere e non solo di tollerare. Uno spirito capace di mettere in pratica quella che sempre nella Proposta di Pace viene chiamata “l’etica della coesistenza”. La profonda ragione d’essere del pacifismo buddista nasce da un sentire comune di esseri umani che non si trovano certo a dividere la vita come se fosse un appartamento, per caso e per necessità. «Si tratta di un tipo di comportamento – scrive ancora Daisaku Ikeda – che cerca di creare armonia dal conflitto, unità dalla rottura, che si basa più sul “noi” che sul “me”. È indice di uno spirito che favorisce la reciproca prosperità e il mutuo sostegno fra gli esseri umani e fra questi e la natura».
Un comportamento che si basa sul saper ascoltare, senza prima cominciare a giudicare. Giudicare e accogliere, infatti, vanno molto poco d’accordo.
Esemplare è la vicenda di Robert Reich, segretario del lavoro del governo statunitense, che ha deciso di rassegnare le sue dimissioni dopo aver ricevuto una telefonata del figlio. In questa telefonata il giovane Reich si lamentava di sentirsi solo e abbandonato da un padre così occupato. Sicuramente pochi possono permettersi di rinunciare al lavoro per accudire il proprio figlio, ma quello che chiunque può fare è cominciare ad ascoltare. Ascoltare quello che gli altri cercano di comunicare, con e senza parole, prestare attenzione alle vite che vivono intorno alla mia.
Creare relazioni “a misura di vita”, in primo luogo crea dentro di me quello spazio necessario per accogliere l’altro. Decidere poi di farlo davvero è una scelta individuale, che dà senso a tutta l’esistenza.
Una scelta che permette di attingere all’immenso potere della Legge, alla Buddità, quello che fa rinascere la speranza, che mi sostiene nei momenti bui, che non mi fa mai sentire sola davanti alle mie difficoltà. Quello che fa la differenza.
«Il potere di una singola persona è immenso e si manifesta immancabilmente in coloro che si risvegliano alla loro missione di Bodhisattva della Terra. Questa convinzione è il punto di partenza per tutte le cose» (Saggezza, 3, 51).

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