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Non ci sono terre impure - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:24

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Non ci sono terre impure

Margherita Bonomo, Modica (RG)

«Tutto ciò che mi sembrava di aver sbagliato nella vita sta sbocciando in un meraviglioso fiore di loto. Adesso sono molto stimata, mi arrivano proposte di docenza che devo rifiutare per i troppi impegni»

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«Tutto ciò che mi sembrava di aver sbagliato nella vita sta sbocciando in un meraviglioso fiore di loto. Adesso sono molto stimata, mi arrivano proposte di docenza che devo rifiutare per i troppi impegni. E pensare che per sette anni non sapevo dove andare a sbattere la testa!»

Ho cominciato a recitare Nam-myo-ho-renge-kyo nell’agosto del 1997, avevo 33 anni e la mia vita era un groviglio di sofferenze. Da almeno una decina d’anni le mie amiche mi parlavano di questo Buddismo ma io mantenevo un atteggiamento ostile. Mi sembravano matte!
La mia infanzia era stata felice fino a dieci anni, quando una grave depressione costrinse mio padre in camera al buio per lunghi periodi. Fu poi colpito da un ictus che complicò ulteriormente le cose. L’adolescenza mi vide rinascere, ero piena di voglia di scoprire il mondo, ma poi venne il cupo periodo universitario: una sofferenza sentimentale e tanta superficialità mi fecero scegliere un indirizzo di studi di cui mi sono rimproverata anche dopo la laurea, ottenuta comunque con il massimo dei voti. Per anni mi sono torturata, senza però avere mai il coraggio di cambiare direzione. Inoltre ero legata a un uomo più anziano di me, che stimavo e per il quale provavo un profondo affetto, ma che non amavo.
Rimpianto, frustrazione, malessere, senso di colpa, incapacità di scelta hanno accompagnato la mia esistenza fino a quell’agosto del 1997. Al culmine della disperazione, circa un anno prima avevo cercato di spiegare a quell’uomo, che nel frattempo era diventato mio marito, l’impossibilità di stare con lui. Pochi giorni dopo era stato colpito da un infarto e poi da un ictus. Il destino si ripeteva: anche mio marito, persona di grande cultura come mio padre, veniva colpito a 44 anni da una malattia invalidante. Avrei dovuto ripetere la vita di sacrifici di mia madre, con l’unica differenza fondamentale che io non lo amavo ma anzi volevo separarmi da lui. Ciò nonostante lo curai per diversi mesi, girando l’Italia degli ospedali, addolorata per lui, e oppressa come un animale in gabbia.
Fu allora che la mia amica mi parlò ancora una volta del Buddismo. «L’impossibile diventa possibile» mi disse «in un istante di tempo più breve dello schiocco delle dita». E io decisi di provare, per nove giorni.
Recitavo Nam-myoho-renge-kyo di nascosto, vergognandomi, con un solo desiderio: la guarigione di mio marito e una buona separazione.
Tre giorni dopo ebbi il primo beneficio: uno zio tornato a Modica per il matrimonio di un figlio, e con il quale c’erano state in passato delle incomprensioni, si offrì di aiutarmi per la pubblicazione della mia tesi. Per sette anni ero stata in contatto con varie case editrici, l’avevo allungata, l’avevo accorciata, ma ogni volta c’era un ostacolo. Poi la morte del professore che mi seguiva aveva fatto scivolare tutto nell’oblio.
Lo zio mi presentò un editore che non solo apprezzò il mio lavoro ma si occupò di tutto il resto, compresa la correzione delle bozze. Così nel 1998 la mia vecchia tesi diventò un libro.
Naturalmente allo scadere dei nove giorni non smisi di praticare il Buddismo. E, dopo appena un mese, giunse il beneficio per cui pregavo: la buona separazione da mio marito, in maniera davvero inconsueta. A causa di strani dolori al ventre mio padre fu ricoverato, con un sospetto di tumore che fortunatamente si rivelò infondato, e poichè era necessario che lo assistessi durante la notte, non potevo più accudire mio marito che così tornò da sua madre.
Durante la separazione forzata mio marito si rese conto di quanto anche lui fosse più sereno e decise di non tornare più a casa. Ora sta bene, ha ripreso a lavorare e ci lega una profonda amicizia. L’aspetto più sorprendente è stata la naturalezza con cui si è manifestata la “soluzione”.
Intanto avevo cominciato a studiare di più il Buddismo, pur continuando a non praticarlo apertamente. Fu allora che incontrai un ragazzo di cui mi innamorai follemente. Ebbe così inizio una tormentata relazione che mi tolse ogni energia vitale. Ma per fortuna non smisi di praticare. Venni a sapere di un laboratorio teatrale a Ragusa. Il teatro era uno dei miei rimpianti, uno dei miei desideri irrealizzabili. Fu un’esperienza entusiasmante e il regista mi invitò a seguirne un altro, a Roma. Tornai così nella città dei miei studi universitari, dove avevo sofferto di una solitudine così profonda da indurmi a ritornare in Sicilia subito dopo la laurea con un senso di pesantezza e fallimento. Ma, grazie all’incoraggiamento di Nichiren, che nel Gosho Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza afferma: «Non ci sono terre pure e terre impure di per sé: la differenza sta unicamente nella bontà o malvagità della nostra mente», questa volta fu diverso. Da allora ho seguito laboratori condotti da registi, attori, drammaturghi e coreografi di altissimo livello, creando tanti legami d’amicizia. E, grazie a questi contatti, lavoro da due anni per un premio teatrale internazionale dove ho conosciuto i principali esponenti del teatro mondiale.
Ormai non mi vergognavo più della pratica buddista, partecipavo alle riunioni, recitavo Daimoku e affrontavo i miei dubbi in maniera costruttiva. Mia madre vedeva i miei cambiamenti e, pur essendo cattolica, ringraziava il Gohonzon. Continuavo però ad amare disperatamente quel ragazzo che si concedeva a intermittenza, senza mai smettere di sottolineare che lui “comunque non mi amava”. La sofferenza sentimentale mi condusse alla depressione: stavo a letto, al buio, con costanti pensieri di morte, terribili crisi di spersonalizzazione e attacchi di panico. Al mio primo corso di territorio, chiesi consiglio: «Non c’è felicità più grande del recitare Nam-myoho-renge-kyo» mi dissero, ma a me sembravano parole prive di senso. Poi, incoraggiata dall’esperienza di una ragazza di Messina che aveva vinto sulla depressione, decisi finalmente di curarmi. Bastò un dosaggio minimo di farmaci e dopo qualche mese mi ero ripresa benissimo. In effetti, a parte le medicine, in quei mesi accaddero anche una serie di eventi che furono la causa profonda della mia guarigione.
In quel periodo attribuivo la colpa dei miei disastri affettivi e della depressione a mio padre. Ero arrivata a disprezzarlo per la sua eccessiva sensibilità che vedevo come debolezza e mancanza di virilità e mi lamentavo di non aver avuto alcuna guida nella mia adolescenza. Inaspettatamente fui chiamata per una supplenza a scuola, e contemporaneamente per altri due colloqui di lavoro. Avrei dovuto prendere servizio il lunedì mentre i colloqui erano per la domenica. Mi sentivo ancora male per la depressione e mia madre temeva che non ce l’avrei fatta. In più la domenica mattina mio padre ebbe un infarto. Quando arrivò l’ambulanza e lo vidi sulla barella, così indifeso, sentii il mio disprezzo sciogliersi, e mentre i miei andavano in ospedale, lessi la frase del Gosho di Capodanno: «L’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre». Spalancai le finestre della mia camera rimasta al buio da mesi, la pulii e feci un sonoro Gongyo per la felicità di mio padre. Andai al primo colloquio di lavoro che si rivelò positivo.
Rinfrancata, passai dall’ospedale per salutare mio padre che stava già meglio; gli dissi di recitare Daimoku e partii per Catania, dove avevo il secondo colloquio. Anche questo andò molto bene. Inoltre ricevetti indicazioni essenziali per affrontare gli scolari il giorno dopo. I miei allievi mi hanno riempita di amore e mi hanno fatto riacquistare fiducia in me stessa. Da allora ho scoperto che l’insegnamento, che avevo sempre scartato, era la mia strada e ho deciso di far conoscere ai giovani il pensiero di Ikeda. L’anno successivo ho avuto un incarico annuale.
Intanto continuavo a lavorare per il teatro e a organizzare spettacoli. L’assessore alla Cultura di Modica, che ho conosciuto in occasione della mostra sui “Costruttori di pace”, è docente di Storia Contemporanea a Catania e mi ha proposto di lavorare con lui all’università. Quest’anno, dopo tanti sacrifici, Daimoku e studio, ho vinto il concorso per un dottorato di ricerca che costituisce il primo passo concreto per una carriera universitaria. Sono sempre stata sostenuta con calore dai miei amici grazie ai quali ho compreso il significato della compassione di Nichiren. A loro, e a tutti coloro che raccontando le loro esperienze attraverso le pagine di questo giornale mi hanno incoraggiata nei momenti più duri, dedico la mia felicità di oggi e il mio ritrovato coraggio.
Tutto ciò che mi sembrava di aver sbagliato nella vita sta sbocciando in un meraviglioso fiore di loto. Adesso sono molto stimata, mi arrivano proposte di docenza che devo rifiutare per i troppi impegni. E pensare che per sette anni non sapevo dove andare a sbattere la testa!
La terra, da cui ero scappata a diciotto anni inseguendo sogni nebulosi, mi ha permesso di realizzare ciò che altrove non mi era riuscito, imparando a scegliere e a dire di no anche a quel ragazzo che ancora amo. Ma io sto cercando il mio compagno, colui con cui essere «come il sole e la luna, come le ali di uno stesso uccello» e so che con Nam-myoho-renge-kyo lo troverò.
Questa è la mia terra, la Terra della luce tranquilla.

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