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Dialogo del Reno - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:20

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Dialogo del Reno

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Lo storico fiume europeo fa da cornice a uno scambio di opinioni sul grande potenziale evolutivo per l’umanità contenuto nelle religioni e nelle varie culture del mondo

«Dottor Derbolav – dissi – per favore faccia attenzione».
«Va tutto bene – sorrise rassicurante Derbolav – Grazie». Quando sorrise, il suo aspetto compassato si addolcì.
Una barca ci stava aspettando per portarci in crociera sul Reno. Era piovuto molto e per svariati giorni, e il fiume si era ingrossato. Così per raggiungere il pontile senza bagnarci i piedi camminavamo in bilico su assi di legno.
Quel giorno era spiovuto e una fresca brezza d’inizio estate lambiva il fiume in piena. Quando la barca lasciò la banchina a Rüdes-heim, nota per i suoi vini e vigneti, spuntò perfino il sole. Così, il 2 giugno 1983, ebbe inizio il Dialogo del Reno con Josef Derbolav (1912-87), che all’epoca era una delle maggiori autorità in campo pedagogico della Germania Occidentale. Era il nostro quarto incontro.
La barca era salpata da un po’ quando intravedemmo una torretta gialla su una piccola isola in mezzo al fiume, vicino alla sponda sinistra; è chiamata “Torre dei topi” e su di essa c’è una leggenda.
Circa mille anni fa, viveva nella regione un arcivescovo di nome Hatto, noto per la sua smisurata ingordigia. C’era una terribile carestia e la gente moriva di fame ma l’arcivescovo era interessato solo ad aumentare la propria ricchezza. Un giorno emise un proclama in cui diceva che avrebbe distribuito cibo a tutti coloro che si fossero recati presso un certo granaio fuori città. Le persone si precipitarono al deposito di grano, esultanti alla prospettiva di ricevere cibo. Quando si furono tutti stipati nel granaio l’arcivescovo ordinò di chiudere le porte dall’esterno e fece appiccare il fuoco. Fu una scena raccapricciante: avvolte dalle fiamme, le persone si contorcevano nell’agonia. Mentre le grida trafiggevano l’aria, l’arcivescovo si girò verso gli altri preti accanto a lui e con un sorriso compiaciuto disse: «Ascoltate lo squittire dei topi. Sentite, sentite le loro grida!».
Ebbene, un’orda di topi comparve all’improvviso dal nulla. Saltarono addosso al vescovo, inseguendolo ovunque, per quanto forte potesse correre. «Aha! – pensò l’arcivescovo – Non riusciranno a seguirmi se riesco a raggiungere la torre in mezzo al fiume». Ma i topi nuotarono fino all’isola, si diressero alla torre e divorarono l’arcivescovo.
Esistono molte versioni di questa leggenda raccontata in tutte le regioni lungo il Reno. Quanta rabbia avrà provato la gente per le ingiustizie commesse dagli ecclesiastici avidi, quanto devono averli disprezzati! Nella sua vivida descrizione, questa antica storia ha trasmesso l’intensità dei loro sentimenti fino a oggi.

Lo scopo originale della religione
Uno degli argomenti discussi con Derbolav era la capacità della religione di umanizzare la società. Egli osservò che il potere era sempre stato una pericolosa fonte di tentazione per la Chiesa cristiana. Indubbiamente la Chiesa cristiana cadde spesso nell’autoritarismo, e i suoi ministri, i preti, diventarono uomini di potere o intermediari. Non solo esercitavano il loro controllo sui cristiani, ma intraprendevano persecuzioni crudeli contro i non credenti, imbarcandosi perfino in crociate e guerre religiose.
Lo scopo originario della religione è di mettere le persone in grado di condurre una vita felice e pacifica. Invece, nella realtà, tutte le religioni sono enormemente influenzate dai propri dirigenti e, specialmente quando questi usano la propria autorità religiosa per porsi al di sopra delle persone e controllarle, l’amore per l’umanità insegnato dal fondatore di quella particolare religione viene calpestato.
Il Cristianesimo insegna l’amore, il Buddismo la compassione. Fino a che punto gli ideali di queste due religioni si riflettono nelle società dove si sono diffuse? Citai l’esempio estremo della guerra affermando che i buddisti e i cristiani che approvano la guerra stanno in effetti voltando le spalle al Budda Shakyamuni, a Cristo e a Dio.
Sia in Occidente che in Giappone, ben lungi dal dare la propria vita per opporsi alla guerra, molti preti – anzi, la maggior parte – si sono accattivati il favore dei potenti e hanno sostenuto la guerra. Quale imponente forza di pace avrebbero potuto essere, se avessero invece proclamato all’unisono la loro incondizionata opposizione alla guerra!
Dietro i finestrini dell’imbarcazione le acque del Reno scorrevano dolcemente. Chiatte e carichi grandi e piccoli si affrettavano avanti e indietro. Le alture lungo entrambe le rive erano ricoperte di vigneti. Sulla sommità delle colline si vedevano le rovine di antiche fortezze romaniche che apparivano e svanivano in lontananza man mano che la navigazione procedeva. Ci sono castelli lungo il Reno che hanno settecento, ottocento o anche mille anni. Fin dall’antichità questo fiume è stato un’arteria principale di trasporto che collegava l’Europa meridionale a quella settentrionale. I feudatari si disputavano il dominio delle sue sponde e vi costruivano castelli per esigere lucrose tasse da chi passava lungo il fiume.
Il “padre Reno” era un fiume di guerra, e lo rimase fino al secolo scorso. Verso la fine del dominio di Hitler, tutti i ponti sul Reno eccetto uno furono distrutti dall’esercito tedesco per ostacolare l’avanzata delle truppe alleate.
Sapevo della dura esperienza avuta da Derbolav durante la guerra. «Sono nato a Vienna, in Austria – disse –, venni arruolato nell’esercito tedesco nel luglio 1940, in seguito all’annessione dell’Austria da parte di Hitler, e vi rimasi fino alla fine della guerra. La mia salute era precaria, così non mi spedirono al fronte, ma fui costretto a svolgere ricerche psicologiche per l’aeronautica e a lavorare presso le sue accademie». Questo accadde mentre Derbolav aveva tra i venti e i trent’anni. «Infine ci fu l’invasione sovietica – continuò –. Venni assegnato a un reparto di guardia che era di pattuglia ogni notte, e costretto a portare armi per la prima volta in vita mia. Una volta, con un tempo gelido e la colonnina di mercurio scesa attorno ai 25 gradi sotto zero, scavai perfino una buca per ripararmi. Per fortuna non fui fatto prigioniero di guerra».
La guerra ebbe un profondo impatto sul pensiero di Derbolav. Che cosa potevano fare l’umanesimo e la religione di fronte all’immenso e a volte diabolico, potere dei governi? Non era ottimista. Durante il nostro dialogo osservò che «un retroterra cristiano umanistico di un certo spessore non era riuscito a impedire che i tedeschi ricadessero nella barbarie [dopo la prima guerra mondiale]» E pur credendo che «la religione […] assicuri che una simile speranza è fondata e giustificata da qualcosa di più profondo, che trascende i confini della vita comune», egli in definitiva faceva appello alla nostra responsabilità per condurre una «analisi implacabile della nostra attuale situazione».

Un vero studioso
Il titolo del nostro dialogo era oramai deciso: Search for a New Humanity (Alla ricerca di una nuova umanità). Avvicinandoci al ventunesimo secolo, l’umanità si confrontava per la prima volta nella storia con una situazione in cui il progresso poteva condurre all’autodistruzione. Le sfide erano scoraggianti: degrado ambientale, proliferazione di armi nucleari, manipolazione scientifica della vita. Collasso dell’etica, vuoto spirituale diffuso, enorme crescita del divario tra ricchi e poveri. Che cosa avremmo dovuto fare noi in qualità di abitanti di questo pianeta?
Anche l’antico Reno era avvelenato da scarichi industriali che uccidevano la sua fauna ittica e Derbolav ne era estremamente preoccupato: «Se il Reno verrà protetto o inquinato dipenderà dal senso di responsabilità ambientale delle quattro nazioni (Svizzera, Germania, Francia e Olanda) situate lungo il suo corso, dalla sorgente alla foce. […] Ma le sole leggi ambientali non possono risolvere il problema. Dobbiamo tutti cambiare il nostro modo di pensare». Affermò inoltre: «La qualità che sarà maggiormente essenziale alla nuova umanità è la capacità di criticare e controllare il proprio ego in relazione non solo all’ambiente umano ma all’ambiente biologico in generale e forse anche a quello geologico».
Forse non ho mai visto uno studioso più brillante di Derbolav. Sceglieva ogni parola con cura e precisione. Se quella parola fosse stata una foglia, sarebbe stata attaccata saldamente a un ramo di pensiero, che a sua volta sarebbe cresciuto su un grosso tronco di sapere, profondamente ancorato a una tradizione culturale che comprendeva tutta la filosofia dall’antica Grecia in poi.
Questo si rifletteva anche nella sua presenza fisica. Sedeva diritto sulla sedia e metteva entrambe le mani saldamente sul tavolo di fronte a lui. Coglievo una certa bellezza nel suo rigore e nella sua serietà. Lasciava trapelare la nobiltà di una persona che aveva dedicato la propria vita alla ricerca della verità.

Non riflettere su se stessi conduce alla barbarie
Il valore di una religione dipende dalle persone che la seguono. Similmente, la validità degli studi è inseparabile da chi li conduce. Ci sono studiosi che pontificano sulla religione ma non fanno alcun tentativo di praticare personalmente l’amore per l’umanità che è centrale in tutte le maggiori religioni mondiali. Ci sono studiosi che insegnano filosofia ma non guardano mai le cose con i propri occhi e non sanno pensare con la propria testa, liberi dal pregiudizio o dall’opinione generale. Ci sono anche studiosi che parlano di umanesimo e diritti umani eppure continuano a discriminare le persone sulla base del loro status sociale o della loro formazione culturale. Ci sono studiosi che insegnano etica eppure si fanno dominare dalla vanità e da gretti interessi personali.
Un detto giapponese afferma: «Solo perché leggi Confucio, non vuol dire che tu lo capisca». Difatti, qual è l’utilità dello studio se non influenza la vita? Derbolav afferma che finché i ricercatori «si concentrano sullo studio dell’uomo solo da un punto di vista letterario, potrebbero facilmente arenarsi coltivando sapere formale ed erudizione grossolana. Quando questo accade, umanità diventa una parola vuota e la cultura umana un’ideologia che non coltiva più il reale significato di umanità. […] E come sperimentato molte volte nel corso dei secoli, il prezioso nucleo morale dell’umanesimo può facilmente indebolirsi e condurre a ferocia e barbarie».
Questa è un’osservazione sagace e importante. Se gli studiosi non fanno della verità che vanno cercando uno specchio col quale esaminare e perfezionare se stessi con umiltà, possono scadere a un livello ben più basso di chi non ha nessuna istruzione, perfino a un livello di animalità.

Un grande e umile studioso
Derbolav era esattamente l’opposto. Non era affatto presuntuoso, ma umile, premuroso e attento agli altri. Benché fosse uno dei più importanti studiosi del paese, riceveva ogni studente che gli facesse visita. Li chiamava compagni di ricerca filosofica e parlava con loro da una posizione paritaria. La vecchia generazione di studiosi in Germania esprimeva una sorta di autoritarismo elitario ma Derbolav faceva eccezione. Senza dubbio questo era in parte dovuto al suo carattere, ma credo fosse anche frutto dei suoi studi, che erano un costante processo di autoanalisi.
Nel corso delle nostre discussioni affermò: «Un dialogo di questo genere deve cominciare dal confronto dei diversi sistemi religiosi, facendo attenzione sia alle similitudini che alle differenze e limitando le critiche. Solo se i partecipanti [a un dialogo] si spostano dalla critica all’autocritica – senza intenzioni missionarie – il dialogo può essere fruttuoso e creare legami che uniscano ambo le parti».
Quanto è vero. Non ci può essere alcuna discussione obiettiva senza autocritica, diversamente le convinzioni individuali rimangono come presupposto implicito che impedisce il reale scambio di idee.
In ogni caso, un lavoro di ricerca che non coinvolga il proprio io, sarà sempre uno sforzo infruttuoso. Un lavoro di alto livello porta sempre l’impronta della personalità e dell’umanità dello studioso. Ha in sé una vita vera che, entrandovi in contatto, si sente pulsare, e quando lo si seziona scorre il sangue. Questo è ciò che contraddistingue un sapere che è tutt’uno con la vita del ricercatore.

La canzone di Lorelei
Durante la nostra conversazione sul Reno, dagli altoparlanti della nave improvvisamente uscì una melodia familiare: Lorelei. Ci stavamo avvicinando alla famosa rupe, quella di Lorelei, dove secondo la leggenda una sirena un tempo sedeva e attirava i marinai verso la morte con la sua canzone. Effettivamente le rocce sommerse e le forti correnti rendono pericolosa da sempre questa parte del fiume; perfino dopo numerosi lavori effettuati in tempi recenti per migliorarne la sicurezza, gli incidenti continuano a essere frequenti.
Derbolav e io andammo sul ponte. Alla nostra destra la roccia sporgeva dall’acqua fino a un’altezza di centotrentadue metri. È talmente grande che questa parte del fiume è illuminata dal sole soltanto per poche ore al giorno e il fiume si restringe notevolmente.
Un amico tedesco che era assieme a noi intonò Lorelei. Derbolav sorridendo si unì al canto. Anche noi giapponesi cantammo assieme a loro; in giapponese, naturalmente.

Io non so che voglia dire
che son triste, così triste.
Un racconto d’altri tempi
nella mia memoria insiste.
Fresca è l’aria e l’ombra cala,
scorre il Reno quetamente;
sopra il monte raggia il sole
declinando all’occidente.
(Tratto da Testi originali e traduzioni Lieder, Garzanti Editore, traduzione a cura di Diego Valeri)

Per noi è una canzone nostalgica. Le parole sono di Heinrich Heine (1797-1856) tratte dal suo Buch der Lieder (Libro delle canzoni), e la musica è di Friedrich Silcher. È stata tradotta in giapponese da Sakufu Kondo e viene cantata in Giappone fin dal tardo diciannovesimo secolo. Casualmente Heine studiò all’Università di Bonn, la stessa dove Derbolav era ora professore emerito. Heine era ebreo e i suoi libri furono bruciati sotto il regime di Hitler, e rimase in circolazione solo Lorelei il cui autore veniva indicato come “Anonimo”.

La bellissima fanciulla
sta lassù, mostra il tesoro
dei suoi splendidi gioielli,
liscia i suoi capelli d’oro.

mentre il pettine maneggia,
canta, e il canto ha una malia
strana e forte che si effonde
con la dolce melodia.
(Ibidem)

Il potere della cultura è davvero straordinario. Più di centocinquant’anni fa, un poeta ispirato dalla leggenda di una sirena, scrisse una poesia. E quella poesia venne portata in un paese insulare del lontano oriente dove ha continuato a essere cantata negli anni, al di là del tempo. Ora, al di là dei confini nazionali, tedeschi e giapponesi stavano cantando insieme quella canzone guardando la roccia sulla quale era ambientata.

Dialogo tra culture
Proprio perché credo fermamente nel potere della cultura, desideravo condurre un dialogo tra culture da tramandare ai posteri. Derbolav condivideva il mio desiderio. Entrambi ci impegnammo in maniera particolare per il capitolo Buddismo e Cristianesimo. Pensavo alle parole di Arnold Toynbee: «Quando gli storici del futuro scriveranno del nostro tempo, forse saranno poco interessati alle sorti della democrazia e del comunismo, ma concentreranno la loro attenzione su quanto accadde quando la Cristianità e il Buddismo raggiunsero un profondo livello di mutua comprensione e scambio». Questa prospettiva nobile e onnicomprensiva è tipica di Toynbee.
Derbolav e io non eravamo interessati a dibattere quale religione fosse superiore ma volevamo scoprire quali fossero le idee comuni alle due tradizioni e il potenziale che la religione ha per contribuire alla vita umana. Eppure Derbolav disse che trovava l’idea buddista di compassione superiore all’idea cristiana di amore: «Sono incline a dare la priorità alla compassione – nel senso buddista – sull’amore, innanzitutto perché la compassione sembra essere la più elementare delle due, poi perché ha una gamma di efficacia più ampia, che si estende al mondo non umano».
Passata la rupe di Lorelei, la barca attraccò alla riva sinistra, nella città di St. Goarshausen. La crociera era durata circa due ore. Sbarcammo e continuammo a parlare durante la cena consumata in un ristorante costruito in un castello rimodernato situato sulla sommità di un’alta collina.
Sfortunatamente la moglie di Derbolav, Rita, non si sentiva bene quel giorno e non poté unirsi a noi. Un mese dopo, appresi in Giappone la notizia della sua morte e pregai per la sua felicità eterna. Era una persona allegra e premurosa. Inviai un telegramma di condoglianze e chiesi a un amico tedesco di comunicare personalmente il mio dispiacere a Derbolav.

Progresso senza fine
Quando il manoscritto tratto dal nostro dialogo, che si protrasse per sei anni, fu finalmente ultimato, Derbolav, mi dissero, ne fu così contento e compiaciuto che lo teneva sul comodino. Il 14 luglio 1987 Derbolav spirò, all’età di settantacinque anni. Era entrato in ospedale a Bonn un mese prima. In seguito sua figlia, Elke Jarnut, mi disse che rimase legato al nostro dialogo fino alla fine. Si era portato il manoscritto in ospedale, disse la figlia, lo leggeva sempre e non vedeva l’ora che fosse pronto. Dopo la sua morte, Elke Jarnut fece l’ultima revisione del manoscritto e l’edizione tedesca venne pubblicata nella primavera dell’anno seguente, il 1988.
Alla ricerca di una nuova umanità. Derbolav attribuiva un profondo significato al termine “ricerca” nel titolo del nostro dialogo. Non si può definire ciò che sarà la nuova umanità poiché il modello è destinato a cambiare di epoca in epoca. Al contrario, uno spirito vitale non è mai soddisfatto dello status quo ed è sempre aperto alla ricerca di ulteriori cambiamenti. Bisogna sempre cercare il miglioramento per continuare la propria evoluzione personale.
Quest’instancabile ricerca, secondo Derbolav, è la prova della propria umanità. È un convincimento che ha molto in comune con lo spirito buddista della vera causa, ovvero del continuo avanzare da adesso in poi.
Ricercare, ricercare sempre. Avanzare sempre, cercando il vasto oceano del perfezionamento di sè. Questo è lo spirito del cercatore o, in termini buddisti, del bodhisattva.
Anche il Reno continua il suo interminabile viaggio, sempre alla ricerca del mare. Rimane costante, scorrendo in eterno. In eterno eppure sempre nuovo, si muove sempre, sempre parte, ed è sempre in cammino.
Progresso senza fine! Eterno miglioramento di sè! Eterna sfida! In questo, e soltanto in questo, potremo cogliere le avvisaglie della nuova umanità e del nuovo secolo.

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Josef Derbolav

Josef Derbolav (1912-87), educatore tedesco di fama mondiale, nato a Vienna nel 1912 e morto a Brema nel 1987. Professore emerito all’Università di Bonn e grande esperto di pedagogia e filosofia greca attraverso le sue analisi e le sue teorie educative sulla scuola media inferiore e superiore influenzò notevolmente la pedagogia nei paesi di lingua tedesca.
Nel 1992 è stato pubblicato dall’editore Weatherhill un libro di dialoghi con Daisaku Ikeda dal titolo
Search for a New Humanity (Alla ricerca di una nuova umanità).

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