Un incontro con Serge Tolstoj, diventa occasione per ricordare le due grandi figure di Leone e Alexandra Tolstoj. Un viaggio attraverso il secolo scorso insieme a chi ha avuto il coraggio di non abbandonare la propria fede in un mondo senza guerre
Non pianse mai. Non le piaceva mostrare le proprie emozioni. E poi, che senso aveva piangere? La cosa importante era superare gli ostacoli che si avevano di fronte. Alexandra Lvovna Tolstoj (1884-1979), la figlia minore di Leone Tolstoj (1828-1910), era una donna di grande coraggio. Ma la sua vita, specialmente dopo la morte dell’illustre padre, fu una serie di vicissitudini che avrebbero fatto piangere chiunque.
Quando Tolstoj morì, Alexandra, allora ventiseienne, era al suo fianco. Il grande scrittore russo, amato in tutto il mondo morì nella casa di un capostazione in una piccola città che nessuno aveva mai sentito nominare. Sette anni dopo, scoppiò la Rivoluzione russa che portò all’avvento della dittatura del Partito comunista. La filosofia dominante di quel periodo era il materialismo e coloro che credevano nella religione o nella nonviolenza erano trattati severamente. Alexandra Tolstoj credeva in entrambe le cose. Fu incarcerata cinque volte ma incurante delle aspre persecuzioni di cui fu vittima, rimase fedele agli insegnamenti del padre. Continuò ad avanzare a testa alta: era la figlia di Tolstoj.
Tolstoj insegnava che senza una fede religiosa la vita non ha significato. Come si poteva pensare che sua figlia rinunciasse alla religione? Tolstoj era contrario a ogni forma di violenza. Sua figlia, come avrebbe potuto approvare il militarismo?
Alla fine Alexandra decise di andare in esilio e la prima destinazione che scelse, nel 1929, fu il Giappone.
«Alexandra era mia zia» mi disse Serge Tolstoj (1911-96), figlio del fratello maggiore di Alexandra, Michail Lvovich Tolstoj (1897-1944). Serge Tolstoj era un medico e viveva in Francia. Era giunto appositamente con la moglie Colette per l’inaugurazione della Maison Littéraire Victor Hugo, da me fondata nei pressi di Parigi (nel giugno 1991, n.d.r.).
In gioventù leggevo avidamente le opere di Tolstoj e adesso avevo l’occasione di incontrarne il nipote. Lo consideravo un evento storico e gli espressi la mia profonda gratitudine per la sua visita. Era un uomo alto e muscoloso, come il nonno.
«Ogni volta che incontro un giapponese provo un senso di familiarità – mi disse – perché mio nonno aveva un profondo interesse per il Giappone e l’Asia in genere. Mi sono venuti a trovare anche alcuni scrittori giapponesi, per esempio Roka Tokutomi (1868-1927)».
«In effetti quando il presidente dell’Unione Sovietica, Michail Gorbaciov, è venuto per la prima volta in Giappone alcuni mesi fa, ha accennato all’amicizia fra suo nonno e Roka Tokutomi nel suo discorso alla Dieta giapponese» risposi.
«Davvero? – rispose – Ho sentito dire che il presidente Gorbaciov è un grande appassionato delle opere di mio nonno. Anche mia zia Alexandra è vissuta in Giappone per due anni».
Serge Tolstoj non disse molto a proposito ma la sua famiglia aveva sofferto terribilmente durante la Rivoluzione russa. Molti dei figli di Tolstoj erano stati mandati in esilio in vari paesi del mondo e la famiglia era stata divisa.
«Siete stata giudicata colpevole e condannata a tre anni di prigione!» Alexandra Tolstoj fu imprigionata nel 1920 durante un giro di vite nei confronti degli intellettuali.
Nel caos che seguì alla rivoluzione, il popolo russo soffriva a causa della carestia e dei disordini civili. Alexandra non poteva rimanere a guardare in silenzio. Cosa si poteva fare? Si incontrò per discuterne con altre persone altrettanto preoccupate e per questo fu arrestata con l’accusa di attività antigovernative.
Il pubblico ministero le chiese che ruolo avesse nella riunione che si era tenuta a casa sua. «Il mio ruolo – rispose – era riscaldare il samovar e servire il té». Fu sufficiente a procurarle un verdetto di colpevolezza.
Fu incarcerata complessivamente cinque volte, per una durata minima di dieci giorni e massima di oltre un anno. In prigione la colazione era costituita da duecento grammi di pane raffermo servito con pezzi di biada solitamente destinati al bestiame inzuppati in un té acquoso. La cena era un piccolo pesce essiccato, così duro che andava triturato prima di poter essere mangiato, con una zuppa fatta di bucce di patate, gelate e sporche. Il trucco era aspettare che lo sporco si depositasse sul fondo prima di mangiarla. Il pranzo era una sbobba fatta con avanzi di cibo. I materassi erano sacchi pieni di segatura.
Gli amici si preoccupavano di come potesse sopravvivere in quelle condizioni infernali ma Alexandra manteneva il suo buonumore. Teneva un programma di esercizi fisici per i compagni di prigionia e anche alcuni corsi d’istruzione generale. Organizzava anche spettacoli musicali e conferenze di letteratura.
Penso che si ricordasse delle parole di suo padre, citate in un libro scritto mentre era in Giappone: «Niente potrebbe farmi più piacere di essere gettato in prigione, una prigione gelida e puzzolente!»
Leone Tolstoj provava un’enorme sofferenza quando qualcuno dei suoi seguaci veniva esiliato e inviato in Siberia per le proprie attività pacifiste. Si chiedeva perché le autorità non incarcerassero lui, che era l’ispiratore di questo movimento. Ma il governo zarista sapeva che, se l’avesse fatto, l’intera nazione si sarebbe rivoltata e il mondo intero avrebbe reagito con sdegno. La statura di Tolstoj travalicava la portata di qualsiasi controllo governativo. Nessuna cella in Russia era abbastanza grande per contenerlo.
Alexandra era la figlia di Tolstoj e anche per lei il carcere era un onore. La tempesta della persecuzione non faceva altro che alimentare maggiormente la sua fiamma interiore.
Quando ci rifletteva si rendeva conto che suo padre aveva previsto ciò che sarebbe accaduto. Davanti a chi perorava con passione la causa della rivoluzione come risposta alla crudele oppressione degli zar, egli scuoteva la testa e sosteneva che il nuovo regime non avrebbe fatto altro che perpetrare la medesima oppressione. Il problema, secondo lui, non era la forma di governo. Se le persone non avessero trasformato profondamente se stesse, la società non sarebbe mai migliorata. «Se versiamo acqua sporca in un bicchiere nuovo, forse l’acqua si purifica?» chiedeva. Suo padre aveva ragione. Il nuovo regime si rivelava ancor più crudele e oppressivo del vecchio!
Ancor prima della rivoluzione Alexandra aveva affidato le terre della famiglia Tolstoj ai contadini, secondo le istruzioni del padre. E questi non avevano dimenticato questa gentilezza, tanto che, quando durante la rivoluzione molti contadini avevano assaltato le dimore dei grandi proprietari terrieri, nessuno aveva osato toccare la casa di Tolstoj.
Ma, dopo la rivoluzione, il governo si appropriò di quella terra che era stata finalmente assegnata ai lavoratori e ne fece una proprietà di stato. Alexandra protestò ma nessuno prestò ascolto alle sue obiezioni. Il governo si impossessò dei magri raccolti dei contadini e chiunque cercava di conservare qualcosa per sé veniva fucilato. La carestia si diffuse nel paese.
Mentre Alexandra era in prigione i contadini della sua zona si sollevarono chiedendo il rilascio. Fecero appello alle autorità e infine ottennero che fosse rilasciata. Così fece ritorno alla casa di famiglia a Yasnaja Poljana, che aveva deciso di trasformare nel Museo Tolstoj. Decise anche di costruire un scuola Tolstoj, con corsi settennali che coniugavano istruzione elementare e professionale e un ospedale con duecento posti letto.
Per costruire una scuola o un ospedale le occorrevano mattoni. E per produrli ci voleva una fornace. Così aveva cominciato a costruirla e a recarsi nella foresta a procurarsi la legna, senza disdegnare il duro lavoro che ciò comportava. Lavorava senza posa con un unico pensiero in mente: mettere fedelmente in pratica le idee di suo padre, portarne avanti l’opera in sua vece.
Fra i discepoli di Tolstoj alcuni si erano rapidamente adeguati al corso degli eventi e sostenevano che i tempi erano cambiati e che il loro maestro era una figura del passato. Altri estrapolavano dagli scritti di Tolstoj solo le parti che giustificavano la loro posizione. Alexandra osservava tutto questo con attenzione e senza dubbio pensava a quanto fossero vili ad aver dimenticato così presto lo spirito del loro maestro. Dopo aver finto di osannarlo non pensavano ad altro che a sfruttarlo per il proprio interesse personale e per magnificare se stessi.
Fu Alexandra che si occupò principalmente di raccogliere tutti gli scritti del padre, fra cui alcuni frammenti mai pubblicati prima. Nessuno poteva essere più adatto a questo compito visto che, dall’età di diciassette anni, era stata la sua segretaria e lo aveva assistito trascrivendo in bella copia i suoi manoscritti o scrivendo sotto dettatura. Alexandra lavorò all’edizione delle opere complete del padre in una stanza senza riscaldamento, nel rigido freddo invernale, combattendo continuamente contro le ingerenze del governo di cui non temeva la prigione perché era consapevole di aver ereditato la missione del padre, la sua filosofia e il suo scopo di vita. I legami spirituali sono più nobili dei legami di sangue. Questi ultimi si trovano anche nel mondo animale ma ciò che univa Leone e Alexandra Tolstoj, padre e figlia, era un sublime vincolo spirituale.
Alexandra ottenne l’appoggio del Commissario per l’educazione Anatoli Lunacharsky e riuscì a progredire nella realizzazione del museo, della scuola e dell’ospedale ma, quando questi perse il potere, il governo sovietico cominciò a interferire pesantemente. Anche Vla-dimir Lenin (1870-1924), che l’aveva aiutato in vari modi, morì nel 1924 e si stava avvicinando inesorabilmente l’era di Iosif Stalin (1879-1953).
Infine giunse la resa dei conti. Le autorità governative chiesero che nella sua amata scuola Tolstoj venisse propagandato l’ateismo e il materialismo. Non poteva farlo e fu costretta a prendere una decisione.
Chiese e ricevette un visto di uscita per recarsi in Giappone, dichiarando che desiderava studiare l’educazione giapponese e aveva accettato un invito a tenere una conferenza su Tolstoj. Ovviamente pensava di non tornare. Di certo quella di dire addio alla sua casa, piena di ricordi del padre, dev’esser stata una decisione straziante. Ma per lei la cosa più importante era non tradire le convinzioni di suo padre.
Alexandra Tolstoj non era affatto una persona rigida o dalla mentalità ristretta. Era una donna aperta ed estroversa che faceva facilmente amicizia. Durante la Prima guerra mondiale si era presa cura dei soldati feriti come infermiera e per la sua preparazione e le sue capacità decisionali le era stato assegnata la guida di un reparto medico. Sapeva collaborare con gli altri ed era una persona estremamente efficiente e capace. Ma c’era un confine che non poteva attraversare. Comprendeva che a volte poteva essere necessario scendere a compromessi e aspettare che i tempi fossero maturi ma un simile comportamento poteva essere giustificato solo in nome dei propri ideali e del desiderio di proteggerli. Se lei avesse rinnegato proprio quegli ideali per cui suo padre si era battuto, che senso avrebbero avuto tutte le sue sofferenze? Tutti i suoi sforzi sarebbero stati inutili.
E così Alexandra Tolstoj giunse in Giappone. Approdò nella Baia di Tsuruga il 18 ottobre 1929. Nonostante i disagi dovuti alla scarsa familiarità con i costumi giapponesi e la costante sorveglianza della polizia, i due anni che trascorse nel paese furono il primo periodo di tranquillità di cui avesse goduto da molto da tempo.
Viaggiò in tutto il Giappone tenendo conferenze, visitò Osaka, Tokyo, Nagoya, Fukuoka, Gifu, Gumma, Kyoto, Kobe e Nagano. Affittò un appartamento nel quartiere di Shiba (attuale Minato) a Tokyo e in seguito si trasferì a Suginami. Durante la sua permanenza affittò anche una casa ad Ashiya nella prefettura di Hyogo, un tranquillo villaggio di pescatori, e fu qui che scrisse le sue memorie del padre.
Shigeo Iwanami (1881-1946), fondatore della casa editrice Iwanami Shoten, preoccupato della situazione finanziaria di Alexandra si era offerto di aiutarla ma ella non voleva la carità di nessuno. Così Alexandra avrebbe scritto un libro ed egli ne avrebbe acquistato il manoscritto.
Mentre si trovava in Giappone il governo sovietico continuò a esercitare pressioni per il suo ritorno. Il governo giapponese non le concesse asilo e, dopo notevoli vicissitudini, riuscì a ottenere un visto per gli Stati Uniti e partì da Yokohama nel luglio 1931.
Dopo l’arrivo negli Stati Uniti, Alexandra ebbe notevoli difficoltà anche di natura finanziaria. Seguendo la volontà del padre aveva rinunciato ai diritti sulle sue pubblicazioni.
Infine, dieci anni dopo il suo arrivo, un finanziatore le donò un appezzamento di terreno sul quale poté edificare la Fondazione Tolstoj, in un sobborgo nei pressi di New York. Qui Alexandra si prendeva cura degli esiliati russi, dei rifugiati provenienti da ogni parte del mondo e degli orfani. Si dice che fino a oggi la fondazione abbia assistito circa mezzo milione di persone.
L’opera che Alexandra intraprese fu uno sforzo immenso, al di là di ogni immaginazione. Masse di persone sofferenti affluivano. Ci furono sicuramente momenti in cui avrà sospirato, esasperata alla notizia di un altra guerra, di un’altra ondata di rifugiati. Il mondo era immerso così profondamente nel materialismo che a volte non sembrava che rimanesse altro che oscurità. Ma nel cuore di Alexandra le ultime indimenticabili parole di suo padre ardevano come una torcia.
Nel tardo autunno del 1919, l’ottantaduenne Leone Tolstoj era uscito di casa prima dell’alba. Se n’era andato con l’intenzione di rinunciare agli impegni del mondo e ricercare il vero sentiero della vita. Ma sul suo cammino si era ammalato di polmonite ed era stato costretto a letto presso l’alloggio di un capostazione, ad Astapovo. Alexandra e la sorella maggiore Tatjana Lvovna Tolstoj, che si era affrettata a raggiungerla ap-pena aveva appreso delle condizioni del padre, rimasero al suo capezzale, prendendosi cura di lui giorno e notte.
Alexandra narra un episodio che accade il giorno precedente alla morte di Tolstoj (6 novembre):
«Quel giorno Tanja e io siedevamo sul suo letto. Improvvisamente egli si mosse con forza e si mise a sedere. Ci protendemmo verso di lui: “Vuoi che ti sistemi i cuscini?” “No” rispose con una voce ferma e chiara. “No, voglio solo che ricordiate che al mondo ci sono tante persone oltre a Lev Tolstoj, e che voi vi state interessando soltanto a quest’unico Lev». Furono le sue ultime parole per Tanja e per me».
Aiuta gli altri, figlia mia! Questa frase di suo padre decise il corso della vita di Alexandra Tolstoj. Sì, noi nasciamo con una missione, la missione di aiutare la moltitudine di persone che soffrono. Siamo nati per servire gli altri. Siamo nati per migliorare noi stessi grazie a questo servizio agli altri. E così dobbiamo vivere e andare avanti, per quanto dolorosa ci possa apparire la vita.
Io vivrò, decise Alexandra, io non sarò sconfitta. Dopotutto era la figlia di Tolstoj. E fu così che riuscì a mantenere viva la fiaccola della speranza in un mondo di oscurità.
Alexandra lavorò tutta la vita, fino agli ultimi anni. Non si sposò mai. E quando morì, nel settembre 1979 all’età di novantacinque anni, quella figlia devota si riunì nuovamente al padre, libera da ogni rimpianto, dopo aver trionfato nella battaglia della vita.
Erano trascorsi sessantanove anni dal giorno in cui aveva detto addio a suo padre in quella remota stazioncina di campagna.
È facile essere pacifisti in tempo di pace, ma Leone Tolstoj perorò la causa della pace nel bel mezzo di una guerra, esortando la gente a riflettere su ciò che stava facendo. Oltretutto era il suo paese che era in guerra, la Guerra russo-giapponese del 1904-1905 e il suo appello per la pace non poté nemmeno essere pubblicato nella sua terra natale.
Eppure Tolstoj rifiutò di tacere, sapeva che il silenzio di fronte alla guerra significa tacito appoggio. In un articolo dal titolo Ricredetevi pubblicato dal Times di Londra nel giugno 1904 scriveva: «Ancora guerra. Ancora sofferenze, che non servono a nessuno, del tutto gratuite, ancora imbrogli, ancora stordimento generale e crudeltà verso gli esseri umani… Ma cos’è? Sogno o realtà?».
A Tolstoj pareva che tutti fossero improvvisamente impazziti. Cosa diavolo stava facendo la gente? La figlia diciannovenne Alexandra ricorda la reazione del padre: «Incredibile – continuava incessantemente a ripetere – il Cristianesimo proibisce l’uccisione e così anche il Buddismo. Eppure due popoli che professano religioni che proibiscono di ammazzare, si stanno crudelmente massacrando, af-fogando, mutilando a vicenda!».
La verità era che i popoli di entrambi i paesi stavano seguendo una nuova religione, quella del nazionalismo. Scrive Alexandra: «Papà cercava di leggere il giornale ma gli articoli lo turbavano a tal punto che non ci riusciva. “Non posso leggerli – diceva – Non posso leggere questi articoli che cercano di alimentare il patriottismo nelle persone raffigurando eventi sanguinosi come se fossero qualcosa di bello e nobile”».
Tolstoj si chiedeva come le persone potessero farsi ingannare così facilmente dai sofisimi, dalle bugie e dalle tattiche di indottrinamento dei guerrafondai. Non si rendevano conto che il governo, ansioso di giustificare la guerra, ripeteva costantemente una sequela di bugie? Anche le cosiddette persone colte si facevano ingannare. Come potevano queste persone intelligenti, «che fino a ieri avevano provato la crudeltà, la futilità e l’insensatezza della guerra, appoggiare il massacro reciproco fra membri della stessa famiglia umana?».
Tolstoj scriveva con toni aspri, animato da un sentimento di imminente catastrofe. Innumerevoli persone del tutto innocenti stavano per essere assassinate e il mondo si limitava a stare a guardare. In un momento simile chi poteva riuscire a scrivere come un cronista spassionato? Anche a settantacinque anni Tolstoj ardeva di passione quando dichiarava:
«Lo zar di Russia, lo stesso uomo che aveva esortato tutte le nazioni alla pace, annuncia pubblicamente che, nonostante tutti i suoi sforzi per mantenere la pace così cara al suo cuore (sforzi che si esprimono nell’impadronirsi dei territori di altri popoli e nel rafforzare l’esercito per difendere le terre depredate), egli, a causa dell’attacco da parte dei giapponesi, ordina che sia fatto a questi ciò che essi hanno cominciato a fare ai russi e cioè che devono essere massacrati […] L’imperatore del Giappone ha proclamato la stessa cosa riguardo ai russi».
Entrambi gli schieramenti pretendevano di combattere una guerra di autodifesa e questo concetto veniva inculcato alla popolazione. In Giappone in particolare questo tipo di propaganda veniva attuata in maniera estremamente accurata e sistematica, così che la maggioranza dei giapponesi era fermamente convinta che la Guerra russo-giapponese fosse difensiva. Ma di certo non era così per la popolazione della Cina, dove la maggior parte di questa guerra veniva combattuta. Come ebbe a osservare uno storico cinese:
«La Guerra russo-giapponese fu un conflitto imperialista fra il Giappone e la Russia per decidere quale delle due avrebbe governato la Corea e le tre province nordorientali della Cina. La maggior parte della guerra si combatté sul suolo cinese per un periodo di circa diciotto mesi. Entrambe le parti arruolarono forzatamente la popolazione locale cinese, distrussero case, ponti, città e villaggi che ostacolavano le loro attività militari. Facendo così calpestarono quel poco di sovranità di cui la Cina godeva a quel tempo e inflissero gravi perdite alle vite e ai possedimenti della popolazione delle tre province nordorientali.
Nella Guerra russo-giapponese decine di migliaia di cinesi furono uccisi e mutilati senza ragione. Innumerevoli case furono rase al suolo, la gente fu depredata del cibo e le coltivazioni furono distrutte o utilizzate per nutrire gli animali, senza lasciare niente che potesse essere raccolto. Luoghi come Lushun, dove la battaglia infuriò maggiormente che altrove, divennero vaste e desolate distese, spoglie e prive di vita.
Durante la guerra l’esercito giapponese massacrò e saccheggiò la popolazione cinese con il pretesto di snidare le spie. I russi non furono da meno, bruciando ripetutamente le coltivazioni, violentando le donne cinesi e rubando gli animali domestici».
Questa era la realtà della “guerra giusta”.
Tolstoj continuava a incitare le persone a guardare in faccia la verità. Anzitutto si rifiutava di mascherare l’atrocità della situazione usando parole raffinate. Definiva la guerra un “assassinio di uomini”, le armi come “strumenti del delitto” e le installazioni militari come “basi d’appoggio per svolgere l’opera omicida”. Per lui i “gloriosi campi di battaglia” non erano altro che “i luoghi del massacro” e le “fiere navi da guerra “ erano solo “crudeli e insensate macchine per la carneficina” e i generali pieni di decorazioni erano poco più di persone “capaci di uccidere gli uomini con grande abilità”.
È facile dire: «Si entra in guerra!» ma Tolstoj continuava a far notare che la conseguenza della guerra è la morte di un gran numero di persone, molte delle quali sono civili innocenti. E faceva notare inoltre che, quando gruppi non governativi sparano alla popolazione civile, si parla di “mostruoso crimine” ma quando è una nazione a fare la stessa cosa si parla di “applicare la giustizia”.
Quando le persone si fanno ingannare dall’idea artefatta di “nazione” accade che i massacri a sangue freddo dei propri simili diventano qualcos’altro, qualcosa di diverso da quell’assassinio di cui in realtà si tratta. Tolstoj cercava di smascherare quest’abile manipolazione delle parole che ci impedisce di vedere la verità nuda e cruda.
E avanzava dubbi anche sugli “uomini di legge” che cercavano di dimostrare come la guerra Russo-giapponese fosse, dal punto di vista del protocollo legale, perfettamente giustificabile. «Protocollo!» tuonava Tolstoj «A prescindere da qualsiasi protocollo o precedente, l’omicidio è omicidio!» Il famoso scrittore era anche un accanito oppositore della pena capitale.
In questo e in molti altri casi Tolstoj era come il bambino che fa notare che l’imperatore è nudo. Anche se tutte le persone considerano strana o sbagliata una certa situazione, la maggior parte di loro tende a credere di non saperne abbastanza per essere assolutamente sicura della validità dei propri dubbi. Ragionano pensando che, se gente importante dice che qualcosa è giusto e buono, deve aver valide ragioni per farlo. «Guardate» dicono «che belle analisi complicate, fanno i grandi studiosi, gli avvocati, i politici! Usano parole così grosse e altisonanti che deve per forza trattarsi di persone molto intelligenti. E adesso queste persone intelligenti stanno dicendo che dobbiamo andare in guerra, che la guerra è l’unica soluzione, che la pace è irrealistica, quindi devono avere ragione». E tuttavia tutti confessano di non riuscire a capire perché donne e bambini del tutto innocenti debbano morire.
In questa situazione di accettazione acritica e servile, arriva il bambino che proclama ad alta voce che l’imperatore non ha vestiti, vale a dire, appare una persona che grida che la guerra è un male assoluto.
Tolstoj asseriva che l’escalation militare è come una malattia contagiosa e citava le parole di un famoso scrittore: «È la guerra stessa che porta alla guerra e la perpetua all’infinito. Il vincitore, ebbro della vittoria, cerca nuovamente vittoria e il paese sconfitto, seccato per la sconfitta, si affretta a riparare al proprio onore e alle proprie perdite».
Combattere la violenza con la violenza mette in moto un circolo vizioso.
Tolstoj sosteneva perentoriamente che invece di combattere, le nazioni dovrebbero adoperarsi per conquistare il rispetto delle altre nazioni, sforzarsi di suscitarne l’ammirazione, e diventare esempi di virtù e di bontà. La gente rideva di lui e lo chiamava ingenuo. Com’erano sciocchi. Era inconcepibile che l’autore di Guerra e pace potesse ignorare le realtà della politica internazionale.
Al contrario, niente è più ingenuo, e più facile, di allinearsi alla massa nella marcia verso la guerra – e questo è ancor più vero quando non sussiste alcuna possibilità che chi lo fa finisca personalmente al fronte.
Al contrario di molti occidentali dei nostri giorni, Tolstoj credeva che, nel processo di modernizzazione, il Giappone avesse subito una corruzione morale. Riteneva che avessero completamente perso la propria direzione imitando tutti i più squallidi aspetti della cultura occidentale e pensando erroneamente «di aver ottenuto l’illuminazione perché avevano imparato a uccidere». Il critico culturale giapponese Kakuzo Okakura (1862-1913), (noto con lo pseudonimo di Tenshin Okakura) faceva notare che fino a quando i giapponesi indulgevano nelle gentili arti della pace gli occidentali tendevano a considerarli barbari ma che, da quando avevano iniziato a commettere massacri di massa sui campi di battaglia della Manciura, aveva cominciato a definirli civilizzati.
Serge Tolstoj, nipote di Tolstoj parlava con fervore: «Cos’è la civiltà? Mio nonno credeva che la nonviolenza fosse la vera civiltà. Rispondere alla forza con la forza è la legge della giungla. Mi piacerebbe lavorare insieme ai membri della SGI per costruire un mondo di nonviolenza». Sembrava che conoscesse personalmente gli orrori della violenza.
Serge Tolstoj nacque nel 1911, diversi mesi dopo la morte del nonno. Aveva sei anni allo scoppio della Rivoluzione russa (nel 1917). Suo padre, Michail Tolstoj, mandò la moglie e i figli in Caucaso per proteggerli dagli effetti del conflitto rivoluzionario ma con scarsi risultati. Mancava il cibo. Il pane era scomparso dagli scaffali dei negozi e bisognava aspettare ore in coda per ottenere un piccolo pezzo di pane scuro e secco. La gente lottava disperatamente per sopravvivere.
Un giorno un gruppo di scalcinati soldati dell’Armata rossa, armati di baionette, venne a perquisire la casa della famiglia di Serge. Sventrarono i materassi e svuotarono armadi e credenze. Ritenevano che suo padre stesse dalla parte degli “imperialisti” e volevano arrestarlo. I soldati non esitavano a prendere ostaggi e a torturare la gente per ottenere informazioni e un conoscente della famiglia era stato già catturato e ucciso.
In un’altra occasione Serge stava camminando solo per la strada quando un soldato gli gridò con tono imperioso: «Ehi tu!» e lo afferrò per la collottola. «Dove si nasconde tuo padre?» gli chiese l’uomo. Quando Serge balbettò che non lo sapeva il soldato lo spinse violentemente da parte e se ne andò. Diversi giorni più tardi cinque o sei soldati ritornarono a casa. Trascinarono fuori in giardino la madre di Serge e, spingendola con le spalle al muro, le chiesero: «Dov’è lui? Vi uccideremo se non ce lo dite!».
La madre di Serge li guardò dritti in faccia e rispose: «Io non so niente». I soldati la insultarono e minacciarono di ritornare. Poi, inveendo, presero a schiaffi lei e i bambini e se e andarono.
Costretto a rimanere nascosto, Michail non poté assistere al funerale della madre Sophia, moglie di Leone Tolstoj, che morì nel 1919. Ciò fu per lui causa di grande dolore.
Dopo l’assassinio dello zar e della sua famiglia, accaduto l’anno precedente, la famiglia di Serge decise che era necessario espatriare. Quando giunse il momento i suoi genitori, insieme ai nonni materni e a numerosi cugini si stiparono in una carrozza di un affollato treno merci. Il treno fece ripetute fermate nel suo lento viaggio attraverso la campagna. Poi si trasferirono su una nave ma il mare era in tempesta e l’equipaggio li trattava con malgarbo. Verso la fine del 1921, dopo aver attraversato diverse nazioni nel corso del viaggio, giunsero in Francia dove avevano dei parenti. Serge aveva dieci anni.
«La violenza non risolve niente» mi disse il dottor Tolstoj «assolutamente niente. Gli esseri umani devono migliorare se stessi attraverso la cultura e l’educazione. Anche per questo sono felice di assistere all’inaugurazione della Maison Littéraire Victor Hugo». Dalla finestra vicina potevamo ammirare il verde del bosco di giugno. Era un luogo che Victor Hugo amava molto e dove veniva frequentemente per trarne ispirazione poetica.
Riguardo alla guerra, anche Hugo, come Tolstoj stava dalla parte delle vittime, di coloro che sarebbero stati uccisi. Nel suo capolavoro Novantatré, ambientato nel pieno dell’aspra battaglia fra monarchici e repubblicani durante la Rivoluzione francese, qualcuno chiede a una madre: «A che gruppo appartieni?» E la madre risponde: «Sto con i miei figli».
Quando chiesero a Tolstoj da che parte stesse durante la Guerra russo-giapponese, rispose: «Non sto né dalla parte della Russia né del Giappone ma dalla parte dei lavoratori di entrambi i paesi che, ingannati dai loro governi, vanno in guerra, contro la propria coscienza, la propria religione e il loro stesso Dio». E a un giornale francese dichiarò: «Che cosa ne penso delle nazionalità? Io sto dalla parte dell’umanità».
Circa nello stesso periodo il giovane scrittore cinese Lu Xun (1881-1936) stava studiando a Sendai in Giappone. Non poteva che trovarsi d’accordo con Tolstoj e rifiutava di schierarsi sia con la Russia che con il Giappone. Tolstoj, Hugo e Lu Xun consideravano la realtà della guerra dal punto di vista di coloro che sarebbero stati uccisi. Un punto di vista diametralmente opposto a quello di coloro che dirigevano il massacro.
Di conseguenza Tolstoj dovette sopportare un’ondata di critiche. Lo denunciavano sia da destra che da sinistra: «Quando il tuo paese è in guerra con un altro è irresponsabile dichiarare che non stai dalla parte di nessuno dei due. Stai forse dicendo che la Russia non dovrebbe attaccare il “cattivo” Giappone? Sei un ingenuo! Il mondo è un posto totalmente diverso da quello dipinto nelle favole, Conte Tolstoj. Siete diventato troppo morbido e sentimentale!» Questo era il tono degli attacchi nei suoi confronti.
Tolstoj parafrasava così gli editoriali dei quotidiani dell’epoca:
«Adesso non si può… essere sentimentali; dobbiamo combattere, dobbiamo menar colpi così forti che il solo ricordo di essi faccia rabbrividire il perfido cuore dei giapponesi. Adesso è il momento che gli incrociatori prendano il mare per ridurre in cenere le città del Giappone, volando come una mortale calamità lungo le sue belle spiagge. Basta col sentimentalismo».
I giornali dichiaravano che preoccuparsi per la morte dei bambini giapponesi o di semplici civili era solo sentimentalismo: «Sono morti che non si possono evitare; dopo tutto sono il nemico!». Ma per Tolstoj la guerra, in qualsiasi paese, significava che i membri della “sua famiglia”, la famiglia umana, sarebbero stati uccisi, l’uno dopo l’altro e quello al momento era il problema più urgente e reale.
In questo c’è un abisso nel modo di sentire che è difficile colmare, più di qualsiasi abisso intellettuale. Com’è possibile che le persone possano considerare la vita dei cittadini di altre nazioni meno preziosa della propria? Tolstoj avrebbe risposto che era a causa del veleno della falsa dottrina del nazionalismo.
Tolstoj amava molto le opere del filosofo francese Blaise Pascal (1623-62) che affermava: «Ci può essere qualcosa di più stupido del fatto che un uomo abbia il diritto di uccidermi perché vive sull’altra sponda di un fiume e il suo sovrano ha avuto una lite col mio, anche se io non ho litigato con lui?».
Anche se gli esseri umani sono tutti membri della stessa famiglia umana, il nazionalismo li divide in scatole separate e obnubila ogni coscienza della loro comune umanità. «Questa terribile eresia – scriveva Tolstoj – conduce la gente a far del male agli altri e anche a se stessi, a mutilare e assassinare. Saremo liberi da questa eresia soltanto quando riconosceremo nei nostri cuori la fonte della vita che esiste in tutte le persone». Tolstoj chiedeva che ci risvegliassimo a questa eterna “fonte della vita” e che non seguissimo gli ordini della nazioni, che sono creazioni dell’umanità, ma la legge assoluta della vita. Egli affermava che dovevamo riflettere sinceramente e meditare sul perché eravamo nati, sul perché siamo qui. Se lo facessimo, nessuno più combatterebbe una guerra. E fino a quando questa trasformazione nella coscienza dell’umanità non avrà luogo, nessuna struttura o sistema per quanto abilmente progettata potrà impedire la guerra.
Elencare i meriti della dottrina di Tolstoj esula dalla scopo di questo saggio ma vorrei far notare che, fra coloro che non concordavano con il suo rifiuto dell’uso della forza militare, c’era anche chi riteneva che pur essendo necessario fosse comunque un male. Tuttavia, lungo la strada questa posizione giunse a rovesciarsi e a diventare: «Anche se la forza militare è un male è un male necessario». Da qui il passo è breve ad affermare che: «Poiché la forza militare è necessaria, non è un male».
Il poeta giapponese Takuboku Ishikawa (1886-1912), leggendo gli scritti di Tolstoj contro la Guerra russo-giapponese commentava che erano idee meravigliose ma poco pratiche. Ma a quell’epoca c’era qualcun altro che la pensava diversamente; che non solo riteneva che la posizione di Tolstoj fosse pratica ma che fosse anche l’unica soluzione possibile. Quella persona era il Mahatma Gandhi (1869-1948). In seguito, ispirato da Gandhi, Martin Luther King, paladino dei diritti civili, si levò a combattere la discriminazione razziale.
Sia Gandhi che King erano leader estremamente pratici, capaci di attingere al potere più grande che esiste, quello dell’animo umano, per trasformare le proprie realtà sociali. Coloro che non credono in questo potere si prendono gioco della nonviolenza, definendola un’astrazione poco pratica, con la stessa arroganza di coloro che in passato si rifiutavano di ascoltare Tolstoj. Quante decine di milioni, anzi, quante centinaia di milioni di morti ha prodotto quest’arroganza?
Quattro anni dopo la morte di Tolstoj, ebbe inizio la Prima guerra mondiale (1914). Poi ci fu la Seconda guerra mondiale. Poi la proliferazione delle armi nucleari e una serie interminabile di conflitti e guerre locali. Tolstoj aveva ammonito l’umanità che stava correndo verso il precipizio e che se avesse continuato nello stesso modo, una tremenda distruzione causata dalle guerre sarebbe stata inevitabile. Il “realismo” del fare affidamento sulla forza militare ha aumentato e non diminuito la frequenza delle guerre. La storia ce ne dà una triste e oggettiva dimostrazione.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, Serge Tolstoj visitò gli Stati Uniti per svolgere alcune ricerche legate ai suoi studi e incontrò sua zia Alexandra. Fu un momento di grande emozione. Assomigliava moltissimo al padre Michail, morto due anni prima, e il modo in cui teneva le mani era esattamente identico alla posa che era solito assumere suo nonno nelle fotografie: «Mia zia era vestita molto semplicemente. Era sulla sessantina, con i capelli bianchi, ma aveva un aspetto giovanile e sembrava piena di fiducia in se stessa. Percepii in lei un’immensa dignità e forza di carattere».
Sembrava che da lei emanasse lo spirito di suo nonno che non aveva mai conosciuto. Gli ideali di Tolstoj vivevano in lei, che aveva tenuto fede alla sua promessa di non dimenticare mai gli insegnamenti e i sogni di suo padre.
E anche Serge e la moglie Colette, che gli succedette alla presidenza dell’Associazione degli amici di Leone Tolstoj, condivisero questi ideali.
L’appassionato grido di pace di Tolstoj risuona con forza ancora oggi: «Sì, il grande conflitto del nostro tempo non è quello fra giapponesi e russi, né quello che può esplodere fra i bianchi e i gialli e nemmeno quello che si combatte a colpi di mine, bombe e pallottole, ma quella lotta spirituale senza sosta che è continuata e ancora continua, fra la coscienza illuminata dell’umanità che attende di manifestarsi e l’oscurità e il fardello che circonda e opprime l’umanità». A mio avviso, questa è la vera battaglia fra civiltà e barbarie.