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Liberi di non subire - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 11:04

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Liberi di non subire

Ovvero come cambiare il copione quando la vita è un film che non ti piace e soprattutto da comparsa diventare protagonista. Perché quando la mente è un “cavallo ribelle” domare non significa reprimere ma sapersi esprimere

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Ovvero come cambiare il copione quando la vita è un film che non ti piace e soprattutto da comparsa diventare protagonista. Perché quando la mente è un “cavallo ribelle” domare non significa reprimere ma sapersi esprimere

Rompiamo i luoghi comuni: nell’uso corrente, l’espressione “dominio di sé” evoca sensazioni come autocontrollo o malcelata autorepressione delle proprie (talvolta sgradite) caratteristiche. Non si tratta di questo.
Nel Buddismo il dominio di sé, o “padronanza della mente”, è un punto di snodo, proprio per questo forse molto fraintendibile, ma importante: «Il Budda scrisse che dobbiamo diventare padroni della nostra mente e non lasciare che la mente sia la nostra padrona. È questo che intendo quando ti spingo a rinunciare persino al tuo corpo e a non risparmiare mai la tua vita per il Sutra del Loto» (Lettera a Gijo-bo, SND, 5, 4).
Daisaku Ikeda, perfino per affrontare problemi della portata del terrorismo internazionale, nella proposta di pace per il duemiladue rivolgendosi ai membri dell’ONU esortava a «…costruire una padronanza di sé basata sulla comprensione del vero aspetto delle cose». Diventare padroni della mente, quindi, non per reprimere (se stessi o gli altri), o per eludere/escludere, bensì per costruire.
Nella realtà concreta questo però non è né scontato né facile da attuare.
«I miei suoceri proprio non li sopporto – mi racconta un amico –. Il suocero può ancora andare, ma lei, proprio, non la reggo. Ogni cosa che dico o faccio, ha sempre pronta una soluzione alternativa migliore, un commento sagace, sempre pronta a mettere quel dito lì, nella piaga… Eppure, pratico il Buddismo, quindi devo maggiormente portargli rispetto, come faceva il bodhisattva Mai Sprezzante (Fukyo)… In ogni occasione cerco di controllare quel moto interiore di disprezzo velato, mi mordo la lingua (in senso figurato e reale) per amor del convivere pacifico…».
Gli domando: è questo il dominio di sé?
Per il Buddismo l’essere umano è responsabile della propria vita e di fronte a un problema – di qualsiasi natura e gravità – può prendere quattro direzioni. Vediamole.
Il mio amico può accettare i suoceri come sono. Si può accettare nel senso di mordersi la lingua, evitando di dire ciò che si sente per amore di un malsano pacifico vivere; o per debolezza; o, ancora, perché ci si rende conto, anche vagamente, che parlando si procurerebbe un danno maggiore. E allora si rinuncia, accumulando magari stress, che come energia mal consumata va ad accumularsi e dopo qualche tempo si manifesta sotto forma di ulcera.
Ha azzittito la propria mente, ma lei ha continuato a covare come il fuoco sotto la cenere.
Oppure, lui può litigare. Talvolta sembra proprio impossibile non dire ciò che si prova, specie quando il turbinio di sensazioni dell’ambiente ed emozioni interiori, autoalimentandosi, monta come la panna nel frullatore. Allora l’impulso a parlare diventa indomabile, come un cavallo non addomesticato, e diciamo cose – spesso – che non avremmo mai voluto dire. Evidentemente, la mente ha preso il sopravvento e, come si sa, «la sfortuna viene dalla bocca e ci rovina, la fortuna viene dal cuore e ci rende degni di rispetto» (Gosho di capodanno, SND, 4, 272).
Una terza via che il mio amico può intraprendere è scappare. Di fronte all’evidenza di una relazione impossibile, questa è forse una delle alternative più gettonate. Non riesco a dialogare con te, quindi mi rivolgo altrove. Divago. Faccio altre cose. Perdo, sostanzialmente, tempo. E non costruisco niente di valore. E questo succede anche nei confronti di se stessi: un desiderio mi sembra troppo grande, un problema troppo ingarbugliato, e allora rinuncio, scappo, lo spazzo via dalla mia mente – che così si sente rassicurata, tranquillizzata, anestetizzata.
Scegliendo una di queste possibilità però il mio amico non fa altro che perpetuare la spirale del conflitto: «Se viviamo un conflitto, significa che non abbiamo considerato qualche aspetto della cosa e questo ovviamente ci impedisce di compiere una scelta. Né le emozioni né la ragione sono all’origine delle azioni. Sono i meccanismi della vita a rappresentare la causa effettiva delle azioni» (RU, 8, 191).
Per mettere mano a quei meccanismi della vita, la quarta possibilità che l’amico potrebbe scegliere è trasformare. Questa è la via più difficile, perché implica prima di tutto cominciare a fare un’azione altrettanto difficile: rivolgere lo sguardo verso l’internoanziché verso l’esterno. Di fronte a una sofferenza, specie di relazione umana, è assolutamente umano e mortale avere un moto di separazione: tu mi fai star male, tu sei la causa del mio problema, tua è la colpa – io soffro, sono la vittima.
Pensare così, però, è come ritenere che la panna nel frullatore si monti da sola – senza frullatore!
O che i suoceri siano dei diabolici esseri venuti su questa terra per turbare un’armonia altrimenti perfetta… Non è così.
Rivolgere lo sguardo all’interno – che non è sempre facile – vuol dire intanto cominciare a osservare se stessi, comprendere i moti e le cause che superficialmente fanno scaturire quella sofferenza, quel dolore, quell’arrabbiatura.
E si può iniziare a delimitare il problema: i miei suoceri, potrebbe pensare il mio amico, sono completamente negativi? Oppure hanno anche dei lati positivi?
Poi si può iniziare a lavorare più precisamente su se stessi. Spiegando l’importanza di correggere i propri amici, persino Nichiren evidenzia a più riprese che il seguace del Sutra del Loto deve prima lavorare su se stesso e poi, su una base di accresciuta compassione, dire le cose che non vanno: «La cosa più importante è accrescere continuamente la tua compassione per salvare gli altri» e poi più avanti: «Devi svuotare la nave della tua vita dall’acqua del dubbio e dell’offesa e solidificare gli argini della tua fede» (Gli argini della fede, SND, 4, 216-218)
Diventare padroni della propria mente è possibile: dopo il primo coraggioso atto del guardarsi dentro e dire “riparto da me”, ci vuole tanto Daimoku, e tanta umiltà verso se stessi, perché spesso crediamo di aver staccato la spina di quel frullatore, mentre invece ne abbiamo soltanto cambiato la velocità.
Il Daimoku è l’essenza, la causa primaria che possiamo porre per trasformare; l’umiltà verso se stessi serve ad abbandonare le idee e i preconcetti che, col passare del tempo, ci siamo costruiti – per esempio il mio amico continua a pensare che sua suocera è fatta così, sa come risponderà, e sa che lo farà, quindi inizia già da ora ad arrabbiarsi.
Questo atteggiamento corrisponde a un ichinenrivolto al passato, o al presente, e significa stasi, morte. Si tratta di un ichinen rivolto al passato, o al presente, perché il nostro occhio (vedi NR, 276, 22-24) è rivolto a ciò che c’è, o ciò che manca: c’è un dolore, manca un amore, c’è un capo che mi crea ostacoli, manca libertà nel mio lavoro. Fondamentalmente, sto basando le mie azioni su ciò che vedo superficialmente e non sul potenziale che la Buddità innata mi offre. Accettare, litigare, scappare, sono espressioni di questo ichinen, in un certo senso un’offesa alla propria vita, come dire a se stessi io non credo in me e nel mio potenziale di cambiare questa condizione.
Il mio amico che si lamenta della suocera ha, da un altro punto di vista, dimenticato un altro aspetto essenziale della pratica: «La mente umana è sottile e cambia secondo i momenti e in risposta alle varie condizioni. Se facciamo della mente che cambia in continuazione il nostro maestro sarà difficile progredire in maniera certa e costante. Invece dovremmo fare della Legge il nostro maestro e prendere a modello chi pratica correttamente la Legge. Per le persone comuni non c’è altro modo di ottenere la Buddità che ricercare la Legge con un’unica mente e desiderare di vedere il Budda con un’unica mente» (NR, 276, 17).
Questa unica mente di cui parla Ikeda non è altro che un immenso desiderio di vedere il Budda, o – detta in altri termini – un grande spirito di ricerca nei confronti della Buddità. Mia e degli altri.
Ed è solo con un ardente desiderio di vedere il Budda che si aprono nuove strade: nella giungla dei desideri terreni, nella palude delle relazioni umane, nel deserto dei problemi di ogni giorno.
Ardente desiderio, forte spirito di ricerca, ichinen rivolto al futuro: tutte espressioni che contribuiscono a definire gli attributi della fede. D’altro canto, è la propria vita che fa sbattere contro quei muri che non si sarebbe voluto vedere, o che fa incontrare al mio amico la “simpatica” suocera.
Simpatica perché, alla fine del percorso di ricerca, recita recita, scava scava, suda suda, accade che la causa interna, quella che lo teneva inchiodato al passato con forza e tenacia, si scioglie nel mare della propria Buddità, e fa scoprire anche quella della suocera, del capoufficio, del compagno di scuola… Trasformata la causa interna, la vita riprende a fluire, ci si sente leggeri, sollevati, si scoprono nuove prospettive e nuove soluzioni… forse la suocera non è così malvagia, forse il capoufficio non è così accanito, forse… posso farcela ad avere proprio l’atteggiamento di Fukyo di accogliere un Budda inchinandomi sin da quando lo vedo avvicinarsi da lontano!
E allora, basta persone a cui dire «tu mi fai girar / come fossi una bambola», si smette di essere comparse e si diventa attori a pieno titolo nella propria vita, attori e quindi, per il semplice fatto di agire anziché credere di subire, felici, liberi, grati agli altri per i limiti che, interagendo con noi, ci hanno aiutato a scovare.
Diventare padroni della mente, quindi, non per distruggere (se stessi o gli altri) ma per creare e vivere appieno la propria vita: «In altre parole, attraverso la padronanza di sé abbiamo il compito di costruire un mondo interiore solido e adamantino alla luce del quale sia possibile sperimentare senza maschere la vera natura di tutte le cose e gli eventi» (Daisaku Ikeda, Proposta di pace 2002).

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Dedicato all’Italia

Il cavallo ribelle della mente

«In una scrittura buddista si legge: “Bisognerebbe essere padroni della propria mente piuttosto che lasciare che la mente diventi la nostra padrona”. Se gli uomini si lasceranno dominare dalla loro “mente” nelle strade risuonerà il ruggito dell’egoismo più prepotente.
E la conclusione non sarà che una: il dispotismo che nasce dal rilassamento dei costumi, dove si cela il pericoloso pugno di ferro del fascismo.
Ma il giardino della pace e della felicità ci aspetta, se gli uomini diventeranno “padroni della propria mente”. La via del rispetto per le altrui qualità – dove i reciproci difetti si compensano – conduce all’armonia dell’ideale repubblica umana.
Per questa ragione, amici miei, per diventare veramente “padroni della vostra mente”, non indietreggiate mai ma dedicatevi con tutto il cuore alla preziosa e suprema Legge. Non trascurate mai la pratica di questa Legge.
“Noi siamo col Budda al risveglio ogni mattina e siamo col Budda ogni notte quando andiamo a dormire”. Siate persone dal cuore puro. “Risvegliate in voi una profonda fede e lucidate lo specchio della vostra vita, senza la minima negligenza giorno e notte”. Siate persone dalla dedizione immutabile. Conquistate il dominio del vostro io, stringendo abilmente le redini di quel cavallo ribelle chiamato “mente”. E correte, correte più forte che potete lungo la grande strada di kosen-rufu, perché in questo sta il nostro movimento della rivoluzione umana».

Daisaku Ikeda
Il Nuovo Rinascimento, luglio 1987, pagg. 12-13

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