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Lettera a mia madre - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:20

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Lettera a mia madre

Un sano legame fra genitori e figli sta alla base di una vita felice. Quando il cordone ombelicale è troppo stretto o fatica a cadere, confrontarsi col tema dell’attaccamento diventa fondamentale per conoscere meglio se stessi e gli altri

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Un sano legame fra genitori e figli sta alla base di una vita felice. Quando il cordone ombelicale è troppo stretto o fatica a cadere, confrontarsi col tema dell’attaccamento diventa fondamentale per conoscere meglio se stessi e gli altri

La nostra storia iniziata trentacinque anni fa potrebbe essere scritta, non con le parole, ma con le immagini che via via andarono ad inserirsi nell’album delle reciproche esistenze: tu che mi avvolgi tra le coperte all’uscita dell’ospedale, tu che mi tendi le mani per proteggere i miei passi dalle cadute della vita; e così via, fino all’istantanea di qualche anno fa, dove mi osservavi senza capire perché fossi così diversa dall’immagine che si celava nelle profondità di questo mio appartenerti come una falange del tuo corpo.
Anni di amore estremo, dove lottavi quotidianamente per accaparrarti un territorio sempre meno virtuale nella mia esistenza, dove risultavi una madre da manuale al punto da non renderti conto che più vivevi per me, e meno sapevo chi eri. L’unica certezza inconfutabile era quella che mi poneva al centro della tua vita, la mia assenza breve o prolungata era un tradimento perpetrato ai danni dell’unica identità che riconoscevi come tua: quella di madre, un ragno sottile tesseva paziente e tenace le redini del tuo guidarmi e nel contempo del tuo isolarmi dal mondo. Solo noi, il resto ruotava, mutava continuamente senza altre certezze se non quella di ritrovarti alla fine di qualunque strada avessi percorso.
Poi le tue gambe si ammalarono. Dapprima segnali impercettibili, poi una sequela di dottori senza fine. Io sempre al tuo fianco come figlia, mai come donna, sino a quella sera dove davanti a un muro bianco dentro al suono del mio primo Daimoku cercai l’alchimia che i dottori non ti procuravano, l’elisir che ti facesse ritornare la madre che eri sempre stata, presente disponibile, attenta al suono delle mie parole: volevo ritrovare in quel Daimoku la madre che usava la sua vita per celebrare il mio esistere. Invece trovai la donna che non mi avevi mai permesso di vedere, scoprii la sofferenza che si celava dentro i tuoi sorrisi forzati, la fragilità che da tempo aveva sostituito la tua forza.
Scoprii che eri una donna con i suoi sogni irrealizzati e le sue incertezze e che quello che ci legava non era solo amore, ma vita, quella che non avevamo mai condiviso.
Al suono di quel primo Daimoku ne seguì molto ancora, tutto quello che servì per giungere davanti al mio Gohonzon. A sera finita la cerimonia, aprii il butsudan solo per te, ricordo come osservasti a lungo la pergamena e pensai che con buona probabilità, fosse lo stesso sguardo curioso e di benvenuto che mi regalasti dopo avermi partorito.
Là davanti sentivi nuovamente la mia vita per intero, e non solo quel piccolo pezzo che ti apparteneva. Davanti al Gohonzon scoprii che quella donna, a volte mi piaceva e a volte no, che aveva qualche dubbio e molte paure, ma che iniziavo a rispettare in te quell’essere umano meraviglioso e contraddittorio che ti rende unica e irripetibile.
Oggi continuiamo a rincontrarci per le strade della vita, ne assaporiamo i profumi, i colori, i ricordi, d’altra parte sei l’unica memoria storica che possiedo, ma sopra ogni altra cosa, onoriamo ogni istante il nostro sguardo al futuro, vicine o distanti, poco importa, condividiamo quell’unico desiderio che domani sia migliore per entrambe.

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Parabola

I tre carri e la casa che brucia

C’era una volta, in un paese lontano lontano, un uomo molto ricco che viveva in una grandissima casa vicino a un bosco, così vecchia e rovinata che dalle crepe, che si erano formate sui muri, potevano facilmente entrare ogni sorta di animali in cerca di rifugio: insetti velenosi, serpenti, topi, lupi. Con lui abitavano i suoi figli che, anche se erano tanti, non occupavano tutti gli ampi spazi della casa, in cui si erano stabiliti, senza che nessuno se ne accorgesse, folletti, orchi, spiriti malvagi, e chissà cos’altro.
Un giorno, mentre il padre era assente e i bambini giocavano tranquillamente in casa, scoppiò un violento incendio, che, nel giro di poco tempo, avvolse l’intera casa. Ben presto gli animali e tutti gli esseri cominciarono ad uscire dai loro nascondigli e a scappare lontano, per non essere bruciati o soffocare a causa del fumo, che ormai aveva reso l’aria quasi irrespirabile. Solo i bambini, stranamente, non si muovevano, tanto erano presi dai loro giochi, da non accorgersi neppure del fuoco e dei rischi che stavano correndo restando lì. Il padre, rincasando, vide una nuvola di fumo e si mise a correre preoccupato per i suoi figli. Quando giunse nei pressi dell’abitazione non vide i suoi bambini, non li sentì urlare e pensò che fossero morti, bruciati vivi.
Si precipitò in casa, sfidando le fiamme e rischiando di essere colpito dai legni che ormai crollavano da ogni parte. Con sollievo trovò i suoi figli ancora vivi e per nulla spaventati, assorti nei loro giochi e completamente inconsapevoli della gravità della situazione. Il padre urlò loro di smettere immediatamente di giocare, di abbandonare i loro giocattoli e di correre fuori il più in fretta possibile.
I figli neppure si accorsero di lui, neppure lo sentirono, d’altronde non sapevano cosa volesse dire bruciare vivi. Il padre si agitava, non sapeva cosa fare per convincerli ad uscire dalla casa, non aveva molto tempo per pensare, continuava a cercare di trascinarli fuori, ma i bambini non si lasciavano convincere ad abbandonare le loro occupazioni.
Finalmente gli venne un’idea: si ricordò che i suoi figli avevano sempre desiderato avere un carro a testa e più volte gli avevano chiesto di portarlo loro in regalo. Riuscì quindi ad attirare la loro attenzione dicendo che fuori c’erano carri tirati da buoi, capre, cervi, in attesa di essere scelti da loro.
I figli subito lasciarono i loro giochi e corsero all’esterno.
Il padre era fuori di sé dalla contentezza, ormai disperava di riuscire a salvarli. I bambini si guardarono intorno e non videro che carri trainati da buoi, che ne era di quelli trainati da cervi e capre? I carri erano bellissimi, non comuni carri di legno, come quelli che si vedono di solito in campagna, ma ornati di gioielli, oro e campanelli che suonavano ad ogni movimento, producendo una deliziosa musica. I buoi che li tiravano, erano anch’essi bellissimi, il loro pelo era bianco come la neve.
Quando camminavano conducevano i carri senza scosse, quando correvano erano veloci come il vento. I figli restarono abbagliati, i regali che avevano ricevuto erano molto più belli di quelli che desideravano, ringraziarono il padre e subito ognuno di loro salì su uno dei carri e felice e senza nessun ostacolo partì dirigendosi nella direzione desiderata.
Il padre gioì osservando i figli partire sui carri che aveva loro donato. Non era più preoccupato.Ora essi possedevano il mezzo che permetteva loro di affrontare le inevitabili difficoltà della vita.

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Citazioni di Daisaku Ikeda

Avrei alcune cose da dire ai genitori che desiderano educare i figli a pensare e agire in modo positivo e coraggioso. Cambiate il vostro modo di pensare, prendete l’abitudine di discutere con i figli di ogni argomento, soprattutto di ciò che è più importante per un uomo. Parlate ai vostri figli dei misteri dell’universo, della natura e della vita e insegnate loro a rispettarli. Ma più che insegnare loro, voi stessi per primi dovreste ricondurre il vostro cuore alla bellezza di una notte stellata, al vero soffio della vita, l’esistenza che serpeggia nel ritmico pulsare delle stagioni. Ci sono cose che un bambino impara naturalmente dagli interessi del padre e della madre.
[…]
Il figlio non è il prolungamento dei genitori, ma un essere ben distinto. Il nuovo germoglio richiede nuova terra, una terra in cui sia impiantata l’idea che egli non è solo il figlio del padre e della madre, ma anche il figlio della società e di tutta la razza umana. Forti di questa idea, i genitori potranno sviluppare nel figlio una mente aperta dalla quale nascerà naturalmente amore per gli esseri e per tutto il creato.
(Daisaku Ikeda, La famiglia creativa, su DuemilaUno, n. 18, pag. 33)

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Libro

Manuale a uso dei bambini che hanno genitori difficili

Jeanne Van Den Brouck, Raffaello Cortina Editori

Un libro divertente per riflettere sul rapporto genitori-figli partendo dal basso: dallo sguardo del neonato che si ritrova catapultato nel mondo degli uomini, con le loro imperfezioni, e cerca di destreggiarsi per crescere. L’autrice utilizza l’ironia, a volte il sarcasmo ed in alcuni casi persino un po’ di cinismo, per portarci a pensare come sia difficile essere genitori, e soprattutto come sia difficile sia come adulti che come genitori essere stati da sempre figli.
Analizza con un atteggiamento pseudo-scientifico i comportamenti efficaci che dovrebbe avere un bambino che vuole educare i propri genitori e, con questo gioco narrativo, in realtà porta il lettore a sorridere delle proprie “manie” delle proprie preoccupazioni, di ciò che cerca di fare nello sforzo di fare il “bravo” genitore.
Riusciamo a cogliere quella naturale capacità tipica del mondo dell’infanzia di adeguarsi al mondo adulto conservando comunque una grande spinta al cambiamento, una grande pazienza, e un naturale desiderio di vivere in modo felice. Jeanne Van den Brouck, sotto lo pseudonimo della quale si nasconde una psicoanalista parigina, racconta brevi storie atte ad individuare ironicamente le regole per migliorare l’educazione dei bambini verso i propri genitori bugiardi, ansiosi, immaturi, timidi, assenti, superdotati.
Un saggio breve e divertente, nel quali molti si possono riconoscere, sia tra i grandi che tra i piccoli; dedicato ai ragazzini, e a tutti figli che siamo, ancor prima che genitori, suggerisce un modo ironico ed interessante per incominciare a discutere con i bambini dei nostri stessi limiti, ma soprattutto per condividere il comune bisogno di essere se stessi all’interno di questo imprescindibile legame.

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