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Il coraggio di dare coraggio - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:41

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Il coraggio di dare coraggio

Quando un nostro caro si ammala, oltre alla sofferenza che questo evento porta con sé, nasce la difficoltà di imparare a sostenere chi soffre. In questa conferenza organizzata dallo staff sanità, l’attenzione è rivolta a chi sostiene il malato, a sua volta bisognoso di sostegno

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Quando un nostro caro si ammala, oltre alla sofferenza che questo evento porta con sé, nasce la difficoltà di imparare a sostenere chi soffre. In questa conferenza organizzata dallo staff sanità, l’attenzione è rivolta a chi sostiene il malato, a sua volta bisognoso di sostegno

Tumori, demenze senili e disturbi della psiche, sono sofferenze profonde che possono piombare addosso a ognuno di noi, coinvolgendo a cerchi concentrici non solo la vita del malato ma anche quella di tutti coloro che gli stanno attorno.
Il Buddismo ci insegna la strada del coraggio, suggerendoci che la malattia è la terza sofferenza della vita; una sofferenza in grado di stimolare in noi lo spirito di ricerca della Via. Così è importante guardare alla malattia come a uno specchio in cui è riflesso qualcosa di noi, dove a poco a poco possiamo scorgere il coraggio per aiutare le persone malate e insieme a loro superare la sofferenza.
Ci sono molti modi per fare assistenza ma infondere coraggio vuol dire imparare a dare al malato la gioia necessaria per vincere sul suo male. Questo anche nei casi di malattie lunghe e degenerative, dove la degenza comporta ritmi familiari lunghi ed estenuanti. O anche quando si è costretti a intraprendere un percorso psicologico arduo e doloroso, minato dalla consapevolezza che sarà la morte del nostro caro la meta finale.
Nichiren Daishonin dice: «Mol­te persone si ritrovano a pensare alla vita per la prima volta grazie all’esperienza della malattia. E molti capiscono quanto siano importanti e preziosi l’amore, l’affetto e le loro famiglie solo quando si ammalano». Più profondo è il legame con il malato, maggiore è il lavoro che dobbiamo fare su noi stessi. La famiglia è il primo rifugio per il malato, bisogna poi individuare i professionisti – medici, infermieri e assistenti sociali – insieme ai quali programmare gli interventi di cura necessari.

Il morbo di Alzheimer – È la causa dell’80% dei casi di demenza tra le persone ultrasessantacinquenni. Si tratta di un male che attacca i neuroni della corteccia cerebrale e a poco a poco distrugge le cellule del cervello legate alla memoria e al linguaggio. A scoprire questo morbo fu il neuropatologo Alois Alzheimer nel 1907. Non ci sono cure farmacologiche in grado di bloccare il processo degenerativo che viene innescato da questo male, così i pazienti vanno inesorabilmente incontro a un lento decadimento, perdendo prima la memoria più recente, poi si eliminano i ricordi più datati e infine subentra la perdita della capacità di interagire, con allucinazioni, alterazioni spazio-temporali, incapacità di riconoscere le persone. Rabbia, depressione, senso di colpa e imbarazzo sono le sensazioni più istintive che si possano provare all’interno della famiglia del malato di Alzheimer. Per affrontare questa situazione occorre sviluppare una forte individualità e ricercare il sostegno dei servizi medici. Daisaku Ikeda descrive le cure infermieristiche come l’arte di stimolare la forza vitale delle persone. «Curare i malati è la più grande delle buone azioni – scrive Ikeda nel saggio Il bene più prezioso – occuparsi dei malati e incoraggiarli costituisce la vera pratica buddista e l’azione che piace al Budda più di ogni altra».
Cosa si può fare per aiutare se stessi e il malato in situazioni così difficili?
La prima cosa da fare è proprio quella di cercare l’aiuto degli operatori sanitari, condividere le proprie emozioni con gli altri e poi cercare di mantenere il tempo anche per se stessi, ad esempio continuando a fare attività buddista. Tanti piccoli gesti diventano di importanza vitale per la persona malata, come tenere i farmaci fuori dalla sua portata, cercare di non apportare cambiamenti all’ambiente in cui vive o alle sue abitudini quotidiane, fare in modo che indossi sempre abiti puliti e incoraggiarlo a prendersi cura di se stesso, aiutandolo solo nelle cose che non sa fare da solo. «Dobbiamo usare saggezza perché la saggezza è un’espressione di amore» dice Ikeda ne Il bene più prezioso.
Anche se le cause restano a oggi sconosciute, c’è sempre una ragione dietro ai sintomi della demenza senile. Solitudine, paura, un trauma personale che si è cercato di comprimere, o come dice lo stesso Ikeda «la malattia è un grido interiore inascoltato che cerca di uscire». Un malato è una persona sensibile che sente le emozioni di chi lo cura. Una buona cura inizia con il desiderio di capire cosa affligge il malato. Come buddisti noi abbiamo un radioso potenziale: possiamo intervenire proprio sul filo dei sentimenti. Ikeda ci insegna che «trattando sempre il malato con rispetto e amore miglioriamo anche noi stessi». Dedicarci alla felicità degli altri con il supporto del Daimoku, la medicina con cui rigeneriamo la nostra vita, ci permette di gustare gioia e allegria. In qualsiasi circostanza.
Una persona affetta da demenza senile non è responsabile di quello che dice. Spaventarsi, arrabbiarsi o ancora peggio sgridarla perché compie gesti assurdi sono tendenze da combattere. Saggezza può voler dire anche non cadere nel panico, parlare lentamente al malato con frasi chiare e semplici, evitando toni aspri. Basta davvero poco per farli sentire a proprio agio: un sorriso può rivelarsi una medicina eccellente per infondere loro senso di sicurezza. È difficile quando si è coinvolti. Per questo è importante accettare i propri limiti fisici e psicologici, ricordando a se stessi che si è importanti, e senza demoralizzarci se, per quanto ci si dedichi a loro, i malati non riescono a dimostrare gratitudine.
La persona affetta da disturbi psichici poi può destare incredulità e paura in chi gli sta vicino. La famiglia a volte cade vittima dello sconforto e del senso di impotenza e finisce con l’isolare il malato dal mondo circostante. Il presidente Ikeda raccomanda invece di aiutare queste persone a mantenere rapporti con la società, ad esempio stimolarle a fare attività di teatro, musica o calcio. Spesso poi i malati psichiatrici “succhiano” le energie dei propri familiari e provocano alterazioni del loro vivere quotidiano, ad esempio dei cicli di sonno e veglia. Per questo si può ricevere il supporto delle strutture sanitarie che possono intervenire a vari livelli (ad esempio attraverso i CIM centri di igiene mentale o le case famiglia).

I tumori – La condizione è quella di un fisico malato mentre, nella maggior parte dei casi, la mente rimane lucida. Sono tante le angosce che rimbombano nella mente di chi è affetto da tumore: a fasi susseguenti passerà dal rifiuto della malattia alla collera, dalla depressione al compromesso della cura, fino all’accettazione del proprio destino. Il malato può avere paura delle cure a cui si deve sottoporre, e sentirsi in colpa per gli inconvenienti che arreca ai membri della sua famiglia. Da parte dei familiari è importante quindi creare situazioni di ascolto, come afferma Ikeda: «Ascoltando una persona malata che cerca di esprimere il suo dolore interiore possiamo dare sollievo alle sue sofferenze. È un’azione che si accorda con l’insegnamento buddista di togliere la sofferenza e donare la pace della mente. Bisogna ascoltare con attenzione, da vicino, con vera partecipazione. Questo calore può effettivamente aiutare una persona a guarire». Il Buddismo di Nichiren Daishonin ci insegna che come esseri umani non possiamo evitare le quattro sofferenze di nascita, vecchiaia, malattia e morte. È un buon motivo per imparare ad aiutarci e sostenerci l’un l’altro e per vincere quei blocchi che a volte ci impediscono di esprimere i nostri sentimenti. La famiglia così può davvero uscire rafforzata dalla malattia di un suo membro. Dissidi, liti, incomprensioni, tutto questo può essere spazzato via dalla determinazione con cui tutti si battono per la guarigione del proprio familiare.
«Come buddisti la nostra sfida quotidiana è mantenere ogni giorno degli obiettivi. La cosa importante è tendere continuamente a trovare qualcosa che porti la propria vita a una completezza… Quando si è malati si può sperimentare una grande ricchezza spirituale… la mente e il cuore sono integri anche se il corpo è sofferente e si può raggiungere una profonda comprensione di molti aspetti della vita», scrive Ikeda. Anche per chi assiste, ogni giorno può essere l’occasione per trovare un nuovo motivo di gioia, una scintilla di fiducia da donare al malato.
Il Gohonzon ci può aiutare poi a instaurare un buon rapporto di collaborazione con i medici e a entrare nella giusta dimensione per capire le terapie e i loro effetti. Anche la diagnosi più tremenda non ci deve scoraggiare. Un solo giorno di vita in più è importante, pensando a questo non dobbiamo mai smettere di lottare continuando fino in fondo a trattare il malato con amore. Davanti al Gohonzon possiamo costruire dentro di noi la speranza che ogni istante di vita sarà vissuto al meglio.
La comunicazione con chi soffre è fatta di parole e di piccole emozioni espresse con il cuore. I malati riescono a sentire che stiamo continuando a lottare per loro. Sapere che stiamo facendo del nostro meglio serve all’altro ma darà anche a noi stessi un senso di pienezza, un beneficio che sentiremo sempre di più anche se e quando la persona morirà. Recitare Daimoku davanti a una persona che sta per morire la sosterrà nell’ultimo viaggio, allontanandosi da noi lascerà una scia di serenità. Anche se non ce ne accorgiamo. La nostra grande vittoria sarà quella di essere riusciti ad alleggerire le sue sofferenze, un’azione a cui è chiamato un vero bodhisattva.

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La testimonianza

Una casa serena dentro e fuori

Prima di praticare il Buddismo la mia famiglia appariva dal di fuori come quella del Mulino Bianco, dall’interno eravamo in conflitto perenne. Io non ero la figlia che i miei genitori avrebbero voluto, e loro non erano i genitori che io volevo. Mi sono trovata a crescere sola e insicura tra un padre dolcissimo che cercava di tamponare i tanti litigi e una madre alla quale qualsiasi cosa facessi non andava mai bene, che alla minima discussione sveniva – sul letto o sulla poltrona – e mi accusava di farla ammalare. Mio fratello adottò la filosofia dello “scappare prima possibile”, io diventai buddista. Nel Gosho di Capodanno trovai la frase: «L’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre» così iniziai a praticare e la mia angoscia si sciolse ma nello stesso tempo sorsero mille ostacoli in famiglia. Con il Daimoku mi resi conto che se volevo cambiare la situazione dovevo cambiare io. Grazie all’attività nel gruppo byakuren imparai a proteggere e dedicarmi agli altri senza pretendere niente in cambio. In particolare, durante il servizio per il funerale di Kimiko, moglie di Kaneda, rimasi colpita dal modo in cui lui riusciva ad affrontare il dolore incoraggiando gli altri e accogliendoli al Centro culturale.
Un mese dopo a seguito di un banale esame scoprii che mio padre era gravemente ammalato. Il responso dei medici mi colpì dritto allo stomaco ma ripensando a Kaneda decisi che anch’io potevo fare un’esperienza. Quando i medici dicevano che non c’era speranza, io pensavo che noi buddisti abbiamo il Gohonzon e possiamo andare fino in fondo in ogni situazione. Durante quell’anno nonostante ci fosse la malattia riuscii a sperimentare la gioia: la malattia aveva infatti tirato fuori il buono da ognuno di noi. Avevo meno tempo per le attività ma le facevo con più concentrazione, incoraggiavo gli altri con la mia voglia di lottare e i compagni di fede mi sostenevano con il loro Daimoku. La mia guida divenne I misteri di nascita e morte del presidente Ikeda, la cui lettura mi accompagnò passo passo fino all’ultimo giorno di vita di mio padre.
Dopo cinquant’anni di matrimonio mia madre ora era rimasta sola, così cominciai a recitare Daimoku perchè lei diventasse indipendente. E così lei riallacciò i rapporti con le sue vecchie amiche, addirittura spesso faceva tardi la sera insieme a loro. Il nostro rapporto diventò bellissimo. Dopo tre anni anche a lei fu diagnosticato un tumore. Io provai dolore e paura per come avrei affrontato l’assistenza e la solitudine. Mi dedicai a mia madre e anche il dottore si complimentò per le cure che le avevo prestato. Intanto decisi di parlare con mio fratello che uscì dalla sua “latitanza”. Mia madre è morta addormentandosi, in una casa serena. Incoraggiare tutti sempre è quello a cui si dovrebbe mirare, perché la gioia più assoluta è quella di aiutare gli altri a diventare felici.

Daniela Ricci

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La testimonianza

Da vittima a protagonista

Dal maggio 2001, i miei genitori sono passati rapidamente e soprattutto tutte e due insieme, dalla routine del quieto vivere a una condizione di malattia. Cominciò mia madre che da un banale disturbo del linguaggio si ritrovò dalla sera all mattina ricoverata in ospedale per operarsi d’urgenza a causa di un tumore al cervello. Di lì a poco mio padre, che fino ad allora aveva tirato avanti la casa, cominciò a dare segni di stranezza: nel giro di qualche ora non si ricordava gli appuntamenti che aveva fissato con me per andare in ospedale e ripeteva in continuazione le stesse domande sulla condizione di mamma. Cercai come potevo di rafforzare la pratica, recitavo Daimoku in continuazione, durante i viaggi in macchina, nelle attese in corsia e appena potevo davanti al Gohonzon. Da Empoli andavamo anche due volte al giorno a Careggi, la sera cenavo con mio padre e nel frattempo non volevo e non potevo tralasciare nè il lavoro nè l’attività.
A questo si aggiunse la tensione con mio fratello e mia cognata, non vedevo più i miei nipoti e pochissimo anche gli amici. Mi sembrava di essere sprofondata in un baratro. Anche se non ero io a essere direttamente toccata dalla malattia ma i miei genitori, mi sembrava impossibile che fosse capitato a entrambi nello stesso momento e mi angosciava sentirmi obbligata ad avere cura totalamente di entrambi quando prima avevo sempre potuto contare su mio padre.
La situazione mi sembrava senza via d’uscita, recitavo davanti al Gohonzon per avere la forza di non sentirmi annullata da tutto questo. Determinai di non lasciare l’attività e di recitare due ore di Daimoku al giorno con due obiettivi: che il tumore di mamma non fosse maligno e che l’operazione andasse bene e lei potesse recuperare tutte le sue funzioni ancor meglio di prima.
Trascorsi la mattina dell’operazione al Centro culturale di Firenze dove riuscii a portare anche mio fratello, e finalmente arrivo la risposta: il tumore era benigno. Questo esito mi dette molto coraggio, e ne avevo bisogno perchè molte difficoltà dovevano ancora venire. Mio padre diventava sempre più “strano”, dovevo trattarlo come un bambino piccolo da rassicurare senza perdere la pazienza. Era un incubo: mia madre era appena stata operata al cervello e mio padre lo stava perdendo! A settembre infatti arrivò anche la sua diagnosi: morbo di Alzheimer.
Mi sentivo sola e abbandonata, non avevo più tempo per me e tendevo a fare la vittima. Ma appena potevo mi mettevo a recitare per trovare la forza di andare avanti sfidandomi per organizzare la mia vita quotidiana. Volevo essere più forte della malattia dei miei genitori, dare loro aiuto fisico e affettivo, liberarmi dall’ansia e dal vittimismo ed essere invece serena e forte.
Decisi di partecipare alla realizzazione della mostra sui diritti umani alla stazione Leopolda di Firenze, facendo il cicerone e quest’attività mi aiutò a vivere con più serenità e distacco il problema familiare e collocarlo in un contesto più grande. Quando iniziò la mostra infatti non tutto era risolto ma la mamma recuperava e il babbo non mi tirava più fuori tanta collera. Le due ore di Daimoku al giorno stavano funzionando!
Dopo tre anni anche il secondo obiettivo si è realizzato: mamma sta meglio di prima dell’operazione. La malattia di mio padre invece è progredita ma insieme vivono un certo equilibrio, sostenendosi con serenità. Io piano piano ho ripreso la mia vita e il mio tempo. Vincere sulla malattia dei miei genitori è stata l’occasione per tirare fuori il coraggio che non credevo di avere e rafforzare la mia fede.

Marta Paganelli

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La testimonianza

La sua gioia è la mia gioia

Sono nata in una famiglia di medici, pur non avendo avuto voglia di laurearmi per seguire la loro carriera, sono tuttavia riuscita a trovare impiego presso la struttura sanitaria pubblica di Firenze, e per problemi di soldi facevo anche assistenza sanitaria ai malati, nonostante non fossi un’esperta, riuscendo comunque ad aiutare e a sostenere le persone di cui mi prendevo cura. Circa cinque anni fa, per motivi di lavoro di mio marito, ci siamo trasferiti a Livorno. In una città nuova, con molto tempo libero a disposizione, senza le relazioni create fino a quel momento, ho avuto un inizio di depressione che sulle prime ho affrontato con farmaci e in seguito ho deciso di combattere davanti al Gohonzon. Casualmente, alla fine del 2002, ho iniziato a collaborare, come centralinista, con un’associazione di volontariato che si occupa del trasporto di persone anziane o diversamente abili, dalle abitazioni agli ospedali, per terapie o analisi. Sentivo che potevo davvero fare qualcosa che desse maggior senso alla mia opera: tutte le volte che per un’urgenza potevo trasportare delle persone, dedicavo tutta me stessa a questa attività. Sfruttando la mia esperienza trovavo sempre la strada per far ottenere ad anziani e malati le cure di cui necessitavano e intanto io crescevo come persona e uscivo dal tunnel della depressione.
In associazione quando riceviamo le chiamate non conosciamo chi dobbiamo trasportare. Circa un anno fa abbiamo ricevuto la richiesta di una signora che doveva essere trasportata a Firenze. Sapevamo solo che era non vedente e a causa della mia origine fiorentina fui assegnata io a questo servizio. All’ingresso dell’abitazione mi trovai di fronte una persona non vedente, mancante degli arti superiori e con il volto completamente sfigurato. L’impatto non fu semplice ma non mi persi d’animo e partimmo. Durante il viaggio, Elena, cominciò a raccontarmi la sua storia e di come, a causa di un incidente di macchina avvenuto circa quarant’anni fa, lei si fosse trovata sotto la vettura incendiata e a causa delle ustioni avesse perso gli arti, la vista e fosse rimasta sfigurata in volto. Con Elena è nato immediatamente un forte legame, le ho parlato del Buddismo e lei ha anche partecipato a diverse riunioni.
Da circa un anno lei si affida a me per qualsiasi sua necessità. Riuscite a immaginare di quali cose anche le più elementari, abbia bisogno una persona mancante degli arti e della vista? Provate a immaginare di dover andare in bagno senza far uso delle mani.
Le giornate che trascorro con lei sono faticosissime dal lato fisico perché mi assorbe al 100%. Io sono i suoi occhi e le sue braccia. Nel periodo natalizio l’ho portata in centro a Firenze a “vedere” le vetrine e gli addobbi delle strade. La mia fatica è altamente ricompensata dalla gioia che lei prova quando sta con me. Quindici anni fa io facevo assistenza unicamente per i soldi, adesso solo per dare gioia a queste persone. Ralph Waldo Emerson scrisse: «Più gioia o allegria si spende, più ne rimane». La gioia non è futilità. Essa trae origine da una spirito combattivo. La futilità è un aspetto della fuga vile. Emerson affermò che «il potere risiede nella gioia; la speranza ci pone in uno stato d’animo attivo». Impegnamoci ad avanzare con sempre maggiore gioia: senza questa non si trova la forza.

Maria Grazia Ammannati

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