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Una luce nel cielo - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 14:46

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    Una luce nel cielo

    Le risposte dei lettori all’annuncio pubblicato sul n. 305 – nuovo.rinascimento@sgi-italia.org

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    Le risposte dei lettori all’annuncio pubblicato sul n. 305 – nuovo.rinascimento@sgi-italia.org

    Ho iniziato a praticare nel luglio del ’93. In quel periodo erano successi due eventi tristi: era morto il mio babbo a sessantaquattro anni, dopo soli due mesi dalla scoperta della sua malattia, e mi ero separata, una separazione voluta da me perché mi ero innamorata di un’altra persona.
    Della pratica buddista me ne parlavano da un anno, avevo anche recitato Daimoku di tanto in tanto, davanti al muro, ma non “sentivo” niente. Infine andai a una riunione, non avendo la forza di dire no a chi me lo chiedeva da tempo. Ascoltai tante esperienze, ne uscii più serena e dal giorno dopo iniziai a praticare regolarmente. Mi sentivo di nuovo libera, tornata da mia madre con mia figlia di nove anni, anche se in realtà stavo seminando sofferenza dappertutto: nel mio ex marito a cui avevo tolto la famiglia e in mia madre, colpita sia dalla morte di mio padre sia dalla mia separazione. Praticavo con entusiasmo, mi sembrava di avere trovato la bacchetta magica, la persona di cui mi ero follemente innamorata si avvicinava sempre di più a me e io vivevo per lui. Per me l’amore per un uomo era il centro della vita; era sempre stato così ed era stato sempre facile. Nel luglio 1994 presi il Gohonzon. Ero “felice”, ma la mia felicità era dovuta al fatto di avere accanto quell’uomo che poi, fino in fondo, non mi voleva: diceva che la sua mamma non doveva sapere, che non avrebbe approvato perchè ero più grande di lui, ero separata e avevo una figlia.
    Ma io volevo lui! Avevo avuto al mio fianco un marito bello, buono e comprensivo, che mi amava ma che ritenevo triste mentre l’altro era allegro, mi sembrava di rivivere nuovamente e volevo formare una famiglia con lui. Di mia figlia mi occupavo, ma ora mi rendo conto che, totalmente illusa com’ero, non la sentivo veramente come una mamma dovrebbe. Poi lui ebbe un incidente e finì in ospedale, mi volle vicino a sé e così la mamma e la sorella ebbero occasione di conoscermi e apprezzarmi ma, quando qualche giorno dopo parlai loro di me e della mia vita, gli intimarono di lasciarmi e così fu!
    Precipitai in un buco nero, avevo investito senza rendermene conto tutta la mia vita su questo uomo e senza di lui non ero più nulla. Ma recitavo, recitavo tanto Daimoku e piangevo tanto.
    Tutto questo era successo dopo aver deciso di trasformare sul serio la mia situazione sentimentale e quella lavorativa, sempre precaria. E così persi lui e persi il lavoro ma, con dieci milioni di vecchie lire di liquidazione, il sussidio di disoccupazione e una collaborazione informale in un ufficio, ripresi il cammino.
    Soffrivo molto per la mia storia sentimentale finita, in un modo assolutamente sproporzionato a quello che mi era accaduto; ero come ammalata nell’anima. Ma intanto mi responsabilizzavo e miglioravo il mio atteggiamento nel lavoro. Recitavo anche quattro ore al giorno e a dicembre decisi con più forza che avrei realizzato i miei obiettivi fra i quali vedermi rispettata e tutelata nei miei diritti. Dopo dieci giorni arrivò un telegramma: ero stata scelta dalle liste di collocamento dei videoterminalisti per sostenere una prova pratica per un lavoro di impiegata a tempo indeterminato in Provincia. Mi detti molto da fare: mi esercitavo con la macchina da scrivere, col computer… e recitavo. Limiti e paure! E io che comunque mi dicevo: «Ce la faccio!».
    Quel giorno fu memorabile, avevo lo stato vitale alle stelle e influenzai il mio ambiente: tutti erano disponibili e sorridenti. La prova verteva proprio sulle cose che mi ero sforzata di imparare nell’ufficio con cui collaboravo in quel periodo. Ne uscii idonea. Non potete capire cosa provai, non era tanto il beneficio, comunque grande, quanto il percorso che avevo fatto per arrivarci, in quell’anno esatto dal mio licenziamento. A luglio entrai anche nella nuova casetta, comprata da mio marito per me e Serena, dopo la vendita della casa coniugale. A soli tre anni dall’inizio della mia pratica, avevo un lavoro vero e una casa tutta mia.
    Il lato sentimentale era l’osso duro. Dietro c’era qualcosa di più profondo, l’incapacità di stare da sola, lo scarso valore che davo alla mia vita, il non volermi bene, il poco rispetto verso me stessa. A gennaio del 2000 accadde un fatto grave. Il mio ex marito si ammalò di tumore all’esofago. Mi sentii morire ma decisi che da quel momento avrei praticato ancora più forte per sostenere con ogni mia azione lui e nostra figlia. Mia figlia si riavvicinò molto a me e io che ero sempre scappata dalla malattia in tutte le sue forme, mi ritrovai a dirmi che tutto questo mi riguardava e me ne dovevo prendere la responsabilità.
    Cominciai a recitare Daimoku per incoraggiarlo ogni volta che lo vedevo. Nell’agosto fu operato per ben nove ore, col risultato devastante che gli fu asportato l’esofago e le corde vocali. Non avremmo più udito la sua bella voce. Mia figlia mi scagliò addosso tutto il suo dolore, dicendomi che non era vero niente di quello che dicevo e promettevo. Me ne sentii persino responsabile. Fortunatamente avevo vicino i miei responsabili e uno di questi mi disse: «Vedrai dopo un grande dolore c’è una grande gioia!» Beh … pensai che non era possibile.
    Certo la gioia non è l’estasi, la gioia è approfondire, capire, superare e trasmettere… e così fu. Mia figlia è stata esemplare. A diciotto anni in un mese e mezzo prese la patente per accompagnare suo padre a fare la chemioterapia in ospedale a Pisa. Mi sono molto rammaricata per i suoi diciotto anni vissuti così tristemente, ma Daisaku Ikeda ci insegna che affrontare grandi prove da giovani, forgia un carattere forte e delle persone meravigliose.
    Claudio aveva recitato di tanto in tanto e, a suo tempo, mi aveva costruito anche l’altare buddista davanti al quale recito tutt’ora. Partecipava anche alle riunioni di discussione con mia figlia. In una di queste, Serena disse che aveva avuto la grande fortuna di avere una mamma che pratica e che, quando lei stava male, io riuscivo a risollevarla senza rimanere svuotata per l’energia che le davo. A mio avviso era per via della fede incrollabile nel Gohonzon. Per me “fede incrollabile” vuol dire una fede che, pur con tutti i dubbi e le paure, ti fa tornare sempre li, davanti al Gohonzon.
    Claudio è morto il 13 dicembre del 2002, nel giorno del compleanno di Serena. Sono riuscita a trasmettere a nostra figlia che tale coincidenza era la continuazione di una vita nell’altra, tanto loro si amavano. Quella sera, quella notte, in pieno inverno sono cadute decine di stelle, la prima, grandissima, ha attraversato il cielo fino alla strada che percorrevamo verso l’ospedale; ho sentito che una grande energia, la sua, si ricongiungeva all’energia cosmica dell’universo e che presto, molto presto, si sarebbe rimanifestata accanto a noi.
    Mia figlia è al secondo anno di Università a Pisa, fa scienze politiche internazionali, ed è non solo bella ma molto brava e intelligente. Il suo babbo ne è molto fiero. Le persone se ne vanno fisicamente ma rimangono nel nostro cuore e in realtà non le perdiamo.
    Io non mi sono più sentita sola, ho attraversato negli anni il deserto della solitudine, ma ho visto da quel deserto spuntare i fiori.
    La mia determinazione oggi è di continuare il mio cammino per kosen-rufu. I benefici servono per dimostrare a noi stessi e agli altri il potere del Gohonzon e sono molto importanti, ma la nostra missione è quella di aiutare gli altri a riaccendere quella lucina negli occhi che serve loro per continuare. E gli altri a loro volta faranno questo per noi.

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