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Una corrispondente di pace - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 14:16

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Una corrispondente di pace

Shirley Jahad, Pasadena (California)

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Sono un’iraniana nata negli Stati Uniti e pratico il Buddismo da diciassette anni. Entrambi i miei genitori sono iraniani; si trasferirono negli Stati Uniti nel 1950 e da allora non erano mai tornati a casa, così né io né mio fratello eravamo mai stati in Iran, una cosa che avevo sempre sognato.
A farmi conoscere la pratica buddista fu una chitarrista blues che mi incoraggiò a recitare per i miei sogni più pazzeschi, anche se non ne ero convinta. Rimasi stupefatta. Una parte di me era così timida da non sapere nemmeno quali fossero i miei sogni più pazzeschi. Così anzitutto scrissi che volevo eliminare la mia paura del fallimento, la mia paura del successo e poi la notte, quando fui da sola a casa, scrissi: «Mi piacerebbe diventare giornalista di una rete radiofonica pubblica». Lo scrissi in fretta e poi lo nascosi come se fosse un sogno troppo assurdo per essere realizzato.
Cominciai a recitare Nam-myoho-renge-kyo e a partecipare all’attività della SGI. Ogni volta domandavo quale fosse lo scopo dell’attività che stavamo svolgendo e mi rispondevano che era la pace nel mondo, trasformare la nostra vita e incoraggiare gli altri a fare lo stesso.
A ispirarmi a entrare in radio fu un maestro di giornalismo, Studs Terkel, grande narratore di meravigliose storie di vita vissuta e di umani sentimenti. Parlava con la gente normale della loro vita quotidiana e sapeva cogliere la musica nei loro discorsi e la poesia nelle loro parole. Celebrava l’ampiezza e la profondità dell’esperienza umana. E sentii che anch’io volevo celebrare così la vita umana e far conoscere la storia delle persone.
Il mio primo lavoro fu part-time, scrivevo i testi delle notizie per la radio CBS di Chicago. Scrivevo titoli, previsioni del tempo, battute per i conduttori, di tutto. E ogni giorno era una sfida; era come stare in una fabbrica di notizie, in pratica dovevo scrivere una nuova storia ogni tre minuti. Non riuscivo a star dietro a questo ritmo, era come una catena di montaggio impazzita in cui tutto mi sfuggiva dalle mani e così recitavo per scrivere sempre più velocemente. Ogni giorno recitavo, rideterminavo e… riprovavo.
Forse fu quel duro addestramento che mi aiutò a trovare il coraggio per propormi come giornalista alla radio pubblica di Chicago. Mi respinsero e provai di nuovo, con lo stesso risultato negativo. Presi lezioni di dizione, mi allenai segretamente al microfono nel tempo libero, continuai a recitare e a fare attività. In un pomeriggio di pioggia mi ritrovai a piangere, sola in una cabina telefonica, parlando con un mio responsabile che mi incoraggiava a decidere con più forza, dicendomi che il risultato dipende al cento per cento dalla nostra determinazione di fronte al Gohonzon. Provai di nuovo. E questa volta ottenni l’impiego. Da allora ho avuto tantissime opportunità. Ho fatto la radiocronaca delle maggiori convention politiche nazionali, delle investiture presidenziali, ho lavorato come corrispondente fissa della rete televisiva pubblica di Chicago. Sono andata anche a Washington come reporter per la National Public Radio e in quell’occasione, insieme ad altri membri della SGI, organizzammo una teleconferenza per una riunione delle donne che si intitolava Donne che lottano per la pace in mezzo ai conflitti. Partecipavano donne arabe e israeliane sedute a un tavolo a Gerusalemme che parlavano fra loro e con altre donne sedute a un altro tavolo a Washington. Per anni avevo pensato che mi sarebbe piaciuto diventare una corrispondente dall’estero ma pensavo che la maggior parte dei corrispondenti esteri erano in realtà “corrispondenti di guerra”. Dopo quella riunione capii che volevo diventare una “corrispondente di pace”.
Di tanto in tanto cito concetti buddisti nei miei servizi, parlo di “cambiare il veleno in medicina” o della “cultura come arma per realizzare la pace” e recito Daimoku per riuscire a usare le mie storie per toccare il cuore umano.
Ho ricevuto molti riconoscimenti come giornalista, ho prodotto documentari e speciali che hanno vinto numerosi premi a livello nazionale ma per me il riconoscimento più bello è stato il premio Studs Terkel per aver dato regolarmente voce attraverso le proprie trasmissioni alla realtà delle comunità più emarginate. L’onore e la felicità di vincere un premio che porta il nome del mio maestro era indicibile. L’ho ricevuto il giorno del suo novantesimo compleanno e abbiamo festeggiato insieme al pranzo ufficiale a cui egli ha partecipato. All’età di novantun’anni sta finendo il suo ultimo libro, intitolato Speranza. Sono andato a trovarlo a casa sua e gli ho regalato una spilla con la scritta “Choose Hope” (scegliere la speranza), il titolo del dialogo recentemente pubblicato fra David Krieger e Daisaku Ikeda.
Col passare degli anni non ho mai dimenticato il sogno di tornare in Iran con la mia famiglia. Volevo vedere i volti di mio padre e di mia madre che tornavano a casa dopo quarant’anni. Può non sembrare una gran cosa ma per me era un sogno impossibile. Ogni anno c’era un impedimento. A volte un evento su larga scala come la guerra Iran-Iraq, a volte qualcosa di più personale. Mio fratello aveva il timore assai realistico che, se fosse tornato in Iran, avrebbe potuto essere arruolato a forza nell’esercito e mio padre era lacerato dal pensiero della morte. Sua madre era morta poco dopo il suo arrivo negli Stati Uniti e tanti altri amici e parenti erano scomparsi nel corso degli anni. Sentiva che tornando a casa avrebbe dovuto confrontarsi con la realtà della morte e della perdita. E non voleva andare. Diceva che preferiva immaginarli vivi e in salute in Iran, come se la sua terra natale fosse una sorta di paradiso celeste.
Proposi a una emittente di realizzare un documentario sul viaggio della mia famiglia e accettarono. Ora avevo un incarico con una scadenza e sentivo che dovevamo andare tutti. Recitai Daimoku perché ognuno fosse felice. Anche i miei genitori e miei parenti cominciarono a entusiasmarsi al progetto.
Poi mia madre si ammalò di cancro. Mia madre è una donna forte, bella e affettuosa, la mamma più meravigliosa del mondo. Immediatamente accantonai l’idea del viaggio e mi concentrai sulla sua salute. Quando appresi la notizia della sua malattia mi trovavo al Centro Cultura e Natura della SGI, in Florida, per una riunione della Divisione artisti. E il responsabile nazionale, Pascual Oliveira, che stava appena uscendo dalla sua prima battaglia con il cancro in cui era riuscito a prolungare la sua vita, ci trasmise il suo spirito. Sottile come un fuscello e calvo per la chemioterapia eseguì per noi la più bella e coraggiosa danza d’amore con sua moglie Angela. Un amore che trascende passato presente e futuro si trasmise al pubblico. Piangevamo tutti consapevoli di aver assistito al potere stupefacente e puro dello spirito umano.
Andai a trovare mia madre in California, ricca del dono di Oliveira. Recitai con forza affinchè tutto andasse bene, recitai per avere un alto stato vitale, per essere un leone, come aveva detto Pascual.
Quando arrivai a casa in California, la notte prima dell’operazione di mia madre, tutti stavano ridendo. Rimasi di sasso: erano così allegri e fiduciosi. Il giorno seguente l’operazione andò bene; mio padre e mio fratello furono di grande sostegno, io continuai a recitare per la guarigione della mamma e ricevetti una meravigliosa guida nella fede da Pascual che stava combattendo a sua volta la stessa battaglia. «Devi riuscire a realizzare il tuo sogno. Devi recitare per essere un leone».
Alla fine dell’anno i medici dissero che la mamma stava abbastanza bene per poter affrontare il viaggio. Così, ancora un po’ incerti e ansiosi, salimmo sull’aereo e decollammo alla volta dell’Iran. Era il sogno di tutta la vita, il “sogno” per antonomasia, da mettere su un piedistallo, a debita distanza, quasi senza guardarlo o poterlo toccare, accontentandosi di pensarci con un anelito struggente. Era diventato un’istituzione non una realtà, era come se un muro di paura, invisibile ma palpabile si frapponesse fra me e il mio sogno. Ma, nel momento in cui l’aereo atterrò sul suolo iraniano, il muro scomparve. In quel momento sentii quant’era importante per noi realizzare i nostri sogni e superare le nostre paure perché ci sono altri sogni da vivere e altre paure da superare. Sentii che quella era la lezione di quel viaggio. E non ero ancora scesa dall’aereo.
In quel momento ricordai il brano di una lezione sul Gosho, Il vero oggetto di culto: «Può accadere che un problema, una preoccupazione, una sofferenza sentimentale oppure uno scopo personale diventi il centro dei vostri pensieri. […] Il punto cruciale per i credenti del Buddismo del Daishonin è riuscire a fare il grande salto di porre invece il Gohonzon al centro della loro vita. È quella la chiave per risolvere ogni sorta di difficoltà, anche le cosiddette malattie incurabili. Il flusso vitale della propria natura di Budda che viene attivato dalla recitazione del Daimoku può aprire una varco in qualsiasi karma o destino e trasformarlo per il meglio. Quando si trasforma il karma si trasforma anche il problema a esso associato. Semplicemente, svanisce».
Alla fine scendemmo dall’aereo e rimanemmo attoniti. Sessanta o settanta parenti si erano riuniti per accoglierci. Cugini, zie, zii… c’erano due intere generazioni nate da quando i miei genitori erano partiti che ci lanciavano fiori e ci colmavano le braccia di bouquet fioriti. Ci abbracciavano, ci baciavano e ci subissavano di espressioni persiane di benvenuto dicendo «Joonam, azzizzam», che significa «mio caro, mio cuore». Mio fratello disse che gli sembrava di essere una rockstar. Un cugino mi sussurrò: «Quanto vi abbiamo aspettato!». Mi venne la pelle d’oca. Fu un viaggio straordinario, mio padre mia madre e mio fratello dissero che era stata una delle più meravigliose esperienze della loro vita.
Quando tornammo a casa il mio lavoro era appena iniziato. Dovevo visionare ore e ore di materiale filmato per produrre un documentario di mezz’ora. Recitai Daimoku per realizzare un servizio che potesse creare un ponte fra le culture, un ponte per la pace. In tutto quel periodo gli Stati Uniti si stavano preparando alla guerra contro l’Iraq e, mentre ero alle prese con il mio progetto, la guerra scoppiò. Ne fui devastata e paralizzata. Recitai per arrivare al cuore della gente. Avevo paura di non riuscire a essere sufficientemente obiettiva e imparziale in un momento tanto cruciale. Recitai per celebrare col mio lavoro l’umanità comune nella vita delle persone.
Quando il documentario andò in onda suscitò un’enorme reazione: diverse stazioni radio di tutto il paese lo trasmisero, incluse le reti pubbliche di Chicago e Los Angeles e un canale iraniano di Los Angeles. Dopo il viaggio in Iran ho capito che volevo trasferirmi più vicino alla mia famiglia e creare a mia volta una famiglia per contribuire alla pace mondiale. Ho realizzato un sogno e ora è tempo di mettersi in moto per realizzare il prossimo.
Adesso ho un meraviglioso lavoro come conduttrice pomeridiana della rete radiofonica pubblica di Los Angeles. Il segnale raggiunge le comunità più disparate in tutto il paese. Sento che è un terreno fertile per sviluppare ulteriormente le mie capacità professionali e per condividere le storie delle persone che lavorano per la pace, nel loro quartiere, nella loro comunità, nel mondo.

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