Spesso sembra un braccio di ferro, quello che si svolge fra la nostra parte spirituale e quella fisica. Riuscire a far emergere la condizione di Illuminazione è l’unico modo, nella concezione buddista, per non seguire ciecamente le direttive della mente e per seguire la parte illuminata che esiste in ciascuno. Con risultati sorprendenti
Nella poesia Suonate la campana del Nuovo Rinascimento, che Daisaku Ikeda ha dedicato agli italiani nel 1987, ci sono alcuni versi, una vera e propria sezione, dedicata a diventare “padroni della propria mente” e alle conseguenze, anche sociali, che derivano dal non esserlo. In particolare si legge: «Per questa ragione, amici miei, / per diventare veramente “padroni della nostra mente”, / non indietreggiate mai / ma dedicatevi con tutto il cuore / alla preziosa e suprema Legge. / Non trascurate mai la pratica di questa Legge. […] Conquistate il dominio del vostro io, / stringendo abilmente le redini / di quel cavallo ribelle chiamato “mente”. E correte, correte più forte che potete / lungo la grande strada di kosen-rufu, / perché in questo sta il nostro movimento della / rivoluzione umana» (Il Nuovo Rinascimento, n. 185, luglio 1987, pagg. 9-16).
Confrontando queste parole con il nostro modo di vivere, ci accorgiamo subito che il dominio esercitato dalla mente sulla vita è veramente potentissimo. Pensiamo anzitutto all’immagine ideale di noi stessi: se avessimo a disposizione gli strumenti per modificare le varie componenti del corpo umano, sicuramente ci costruiremmo molto diversi da quello che siamo, sia fisicamente che caratterialmente. Desiderare di essere diversi non sarebbe un problema, mentre lo è il soffrire ogni volta che non ci si comporta secondo gli schemi mentali che ci dominano. Allora ci disperiamo nel modo più cupo: «Non l’avessi mai fatto!», oppure «Non l’avessi mai detto!», sperimentando un senso di bruciante dissociazione da noi stessi, in cui anche tutto il nostro sapere buddista fatica a farsi strada. Poi, recitando Daimoku, ci si riconcilia con se stessi fino a provare compassione per noi stessi e gli altri. Infine, emerge la fiducia che sia in nostro potere non replicare quel comportamento e la conseguente decisione di cambiare rotta.
L’incontro fra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo ci lascia quasi sempre ammaccati e doloranti, eppure, esperienza dopo esperienza, impariamo ad accettare i nostri limiti, a metterci a frutto per quelli che siamo, e cadere diventa sempre meno drammatico, ripartire sempre più veloce.
Con lo stesso schema mentale si osservano le altre persone, che si desidererebbero spesso diverse da quello che sono. Abbiamo uno sterminato repertorio di variazioni da apportare a ciò che gli altri sono, dicono e fanno. In alcuni casi il nostro accanimento terapeutico nei confronti di qualcuno è veramente micidiale: sappiamo perfettamente come dovrebbe essere la sua vita, cosa dovrebbe fare per non soffrire e ci sembra incredibile che non lo capisca, dato che glielo ripetiamo in continuazione e in tutte le salse. Eppure i nostri cambiamenti non avvengono in questo modo: anche quando sappiamo cosa è giusto fare, in noi deve avvenire una trasformazione profonda che porta tutta la nostra vita, e non solo la mente, a maturare la necessità di compiere quel passo. A volte utilizziamo le frasi del nostro maestro per sottolineare la necessità di cambiare direzione. Ma il nostro maestro insegna innanzitutto ad amare la vita, in ogni sua forma ed espressione; forse è proprio su questo piano di accettazione e valorizzazione di ciò che si è, che possiamo essere utili agli altri per iniziare un percorso di cambiamento. Per noi, come per gli altri, il cambiamento è possibile solo attraverso l’accettazione del nostro limite interno. Altrimenti, negando ciò che la nostra o altrui vita sta esprimendo, in realtà disprezziamo la vita stessa, per la quale affermiamo di stare combattendo. Quando gli schemi, le visioni della nostra mente diventano più importanti delle persone, noi compresi, ci condanniamo alla sofferenza e all’infelicità.
Anche gli ideali che nutriamo a volte procedono astrattamente: siamo sostenitori di pace, amore, compassione e poi magari non siamo in grado di sostenere una conversazione con chi ha pensieri diversi dai nostri. Il nostro ideale di pace può essere talmente distante dalla realtà che stiamo vivendo, da indurci talvolta a pensare che sarebbe meglio rinunciarvi del tutto.
Ma, scrive Amos Oz – un israeliano che da molti anni è impegnato in un progetto di pace con i palestinesi – «la pace è un contratto fra ex nemici: è un accordo tra individui separati da idee diverse. La pace non è una luna di miele» (Amos Oz, Il senso della pace, Casagrande Ed., pag. 24). In questa descrizione apparentemente dimessa e riduttiva della pace c’è invece la strada più difficile da praticare, quella quotidiana e, tutta in salita, del rispetto. Amos Oz non dice quale posizione sia giusta o sbagliata, ma descrive la pace come manifestazione di un valore più alto della giustizia, che è il rispetto della vita. Nella pace descritta da Oz gli individui rimangono separati da idee diverse, ma vivi. Nella pace, invece, sognata come luna di miele, tutti la pensano allo stesso modo, naturalmente il nostro, e dato che ciò non è possibile, avviene che rinunciamo all’impresa. Anche in questo caso, per potere lavorare per la pace, occorre superare il dominio che la mente esercita su di noi, prendere contatto con l’essenza della vita, con tutti i suoi limiti, ma anche con un patrimonio inestimabile di risorse. Come ha scritto recentemente Daisaku Ikeda: «I leader non devono mai distogliere lo sguardo dalla realtà. Alcune persone ricercano un paradiso da sogno, ma quella è pura fantasia. In un luogo del genere non esistono inverno ed estate, freddo pungente o caldo torrido e nemmeno la felicità umana o la sofferenza. Cercare di condurre le persone verso un tale obiettivo è un grave errore. Non potete trarre valore da ideali campati in aria. Riporre la vostra fiducia in tali fantasticherie e in una vuota retorica non porterà mai a una vera felicità. Dobbiamo guidare le persone basandoci su un forte senso della realtà, mentre noi stessi affrontiamo i vari problemi della vita e ci sforziamo costantemente. Dobbiamo progredire ogni giorno, stare al passo coi tempi avanzando, com’è nostra prerogativa, con cuore allegro, superando tranquillamente qualsiasi difficoltà. Una tale positiva visione della vita, fortemente radicata nella realtà, è l’essenza del Buddismo di Nichiren Daishonin» (Il Nuovo Rinascimento, n. 298, 1 febbraio 2004, pag. 4).
In questo discorso, Ikeda sottolinea l’infelicità che deriva da una visione idealistica e astratta della vita, contrapposta a una visione concreta e ottimista della vita reale, pur con tutte le sue difficoltà. Infatti i modelli proposti dalla nostra mente sono talmente impraticabili che nessuna persona e nessuna circostanza sono adeguate, e quindi i sentimenti dominanti in questi casi sono la collera, la frustrazione e la depressione che arriva in conseguenza alle prime due. Non è negando o nascondendo i limiti e i problemi che diventeremo felici, ma accettandoli come componenti della vita e tirando fuori la capacità di affrontarli serenamente, con fiducia. A volte, di fronte alle difficoltà, rimuginando a lungo sulle tappe da percorrere e superare, si scatena l’ansia quando poi le circostanze risultano molto più promettenti del previsto e le azioni più semplici ed efficaci. Altre volte invece, si usa la mente per evadere da situazioni insoddisfacenti. In ogni caso il meccanismo è lo stesso: la mente fugge in avanti e si vive il presente dissociati dal corpo. E qui torniamo al punto di partenza, alla indicazione data da Ikeda di dedicarsi con tutto il cuore alla pratica della Legge e a “correre più forte che si può lungo la grande strada di kosen-rufu”. È un’indicazione estremamente semplice e concreta: dedicare il corpo, usare la vita. E proprio perché siamo un tutt’uno, correre e dedicare le proprie energie a costruire pace, influenza anche il nostro pensiero, si riflette in una mente più leggera e ottimista. Dunque il corpo e la vita sono il contrappeso che contrasta il dominio della mente. È un’esperienza diffusissima quella di iniziare a recitare Daimoku solo con il corpo, mentre la mente vaga nei suoi percorsi autonomi; continuando a recitare poi, la mente si allinea e si arriva a sperimentare quella straordinaria sensazione di armonia, forza e gratitudine che è all’origine di ogni nostro cambiamento. Come scrive con grande acutezza Daisaku Ikeda nella Nuova rivoluzione umana: «…l’attimo in cui si sostituisce al potere della mente il potere del Gohonzon, al potere delle proprie capacità intellettuali il potere del Daimoku. Da quel giorno si comincia a vincere».
Questo significa, ad esempio, allenarsi a usare «la strategia del Sutra del Loto prima di ogni altra» (SND, 4, 195), cioè recitare Daimoku in ogni circostanza della vita, prima di ogni decisione grande o piccola, ma soprattutto credere fermamente che è davanti al Gohonzon che vinceremo, che solo dopo aver recitato emergerà la soluzione giusta al nostro problema. Attraverso la ripetizione di tante azioni fatte magari inizialmente senza una grande consapevolezza o convinzione, la qualità della vita cambia comunque, trascinando con sé anche quella del pensiero, che riusciamo a utilizzare e a guidare positivamente. Col passare del tempo si impara anche a non prendere più tanto sul serio i propri pensieri perché ormai sappiamo che dipendono dallo stato vitale, come spiega chiaramente la celeberrima frase «non ci sono terre pure e terre impure di per sé. La differenza sta unicamente nella bontà o malvagità della nostra mente» (SND, 4, 5), e dunque quando ci si sente incarcerati dalla sofferenza, la chiave per aprire la porta della cella è Nam-myoho-renge-kyo.
E il beneficio più grande che deriva da questo continua educazione alla vita che è la pratica buddista, è sviluppare i tesori spirituali, la capacità di provare compassione, di agire in base a essa e la gioia che ne deriva. Quando la pratica ci porta a risvegliare le ragioni del cuore, abbiamo a nostro vantaggio il più potente antidoto contro i veleni della mente.
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Nel Gosho
Maestri del cuore e della mente
Quando Ikeda scrisse agli italiani di “diventare padroni della mente” usò un concetto espresso nel Sutra Rokuharamitsu e citato dal Daishonin in vari Gosho come Lettera a Gijo-bo e Lettera ai fratelli: “diventare padroni della propria mente e non permettere che la mente sia la nostra padrona”.
Questo tema, che ha sempre interessato la filosofia buddista è particolarmente rilevante per la visione del mondo occidentale, dove la razionalità, quella che il Buddismo chiama settima coscienza (vedere anche Le nove coscienze, p. 10), specialmente negli ultimi secoli, ha fatto da padrona.
Ma il concetto originale di Nichiren ha una portata molto più vasta. Infatti analizzando i termini giapponesi che compaiono nella frase sopracitata possiamo vedere – come spesso capita nella differenza fra “ideogrammi” e “parole” – che si riferiscono a categorie più ampie e leggermente diverse da quelle che è possibile rendere nella traduzione italiana. Intanto, anche se nel linguaggio comune si parla di “essere padroni della mente“, qui il termine usato è shi, che non significa “padrone“, bensì “maestro“; l’accento non è sul controllo, il dominio di sé raggiunto con la ferrea signoria della volontà, ma sui principi che ci guidano e che ci ispirano. Il carattere usato, per intenderci, è lo stesso di quando all’inizio della Lettera ai fratelli si dice che «tutti i Budda del passato, del presente e del futuro ottengono l’Illuminazione prendendo questo sutra come maestro» (SND, 4, 103), cioè – in un linguaggio moderno – come guida, come principio informatore di tutto il loro agire, come chiave di lettura del mondo non certo come dogmatico “padrone”. Anche riguardo alla parola “mente” ci sarebbe qualcosa da dire. Il carattere che viene tradotto con mente in realtà è kokoro, parola impossibile a rendere con esattezza nella nostra lingua, perché significa cuore e mente presi nel loro complesso, insomma l’atteggiamento di tutto il nostro essere rispetto alla vita; il nostro modo di pensare sì, ma senza trascurare le emozioni e le passioni che lo colorano. È il kokoro di cui parla Nichiren quando afferma nella Strategia del Sutra del Loto: «È il cuore che è importante» e su cui pone tanto l’accento Daisaku Ikeda. La frase di cui sopra, nell’edizione italiana del Gosho viene tradotta con «Solo la fede è realmente importante» (SND, 4, 194), e non a torto, perché qui kokoro significa implicitamente l’atteggiamento corretto del cuore nella fede. Dunque, ricapitolando, la frase del Sutra Rokuharamitsu si può leggere anche così: «Dobbiamo diventare maestri del nostro cuore e non fare del cuore il nostro maestro».
In conclusione, nessuno stupore che la filosofia orientale, che riunisce quello che l’Occidente ha diviso, utilizzi lo stesso termine per indicare gli aspetti spirituali della vita, sia che provengano dal cuore che dalla mente.