«Alternavo ricoveri in ospedale a periodi di degenza a casa. In quei mesi, la mia famiglia ritrovata mi ha aiutato e ho anche sentito fortissimo il Daimoku dei miei amici»
Mi chiamo Andreina ma gli amici adesso mi chiamano Andrea. Quando ho incontrato la pratica, nel 1988, avevo ventun’anni e lavoravo nella tabaccheria di famiglia, gestita da mia madre. Vivevo serena, senza dar troppo peso a tante cose. Prima fra tutte il rapporto, pressoché inesistente, con mio fratello: con lui, sua moglie e sua figlia ci consideravamo poco più che degli estranei. Non ricordo quando sono cominciati i dissidi in famiglia. Quando sono nata, mio fratello aveva già ventun’anni e in casa si vedeva ben poco.
Perché non usare la pratica per evolvere questa situazione? Dopo anni di Daimoku, ancora nel 1996 non era cambiato nulla. In preda allo sconforto, sono tornata davanti al Gohonzon decisa a riunire la famiglia.
Qualche tempo dopo è morta nostra madre. In seguito a quell’evento doloroso, mio fratello e la sua famiglia si sono stretti a me come mai prima. Non abbiamo mai avuto l’occasione per conoscerci bene, esserci ritrovati poteva considerarsi già un buon risultato. Ma da incontentabile quale sono, desideravo rafforzare ancor di più il nostro legame. Non sapevo come fare, perciò ho continuato a pregare, mi sono dedicata alla propagazione e ho aperto la casa a chiunque manifestasse il desiderio di recitare Daimoku.
Dopo circa due anni, a causa di una brutta broncopolmonite a lungo trascurata, ho trascorso otto mesi della mia vita combattendo a denti stretti, trovandomi a guardare la morte dritta negli occhi in più di un’occasione, e dovendo lottare per trovare la voglia di vivere e di buttar giù almeno un cucchiaio di minestra ogni tanto. La febbre a quaranta non ne voleva sapere di abbassarsi, mi indebolivo a vista d’occhio e il morale basso non mi aiutava di certo a uscirne. Alternavo periodi in ospedale anche piuttosto lunghi a periodi di degenza a casa. In quei lunghi mesi, la mia famiglia ritrovata mi ha aiutato materialmente e moralmente.
Ho anche sentito fortissimo il Daimoku dei miei compagni di fede, desiderosi di sostenermi in ogni modo. Era come se mi stessero ripagando di tutte le volte che io per gli altri “c’ero stata”, e adesso erano loro a “esserci per me”. In ospedale, spesso non avevo nemmeno la forza di recitare un singolo Daimoku e mi addormentavo con il libretto di Gongyo fra le mani. Ad animare il mio spirito c’era la consapevolezza che L’inverno si trasforma sempre in primavera e che anche questo momento sarebbe passato.
Nel dicembre del 1999, ero uscita da poco dall’ospedale e avevo perso più di quindici chili. Il peggio era passato, ma non mi ero ancora rimessa completamente, ho dovuto prendere atto della realtà e accettare di non esser più in grado di portare avanti il lavoro in tabaccheria. Venduta la tabaccheria, non c’era più nulla che mi trattenesse a Porto S. Stefano. Mi sono trasferita a Grosseto, città dove viveva da anni il resto della mia famiglia.
All’inizio è stata durissima, non avevo la forza nemmeno di andare dal letto al divano senza assistenza. Pian pianino ho ripreso a vivere incominciando a riassaporare tutte le cose belle della vita, dal sole che sorge al profumo dei fiori.
Iniziavo a sentire la mancanza di un legame sentimentale stabile, ma non era certo il cruccio maggiore. Lo era invece per una mia compagna di fede, così per incoraggiarla, per fare assieme a lei un tratto di strada, decisi di fare anche mio questo suo desiderio di un compagno.
Avevo alle spalle una convivenza fallita e forte della passata esperienza, ho curato ogni singolo dettaglio del sogno, per avere ben chiaro come volevo questo ipotetico compagno. Sì perché – pensavo – senza prima curare ogni singolo particolare, dopo non ci si può lamentare se qualcosa non ci piace. Dopo nemmeno quindici giorni, avevo incontrato l’uomo dei miei sogni. Non ho cantato subito vittoria, invece ho continuato a recitare Daimoku perché il sogno non si trasformasse in un incubo.
Il Gosho afferma che “i tre ostacoli e i quattro demoni invariabilmente appariranno” e anche in questa occasione non hanno tardato a mostrarsi: dopo un inizio idilliaco, improvvisamente sembrava che lui avesse perso completamente interesse nei miei confronti. Per evitare di incontrarci stava accampando ogni tipo di scusa.
Sono piombata nella disperazione e la voglia di isolarmi ha tentato di prendere il sopravvento. Con un barlume di lucidità mi sono detta: «Ma il tuo maestro, al tuo posto, che cosa farebbe?». Senza indugiare oltre, sono andata al Centro culturale di Grosseto per incontrare il maggior numero di persone possibili e recitare assieme a loro. Sono riuscita a contrastare lo scoramento con una forte decisione: non solo volevo che lui fosse l’uomo della mia vita, ma che si innamorasse irrimediabilmente di me e che percorresse i quattrocento chilometri che ci separavano per venirmelo a dire, proponendomi di andare a vivere con lui e mettere su famiglia. Molte delle persone che ho incontrato quel giorno al Centro, pur conoscendomi bene, scuotevano la testa incredule.
La preghiera unita agli sforzi di non lasciarmi andare allo scoramento, hanno dato i loro frutti: “l’uomo dei miei sogni” mi ha ricontattato la sera stessa per dirmi che quanto mi aveva detto il giorno prima era dettato solo dalla paura di un rapporto stabile con una persona che sentiva sempre di più parte della sua vita. Mi ha proposto di trascorrere le ferie di agosto insieme e di trasferirmi da lui per i giorni precedenti la partenza. Ero al settimo cielo.
Nei giorni successivi mi sono dedicata completamente all’attività e alla propagazione. Dopo la seconda riunione di discussione di luglio è tornato da me per il fine settimana e insieme siamo ripartiti per casa sua. Durante le ferie è arrivato il coronamento del sogno: la proposta di matrimonio e la programmazione di un figlio. E terminate le ferie, mi sono trasferita da lui.
Al mio arrivo a Ferrara ho preso contatto con il nuovo gruppo. Il luogo di riunione era a quindici chilometri da casa mia. È apparso subito chiaro che per spostarmi agevolmente, avevo bisogno di un’auto e dunque della patente. Ecco che a trentasei anni rispolveravo il desiderio mai sopito di prendere quel cartoncino rosa che mi avrebbe resa indipendente.
A causa di malformazioni congenite, la commissione medica mi ha concesso la patente speciale. Una patente speciale può voler dire un’auto speciale, spesso molto costosa. Anche in questa occasione non ho potuto far altro che affidarmi al Gohonzon. Il 23 settembre 2003 ho superato brillantemente l’esame di guida ottenendo una patente con le uniche clausole delle lenti obbligatorie e del sedile regolabile sia in altezza che in profondità, potendo così guidare automobili di serie.
Ma facciamo un passo indietro: per metter su famiglia avevamo bisogno di una casa. Ne avevamo trovata una che faceva proprio al caso nostro. C’era tutto lo spazio che ci serviva, la camera per il futuro bambino e anche una stanza dove sistemare il Gohonzon.
Al momento di concludere le trattative, il vecchio proprietario pareva volersi tirare indietro e tenersi la casa. Non restava che pregare. A maggio 2003 siamo entrati nella nostra nuova casa. E, ciliegina sulla torta, terminato il trasloco, ci siamo accorti di aspettare un bambino. Tutte le tessere del mosaico della nostra vita parevano andare al loro posto. A metà gennaio 2004 è arrivato Niccolò, uno splendido bambino sempre sorridente. Dato che il mio compagno è cattolico, il bambino verrà battezzato il primo maggio e il padrino sarà proprio mio fratello.
Tutta questa esperienza mi ha fatto capire quanto io abbia vissuto davvero il “prolungamento della vita” in ben due occasioni: quando stavo in ospedale pensando che quelli fossero i miei ultimi istanti di vita, e adesso che è nato mio figlio, che è davvero il prolungamento della mia vita, anche perché ora ho una grande ragione in più per vivere a lungo: quella di farlo crescere come persona piena di valore.