18 novembre 1944
Negli anni tra le due guerre mondiali, il regime giapponese impose lo shintoismo e il culto della figura dell’imperatore come religione di stato. In realtà, quella propagata era una religione sottomessa alle idee totalitarie e guerrafondaie del regime e le dottrine che si ispiravano alla tolleranza e al pacifismo, vennero considerate antipatriottiche e quindi fuori legge. Fu ordinato a tutte le scuole buddiste di adattare i propri insegnamenti e di esporre nei templi i talismani shintoisti.
I monaci della Nichiren Shoshu, in contraddizione con gli scritti e con lo spirito di Nichiren Daishonin, si piegarono alla volontà del governo: cancellarono i brani del Gosho non graditi alle autorità, diedero appoggio morale alla guerra e accettarono di esporre i talismani shintoisti (nel ’43 venne autorizzata l’installazione dei kamifuda – talismani shintoisti – nella sala di preghiera del tempio principale). Cercarono di convincere la Soka Gakkai a adottare la stessa condotta ma Makiguchi rifiutò ogni compromesso pur sapendo, sin dall’inizio, il rischio che questa decisione avrebbe comportato.
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La rivoluzione umana, vol. 1, pagg. 131-132
di Daisaku Ikeda
Nel giugno del 1943 i responsabili centrali della Gakkai furono convocati al Taisekiji. Un prete, in particolare, proponeva di accettare il kamifuda come soluzione temporanea. Makiguchi si inchinò profondamente, ma sentì risuonare nella mente le parole severe e inflessibili di Nikko Shonin «Non adottate decisioni arbitrarie, contrarie al vero Buddismo, anche se dovessero venire dal patriarca stesso».
Rialzò il capo e i suoi occhi brillarono: «Non accetteremo mai una cosa simile!» gridò.
Lasciò il Tempio principale con profonda tristezza: era la sua ultima visita. Sulla strada del ritorno, si rivolse a Toda: «[…] È giunta l’ora di una decisione, Toda. Che ne pensa lei?».
Toda non riusciva a rispondere. Makiguchi aveva già più di settanta anni e lui temeva per la salute del maestro. Desiderava arrecare un po’ di conforto a quello spirito nobile e deciso. Era un discepolo davvero affezionato.
«Lei che ne pensa Toda?» Makiguchi ripeté la domanda, un po’ più calmo.
Josei Toda alzò il suo sguardo al cielo caldo del pomeriggio e osservò la sagoma svettante del monte Fuji. Tornando in sé rispose: «Combatterò a costo della mia vita, signore. Qualsiasi cosa debba succedere, sarò con lei fino alla fine».
Makiguchi mosse la testa in un cenno di assenso e sorrise. Si asciugò il sudore che gli colava dietro la testa. Il calore del sole era intenso e camminando i due sollevavano delle piccole nuvole di polvere sul viottolo.
Furono arrestati entrambi nel giro di un mese.
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Sebbene la censura delle autorità arrivasse a prevedere la presenza della polizia agli zadankai, Makiguchi non rinunciò a difendere l’ortodossia del Buddismo e continuò a prendersi cura dei membri. Nell’estate del ’43, nonostante la guerra, l’età avanzata e la stretta sorveglianza delle autorità, si recò in visita in una zona remota. Trascorse la notte ospite da un membro della Gakkai e al suo risveglio, il 6 luglio, trovò ad attenderlo la kempeitai, la polizia addetta al “controllo del pensiero”.
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La rivoluzione umana, vol. 3, pagg. 51-52
di Daisaku Ikeda
La mattina seguente, poco dopo l’ora di colazione, si presentarono alla porta due investigatori della stazione di polizia di Shimoda, che chiesero di Makiguchi. La loro richiesta era che questi li seguisse al commissariato: Kishiko impallidì.
«Che cosa volete?» gridò. «Cosa ha a che fare con voi il signor Makiguchi? Capirei se una cosa simile accadesse a Tokyo, ma qui siamo a Suzaki. Cosa può volere la polizia di Shimoda da lui?»
Nel sentire la voce eccitata di Kishiko, Makiguchi si avvicinò alla porta con fare disteso. I suoi occhi vigilavano ed egli parlò in tutta tranquillità. «Cosa c’è?»
«Se solo volesse cortesemente seguirci alla stazione di polizia… Venga la prego» disse farfugliando uno dei poliziotti. Makiguchi infilò una mano nella cintura del kimono e lo guardò sorridendo. «Adesso?»
«Sì».
«Allora vi prego di pazientare un momento, devo prepararmi».
Makiguchi rientrò nella sua camera e indossò la giacca. Kishiko lo aiutò con le mani tremanti. «Non deve preoccuparsi – le disse – solo, mi dispiace di causarvi tanto fastidio».
Si trovava in casa di una persona che era stata a capo del villaggio in passato e parlava a bassa voce, per evitare qualsiasi noia alla famiglia. Tornò verso l’ingresso della casa e salutò con un inchino formale il padre della signora Hayashi, che sedeva in soggiorno. Gli altri membri della famiglia lo guardarono uscire.
«Mi dispiace di essermi fatto aspettare» disse ai due poliziotti».
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I monaci della Nichiren Shoshu depennarono il nome di Makiguchi dal registro dei credenti laici e fecero pressioni sulla sua famiglia nel tentativo di convincerlo a modificare le sue posizioni.
Vennero arrestati altri ventuno responsabili della Soka Gakkai. Sebbene precedentemente si fossero dichiarati tutti disposti a lottare al fianco di Makiguchi per dimostrare contro la repressione delle autorità, quando iniziarono gli arresti, abbandonarono la fede e finirono per vedere in Makiguchi il responsabile delle loro sofferenze. In un recente discorso il presidente Ikeda ha detto: «Le persone che fino a quel momento si erano rivolte al nostro primo presidente chiamandolo rispettosamente “sensei Makiguchi”, improvvisamente iniziarono a riferirsi a lui come a “quel dannato Makiguchi”» (NR 289, pag.3). Toda fu il solo a unirsi alla lotta dell’anziano maestro.
Makiguchi non si lamentò mai: scriveva alla moglie che le sue avversità, paragonate a quelle che affrontò Nichiren, erano “assolutamente lievi”.
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La rivoluzione umana, vol. 1, pagg. 127-128
di Daisaku Ikeda
Makiguchi si oppose all’ingiusta censura messa in atto dal governo fino all’ultimo momento della sua vita, al fine di proteggere il vero Buddismo. Sopportò atrocità di ogni genere: interrogatori brutali, torture e umiliazioni che ignoravano del tutto la dignità umana. Ma non retrocesse nemmeno per un istante dalle proprie convinzioni.
Tuttavia la debolezza causata dalla vecchiaia e dalla cattiva nutrizione cominciò ad avere il sopravvento. Era ormai gravemente malato e le autorità del carcere insistevano affinché si facesse ricoverare in infermeria. Ma lui rifiutava decisamente.
Decise di accettare il ricovero il 17. Si vestì in modo elegante e formale, indossando un haori. Si rasò i baffi e si tagliò i capelli.
Il secondino venne a prenderlo alle 3 del pomeriggio: troppo orgoglioso per farsi sorreggere, camminò lentamente fino all’infermeria sulle proprie gambe.
Un dottore lo visitò sdraiato sul lettino. Venne un infermiere che gli porse una medicina, ma lui la rifiutò con un lieve gesto della mano. Poco dopo l’infermiere gli rivolse uno sguardo nella luce fioca della stanza oscurata dalle tende. Sembrava che fosse caduto in un sonno profondo. Morì in pace, all’alba del giorno dopo.
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Il Sutra del Loto
invito alla lettura
Cap. III, Parabola, pagg. 62-64
Allora Shariputra, desiderando ribadire le sue parole, si espresse in versi dicendo:
Quando ho udito il suono di questa Legge
ho conseguito una cosa senza precedenti.
La mia mente ha provato una profonda gioia
e ho sciolto i lacci della rete del dubbio.
Già nel passato avevo ascoltato gli insegnamenti del Budda
e il Grande Veicolo non mi era stato negato.
È assai raro udire la voce del Budda,
che può liberare gli esseri viventi dall’angoscia.
Avevo già sradicato ogni illusione,
ma udendolo mi sono liberato anche dall’ansia.
Sono vissuto nelle vallate montane
o tra gli alberi delle foreste,
talvolta seduto, talvolta errante,
e ho pensato di continuo a questo fatto.
Oh! Per quanto tempo mi sono tormentato!
“Perché sono stato ingannato?” mi chiedevo.
“Anch’io e gli altri siamo figli del Budda
e abbiamo avuto accesso alla Legge priva di difetti;
eppure, per tutte le epoche a venire
non saremo mai in grado di esporre la via suprema.
Il corpo aureo, i trentadue segni,
i dieci poteri, le varie forme di emancipazione:
sebbene siano tutte espressione di un’unica Legge,
non potremo mai condividerle.
Le ottanta caratteristiche meravigliose,
le diciotto proprietà esclusive
e gli altri meriti di questo genere
non sono alla nostra portata!”
Vagavo da solo all’intorno
e vedevo il Budda seduto nella grande assemblea:
la sua fama permeava le dieci direzioni
arrecando benefici agli esseri viventi per ogni dove,
e dentro di me pensavo: “Io sono privato di tali benefici!
Oh! Quanto sono stato ingannato!
Giorno e notte, costantemente,
ogni volta che vi riflettevo,
desideravo chiedere all’Onorato dal Mondo
se io fossi veramente escluso o no.
Vedendo l’Onorato dal Mondo
intento a lodare i bodhisattva,
giorno e notte, senza sosta,
rimuginavo su tutto questo.
Ma ora, ascoltando la voce del Budda,
capisco che egli predica la Legge nel modo più appropriato;
una dottrina senza errori, di difficile comprensione,
per guidare le persone al luogo dell’illuminazione.