Ho cominciato a praticare questo Buddismo alla fine del 1984. Eravamo relativamente pochi e giovani e l’attività buddista aveva un ritmo molto serrato. Anche lo studio era molto più incentivato di quanto non accada ora. Dopo ogni Gongyo, insieme agli altri, si leggeva un Gosho, i Gosho classici, quelli del volume 4, per intendersi: Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza, Risposta a Kyo’o, La difficoltà di mantenere la fede, La vera entità della vita e così via. A casa, poi, era tassativo leggerseli e rileggerseli, specialmente prima e dopo aver recitato Daimoku, cosicché ognuno di quegli incoraggiamenti inviati settecentocinquanta anni fa da Nichiren ai discepoli venivano letti, da noi neodiscepolini, almeno una cinquantina di volte ognuno.
Non posso dire che capissi molto, forse ne capisco più ora con l’esperienza di vita e di pratica buddista, ma la magia che hanno esercitato nei momenti difficili della mia vita va raccontata a tutti i costi. Non sono certo l’unica ad aver fatto questa esperienza. Quando in una situazione veramente disperata, dopo ore e ore di Daimoku non si intravede un barlume di speranza o di coraggio e si continua a recitare perché non si può far altro a un certo punto: PLOP!… Dal profondo della coscienza torna alla mente con forza una frase di Gosho, e tutto cambia e con quell’unica traccia si trova la determinazione, non solo di testa, ma di tutto il corpo, di affrontare anche quest’ennesima bega e vincere. Per sé, per gli altri.
A me è capitato, e fa parte dei ricordi per cui si è felici di essere vissuti, poco dopo un’incidente quasi mortale. La sera prima di un tentativo chirurgico iniziale per rimediare ai danni più grossi, metà del corpo pieno di fratture, mi leggo La vera entità della vita e ci trovo, nel commento del presidente Ikeda, una frase che dice: «Coloro che mantengono la fede e affrontano ogni difficoltà sono gli inviati del Budda» o qualcosa del genere. Apparentemente, che c’entrava con la mia situazione?! Altro che inviato, ero un “crostino”, come venivo definita con fastidio da medici e infermieri dell’ospedale. Eppure un’espressione particolarmente mi colpì: «Sono gli inviati del Budda». E pensai: «L’inviato sono io». Fu sufficiente a darmi il coraggio e la serenità di affrontare la lunga operazione con metà del sangue consueto in corpo, un’anestesia solo parziale, date le condizioni, e uno stato vitale alle stelle con cui feci per tutto il tempo allegramente shakubuku al chirurgo. Non fanaticamente, badiamo bene, me l’aveva chiesto lui.
E poi, di nuovo, per citare solo i due esempi più eclatanti, mi è accaduto tredici anni dopo, nell’altra delle due grosse difficoltà della mia vita che sono diventate, per fortuna, i miei due più grandi benefici. Davanti alla prospettiva di dover perdere la figlia che aspettavo in grembo da quattro mesi o peggio ancora di doverla ammazzare perché “tanto non sarebbe mai vissuta”, “tanto avrebbe avuto gravi malformazioni” come mi dicevano i medici, frugavo nel Daimoku, nel cuore già che c’ero, frugavo anche nel Gosho, alla ricerca della scelta corretta. E infine, leggi e rileggi sempre il solito volume 4, trovo, alla fine del Gosho Le spade del bene e del male, una frase piccola, incospicua, quasi un saluto, la chiosa della lettera: «Tu rimani saldo nella fede e realizzerai i tuoi desideri». Quali erano i miei desideri? Poter andare fino in fondo e dare alla luce una figlia, possibilmente sana e vitale e intellettualmente nella norma e, dulcis in fundo, in condizioni assurde e improbabili dal punto di vista medico, allattarla pure al mio seno. Quelli erano i miei desideri e Nichiren diceva che se rimanevo salda nella fede era fatta. E quella frase, apparentemente buttata lì, mi accompagnò per due mesi e mezzo di immobilità totale, a colpi di tre o quattro ore di Daimoku al giorno. E per tre mesi non sapevo se mia figlia, uscita da me, ce l’avrebbe fatta a vivere, oppure no. E ogni volta che mi scoraggiavo c’era sempre dentro di me la voce di Nichiren con quella frasina: «Tu rimani saldo nella fede e realizzerai i tuoi desideri». E pensavo. Possibile che mi freghi? No, non mi ha fregato. Tutti i miei desideri sono stati realizzati – con una serie di sforzi non indifferenti e di piccoli miracoli medici – dal primo all’ultimo e anche di più.
Con un esempio classico, si dice che recitare Daimoku è come depositare un conto in banca e accumulare un piccolo patrimonio. Leggere il Gosho, costantemente, anche se non lo si capisce, forma un patrimonio di incoraggiamenti nel nostro cuore che, se accumulati in precedenza, salteranno fuori al momento opportuno per farci sentire forti e saldi… e scusate se cito l’ultima frase, quella che mi ha infuso subitaneamente una tranquillità profonda nei momenti più drammatici, quelli in cui sentiamo che potrebbe essere il nostro “ultimo momento”: «Per chi, sentendosi giunto al suo ultimo momento, raccoglie la sua fede e recita Nam-myoho-renge-kyo, il sutra proclama: “Dopo la morte mille Budda gli tenderanno le mani per liberarlo dal timore e impedirgli di cadere nei cattivi sentieri”» (L’eredità della Legge fondamentale della vita, SND, 4, 222-3).
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