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Riempire quel vuoto dentro - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:19

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Riempire quel vuoto dentro

Anoressia e bulimia, due patologie che colpiscono un gran numero di adolescenti, riguardano la difficoltà di diventare individuo che inizia con la separazione dal corpo della madre

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Anoressia e bulimia, due patologie che colpiscono un gran numero di adolescenti, riguardano la difficoltà di diventare individuo che inizia con la separazione dal corpo della madre

«Perfino un devoto del sutra che sia incapace, che manchi di saggezza, che abbia un corpo impuro o che non osservi i precetti, sarà sicuramente protetto finché recita Nam-myoho-renge-kyo. Non gettar via l’oro solo perché la borsa che lo contiene è sporca; se gli alberi di eranda fossero detestati per il loro lezzo, non ci sarebbe il legno di sandalo. Chi evita lo stagno in fondo alla valle perché è melmoso, non può cogliere i fiori di loto».
(Sulle preghiere, SND, 9, 183)

Anoressia e bulimia, i cosiddetti “disturbi alimentari” che colpiscono circa il 15% degli adolescenti della nostra società, hanno assunto un’enorme rilevanza sociale. I due termini indicano le alterazioni alimentari che si manifestano in soggetti sani condizionati dalla paura ossessiva di ingrassare. L’anoressia è il rifiuto di alimentarsi, mentre la bulimia è l’assunzione incontrollata di grandi quantità di cibo, seguita da depressione, la quale induce spesso ad autoprovocarsi il vomito per “svuotarsi”. Questi disturbi insorgono per lo più entro i 25 anni di età, soprattutto tra le ragazze, e portano alla morte il 10% delle persone colpite, per deperimento organico o per suicidio.
Sono malattie difficilmente diagnosticabili perché i pazienti fanno di tutto per nasconderle, non rendendosi conto che si tratta di una vera e propria patologia e perché il loro peso oscilla anche di 5-8 chili. I medici riconoscono i disturbi riscontrando nei soggetti erosione dentaria (fenomeno dovuto alle ripetute introduzioni di zuccheri e all’acidità gastrica per il vomito ripetuto) e aumento delle ghiandole salivari che deformano i tratti del viso, mentre al tatto vi è un’acuta sensibilità.

Le cause – Dice Jacques Lacan che quando si nasce, la divisione dalla madre o, per meglio dire, dal proprio corpo (il corpo della madre è per l’infante una parte di se stessi), provoca la perdita irrecuperabile, che verrà cercata all’esterno per tutta la vita. Questa mancanza primitiva è irresolubile e rappresenta un vuoto che non si riuscirà mai a colmare.
L’anoressia e la bulimia nascondono il desiderio profondo di tornare alla totale dipendenza dalla madre ed esprimono un desiderio inconscio di annullarsi. Tale problematica viene vissuta a livello dell’alimentazione, poiché è la presenza o l’assenza materna che regola l’assunzione di cibo all’inizio della vita. Il percorso inizia con il rifiuto del cibo e si conclude con la chiusura totale verso la famiglia, le amicizie, il lavoro, i sogni, le prospettive, in una “corazza” che divide da se stessi e dall’ambiente. Le persone anoressiche cercano di riparare alla terribile divisione insita nella vita chiudendo la bocca: evitano di sentire la mancanza della madre eliminando il bisogno di mangiare, a prezzo di non esistere come esseri individuali; gli individui bulimici, invece, ingoiano e vomitano, in un doppio gioco senza fine.
Ma perché queste problematiche esplodono nell’adolescenza? L’adolescenza innesca un processo psichico mirante a mantenere la coesione dell’essere. Diventare un corpo adulto è una dura prova, che significa anche rinunciare al proprio corpo di bambini. È necessario che avvenga l’incontro con il nuovo corpo sessuato e che lo si integri nell’attività psicologica dell’individuo. Le trasformazioni fisiche, incontrollabili da parte dell’adolescente, determinano un periodo di disarmonia. La nozione di differenza sessuale diventerà la condizione fondamentale per accettare anche la propria incompletezza; alcune adolescenti rifiutano di pensare al loro corpo nella sua sessualizzazione e rompono l’unità psicosomatica esprimendo il sintomo anoressico-bulimico. La problematica si inscena sul corpo che viene diviso dalla mente.
La persona che soffre di anoressia rimane intrappolata tra il terrore di essere sola e quello dell’annientamento psicologico. Il sintomo permette di mantenere un equilibrio privo di conflitti e di dolore a livello mentale, senza assumersi la responsabilità del problema. Questo è anche il motivo per cui le adolescenti anoressiche o bulimiche arrivano alla consultazione per motivi fisici e con difficoltà accettano un lavoro psicoterapeutico che invece è assolutamente necessario.

Approcci psicoterapeutici – È vitale riconoscersi affetti dal disturbo, perché solo questo consentirà di mettere a punto la strategia di lotta. Tra le terapie disponibili, ci sono quelle familiari, che partono dal presupposto che il disturbo del paziente sia frutto di un mal funzionamento del sistema familiare e prevedono il coinvolgimento di tutta la famiglia, la psicoterapia cognitiva e quella breve strategica.
Nella psicoterapia cognitiva si induce la paziente a sperimentare la possibilità di mantenere un peso adeguato seguendo un’alimentazione varia, oppure che l’aumento di peso può favorire la concentrazione. L’intervento cognitivo offre alla paziente strumenti per testare la validità di altri valori e pensieri, prevede la scrittura di un diario, e un training assertivo (una tecnica che mira al miglioramento delle abilità sociali). Alla psicoterapia viene spesso abbinata una terapia corporea che consiste di esercizi di rilassamento, respirazione, espressione corporea. Tale trattamento ha quattro obiettivi: 1) ricostruire un’immagine corporea realistica, 2) ridurre l’iperattività, l’impulsività e le tensioni, 3) sviluppare abilità di relazione, 4) imparare a divertirsi con il proprio corpo.
La psicoterapia breve strategica considera la realtà qualcosa che ogni soggetto costruisce mediante i suoi processi percettivi, cognitivi ed emotivi. Secondo questa scuola la comprensione e la ricerca di cause lontane non aiuta quanto la comprensione di come il problema si mantenga, nonostante i suoi costi. La terapia ha dunque l’obiettivo di rompere il circolo vizioso delle retroazioni (tutte quelle cose che la paziente o le persone intorno a lei fanno o dicono nell’intento di alleviare o correggere il problema e che invece lo peggiorano) che mantengono in vita il problema.

La “cura” buddista – Nichiren dice nella Cura delle malattie karmiche (SND, 5, 87) che le malattie karmiche sono le più difficili da curare e, tra queste, le più gravi sono quelle che derivano dalle offese al Sutra del Loto. Offendere il Sutra del Loto significa in senso lato offendere la dignità e il valore della propria vita, proprio quello che fa chi soffre di anoressia e bulimia. Questi disturbi alimentari sono condizionati dallo stato vitale di Avidità e, prima di generare patologie fisiche, derivano da malesseri psicologici. Ancora Nichiren nei Due tipi di malattia (SND, 6, 180) dice: «La seconda categoria, le malattie della mente, sorgono dai tre veleni (di Avidità, Collera e Stupidità) e sono ottantaquattromila. Solo un Budda, nessun altro può curarle». Con malattie causate dai tre veleni Nichiren intende probabilmente non tanto le malattie mentali vere e proprie, quanto quegli atteggiamenti basati sulle illusioni che vanno “contro” la vita. Nei due Gosho citati Nichiren prosegue spiegando come soltanto il Sutra del Loto possa veramente curare questo tipo di malattie, non considerando con ciò che non ci si debba affidare a un medico, ma che, così come questi disturbi sono provocati dal disprezzo verso la vita, solo il riconoscimento del valore della vita stessa li può sanare in profondità.
Quella separazione ineluttabile, quell’incompletezza insita nella condizione di esseri umani descritta all’inizio dell’articolo è necessaria per vivere e interagire nel concreto, ma grazie a Nam-myoho-renge-kyo possiamo trovare un’unità con il tutto, come descrive Daisaku Ikeda: «Ogni singola vita umana è un microcosmo e la pratica di Gongyo un rito grandioso e nobile per ottenere una comunicazione a livello vitale tra il microcosmo dell’esistenza di ogni individuo e l’universo, sulla base del Gohonzon. Il corrispondere di ogni parte del corpo umano con gli elementi dell’universo è la dimostrazione che la nostra vita è un microcosmo: la testa è rotonda come il cielo sopra di noi e i nostri occhi sono come Sole e Luna. È anche vero che li chiudiamo e li apriamo, azioni che corrispondono all’alternarsi di giorno e della notte. I nostri capelli brillano come stelle splendenti, e le nostre sopracciglia sono come le stelle dell’Orsa Maggiore. Il nostro fiato è il vento e il quieto respirare delle narici è come la dolce brezza delle vallate. Nel corpo umano ci sono circa 360 articolazioni e questo numero rappresenta anche i giorni dell’anno, come del resto le dodici articolazioni maggiori ricordano i dodici mesi. Il calore della parte anteriore del corpo ha una corrispondenza con le stagioni della primavera e dell’estate, mentre il freddo e la rigida consistenza della schiena rappresentano l’autunno e l’inverno. I vasi sanguigni e le arterie sono i ruscelli e fiumi: quando sopraggiunge un’emorragia cerebrale è come se esplodesse una diga o un argine. Le nostre ossa sono i sassi, la pelle e i muscoli sono la terra, i peli una foresta. I testi buddisti espongono dettagliatamente queste corrispondenze, che includono anche ciascun organo interno, insegnando che il nostro corpo è senza alcun dubbio un universo in miniatura» (NR maggio 1990, pagg. 4-5).

L’esperienza di Gabriella Ottavia Fusco – Per tredici anni la mia vita è stata scandita dall’ossessione del cibo: allo stesso tempo lo rifiutavo e lo desideravo compulsivamente, ero affetta da una forma di bulimia anoressica che mi costringeva a mangiare grandi quantità di cibo per poi liberarmene vomitando, per non tenere dentro di me qualcosa di assolutamente insostenibile. La psicanalisi era servita a salvarmi dal ricovero in clinica; otto pasticche al giorno garantivano poi un funzionamento accettabile del mio organismo. Nella disperazione cominciai a convivere con il mio malessere, il “sintomo”, e con l’effetto di una profonda causa interiore. Dopo quattro anni di analisi ci fu l’incontro con il Buddismo e un immediato miglioramento del mio rapporto con il cibo: durante i primi mesi di pratica il sintomo si era presentato soltanto due o tre volte nel giro di cinque o sei mesi. Come sappiamo, all’inizio la pratica ci dimostra che funziona, ma poi sta a noi decidere di cambiare davvero. Il sintomo tornò infatti a stabilirsi nella mia vita e ormai ero convinta che il mio destino sarebbe stato quello di convivere con bulimia e vomito per sempre. Si fece strada dentro di me la disperazione di non riuscire a vivere una vita normale. Infine dissi basta: la mia vita non poteva dipendere dal sintomo. Decisi di recitare un milione di Daimoku per la definitiva soluzione del mio problema. Il sintomo ebbe subito un’impennata di violenza tale da giustificare un serio abbattimento della mia determinazione, ma mi sforzai di interpretare tutto ciò come un segno che stavo finalmente attaccando le mie forze negative. Tra alti e bassi trascorse qualche mese. Sentendo che la situazione era stazionaria, capii che dovevo dare un nuovo impulso alla mia pratica buddista: il punto non era combattere direttamente la bulimia, quanto sradicarne definitivamente la causa dalla mia vita. Dovevo puntare non a trattenermi dal mangiare tramite un vano sforzo di volontà, quanto a riuscire a non avere più bisogno di strafogarmi di cibo per poi vomitare. Cominciai inoltre a sentire il desiderio di vincere la mia battaglia per poter aiutare altre persone nelle mie stesse condizioni.
Dopo qualche settimana iniziai a frequentare un uomo che all’apparenza era più di quanto potessi desiderare: elegante, bello e ricchissimo, rampollo di una nota famiglia della moda. La ragazzina brutta e goffa che ero stata e che caparbiamente aveva costruito una nuova immagine di sé, ora si era riscattata, era pazza di gioia. E il sintomo, come per incanto, scomparve. Tra autisti, gite in elicottero e pranzi raffinatissimi vivevo come in una favola, finché una serie di problemi personali del mio principe azzurro cominciò a rendere difficile e poco realistico il nostro rapporto e mi riportò alla quotidianità e al vomito.
A quel punto ebbi davvero paura di non farcela, ma ogni mattina davanti al Gohonzon pregavo di non cedere e di avere la forza di rialzarmi in piedi ancora una volta, quella decisiva. Per la prima volta, come illuminata da un riflettore, riuscivo a vedere la causa profonda della mia malattia: un baratro di insicurezza che chiedeva di essere colmato e che aveva temporaneamente trovato in quell’incontro “magico”, un’esteriore compensazione, una falsa soluzione. Il mio valore non poteva dipendere solo da quelle conferme. Ora praticavo con più determinazione verso l’obiettivo: riempire quel vuoto.
Mi sentii pronta per un tentativo: impegnarmi con me stessa, davanti al Gohonzon, che non avrei più vomitato per un mese intero, qualunque cosa fosse successa; eravamo ormai a un mese circa dalla conclusione del mio milione di Daimoku. Dopo un paio di settimane ci fu un episodio risolutivo: ero stata invitata a colazione da un caro amico in un ristorante del centro e avevo mangiato più di quanto desiderassi. Poi lui mi aveva riaccompagnata a casa e io mi ritrovai sola. Sola. In un altro momento avrei aperto il frigorifero, l’avrei svuotato per poi vomitare. Decisi di non farlo, riuscii a non farlo e per la prima volta andai fino al fondo di quella sofferenza, di quella paura della solitudine, di quella frustrazione profonda che il sintomo, fino a quel momento, aveva avuto la funzione di anestetizzare. Mi ritrovai a torcermi sul divano, piegata in due dal dolore che mi soffocava. Il dolore a poco a poco si affievolì, riuscii ad aprire il Gohonzon e a recitare Daimoku e quella sera la trascorsi a casa, rasserenata e consapevole di aver appena vissuto qualcosa di importante: un primo, prepotente, anche se ancora incerto, segno di vittoria. Il sintomo non si ripresentò, senza sforzo da parte mia, semplicemente non ne sentivo più il bisogno.
In quei giorni a Roma si stava organizzando il meeting europeo dei giovani e a me, ironia della sorta, fu offerto di occuparmi del coordinamento del buffet. Accettai, divertita. Pochi giorni dopo conclusi il milione di Daimoku con la certezza, per la prima volta in tredici anni, che non era più in gioco la mia forza di volontà, che tante volte aveva fallito: sapevo di essere guarita.

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Anoressia nervosa: i segnali d’allarme

Calo ponderale pari almeno al 25% del peso iniziale
Atteggiamento alterato nei confronti del cibo
Ossessione nel controllare il proprio peso corporeo
Mancanza di mestruo
Stitichezza ostinata
Eccessiva sensibilità al freddo
Capelli lanuginosi
Rallentamento del battito cardiaco
Squilibri ormonali
Periodi di iperattività con esercizi fisici maniacali
Rifiuto di mangiare di fronte agli altri

Bulimia: i segnali d’allarme

Consumo rapido di cibo altamente calorico durante le crisi
Mangiare senza rendersene conto
Interrompere la gozzoviglia per comparsa di dolori addominali, sonno, allontanamento dal gruppo, o autoinduzione del vomito
Tentativi ripetuti di perdere peso tramite diete, autoinduzione al vomito o uso di diuretici e lassativi
Depressione e autocritica

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