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La morte allo specchio - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 17:46

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La morte allo specchio

Per ogni essere umano la morte di una persona cara è fra i dolori più intensi, devastanti e persistenti. È possibile trasformare anche il lutto in un’ennesima occasione per imparare a vivere con consapevolezza e gioia ancor maggiori?

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Per ogni essere umano la morte di una persona cara è fra i dolori più intensi, devastanti e persistenti. È possibile trasformare anche il lutto in un’ennesima occasione per imparare a vivere con consapevolezza e gioia ancor maggiori?

Venire a conoscenza di una grave malattia che ha colpito un nostro caro, o della morte di un amico, di un conoscente, di un artista che amiamo, ci fa sempre soffrire. Tocchiamo con mano due delle otto inevitabili sofferenze – di cui parla il Buddismo – che la vita ci mette di fronte e con le quali, prima o poi, tutti dobbiamo fare i conti: la morte e la separazione da chi si ama. E spesso l’intensità provocata dalla sofferenza della malattia – che viene percepita come preludio della morte – o dalla perdita di una persona, dipende dalla nostra concezione della vita e della morte. Il rapporto individuale con la “Nera Signora” diventa uno specchio che amplifica le nostre ansie o la nostra serenità, diventa insomma l’occasione per comprendere qualcosa di più di ciò che spesso incute paura: la morte, appunto.
Paolo Granata, ricercatore universitario ventinovenne, buddista da undici anni, dopo aver assistito il padre in una lunga malattia, in seguito alla sua morte scrive: «Si usa spesso, di fronte alla perdita di una persona cara, l’espressione “si è spento…”. Ebbene, sento davvero l’esatto contrario. Oggi si è acceso un nuovo faro nella mia vita, che illuminerà il mio cammino negli anni a venire. E questo faro lo vedrò riflesso nel sole e nella luna, lo sentirò nel vento, lo distinguerò tra le stelle. Sarà un faro alimentato quotidianamente dalla mia pratica buddista, un faro che illuminerà ogni paura. Perché in fondo la morte fa più paura a chi rimane che a chi se ne va. Ed è una cosa con cui dobbiamo fare i conti in questa vita. A tale scopo negli antichi testi buddisti si legge che il Budda a un tratto muore di proposito per insegnare ai suoi discepoli il significato della morte, per aiutarli a liberarli dalle illusioni che da essa derivano e, al tempo stesso, trasmettere loro il senso dell’eternità della vita. Ed è proprio così: la morte insegna la vita. E la morte di mio papà, oggi, mi sta insegnando a vivere; ad amare la vita e a usarla in maniera unica e indimenticabile».
La morte insegna la vita, dice Paolo. In effetti, nonostante sia raro incontrare qualcuno che oggi si avvicina al Buddismo per risolvere l’angoscia della morte, continuando a praticare e approfondendone la filosofia, si impara ad accettare la morte come una presenza naturale nella vita. Il Daishonin aveva iniziato la sua lunga ricerca proprio partendo dalle riflessioni sulla vita e la morte: «Sin dall’infanzia, io Nichiren, ho studiato il Buddismo con un solo pensiero in mente. La vita dell’essere umano è tristemente fugace. Un uomo esala il suo ultimo respiro senza la speranza di tirarne un altro. Nemmeno la rugiada asciugata dal vento è tanto effimera. Nessuno, saggio o sciocco, giovane o vecchio, può sfuggire alla morte. Per questo il mio unico desiderio fu di risolvere questo mistero eterno. Il resto è secondario» (GZ, 1404). Ma, anche non essendo partiti con lo stesso desiderio del Daishonin, tanti col passare degli anni hanno scoperto che il cammino per realizzare se stessi conduce prima o poi a dover guardare in faccia la propria mortalità, fino a comprendere e apprezzare il valore della morte come parte della vita.
Eh sì, perché il Buddismo è la filosofia dell’unità e della compenetrazione dei fenomeni, cioè spiega come niente sia separato dal resto. Vita e morte, luce e ombra, manifestazione e latenza, sono le fasi alterne dell’esistenza che ogni essere vivente sperimenta per l’eternità. Daisaku Ikeda racconta che il presidente Toda parlava sovente della morte: «Dopo la morte la nostra vita si fonde con l’universo. Non c’è bisogno di ricorrere all’esistenza dell’anima, è la vita, come entità di corpo e mente, che ritorna all’universo. L’universo stesso è una grande entità vivente, un vasto oceano che dà vita a tutte le cose, le alimenta, sostiene le loro attività e, quando muoiono, le accoglie tutte ancora nelle sue braccia così che possano attingere nuova energia. Esiste un grande oceano pieno di vita, in perenne movimento e trasformazione attraverso il ritmico alternarsi di nascita e morte, e in esso le nostre vite sono come onde: la comparsa di un’onda è vita, la sua scomparsa è morte. Questo ritmo si ripete in eterno. E ciò non vale soltanto per la vita degli esseri umani. Nichiren Daishonin scrisse: “Cielo e terra, yin e yang, il sole e la luna, i cinque pianeti, i vari mondi da Inferno a Buddità, non sono esenti dai due fenomeni di nascita e morte”. Anche i corpi celesti hanno una durata limitata. Anche la Via Lattea è nata e morirà. È la legge di nascita e morte che lo decreta. Lo stesso vale nel microcosmo, ognuno dei dieci mondi da Inferno a Buddità è soggetto a nascita e morte» (Saggezza, 3, 216-217).
Nella fase manifesta dell’esistenza (quando siamo vivi), ciò che viene pensato, detto e fatto crea continue cause che produrranno degli effetti (in altre parole il karma), mentre nella fase latente (quando siamo morti) nella quale l’energia individuale si è ricongiunta all’energia dell’universo non è possibile modificare il proprio karma e si “vive” per così dire di “rendita”, subendo gli effetti delle cause accumulate quando si era in vita. Ed è sempre questo karma accumulato a determinare le caratteristiche della vita futura, secondo un ciclo eterno di vite manifeste e latenti.
Nella quarta preghiera di Gongyo ogni mattina e ogni sera preghiamo per i nostri cari scomparsi, ma in che modo questo può aiutarli? Visto che sono nella condizione latente essi non hanno la possibilità di accumulare nessun tipo di cause fino alla prossima rinascita. La durata del periodo di non esistenza e la condizione vitale provata sono diverse e soggettive, ma recitando Daimoku per la felicità dei nostri cari possiamo toccare la loro vita, contribuendo a elevare la loro condizione vitale in modo che possano rinascere al più presto.
Sollecitati dalla morte degli altri guardiamo allo specchio la nostra stessa morte, percependone la presenza quotidiana nella nostra vita, fatta di tante piccole morti, separazioni, trasformazioni, dentro e fuori di noi, che il Buddismo spiega essere il “ritmo” della vita.
Per noi che pratichiamo, è particolarmente importante mantenere una fede attiva fino all’ultimo momento. In vari scritti Nichiren parla di come verranno accolti e accompagnati al momento della morte i devoti del Sutra del Loto. «Se recitiamo fino all’esatto momento della morte, Shakyamuni, Taho e tutti gli altri Budda dell’universo verranno da noi immediatamente, proprio come promisero durante la cerimonia al Picco dell’Aquila. Prendendoci per mano e portandoci sulle spalle ci condurranno sul Picco dell’Aquila. I due santi, i due dèi celesti e le dieci divinità ci proteggeranno, mentre tutti gli dèi buddisti innalzeranno un baldacchino sulla nostra testa e spiegheranno in alto i vessilli. Ci scorteranno sotto la loro protezione fino alla terra del Budda. Come è possibile descrivere una simile gioia?» (La pratica dell’insegnamento del Budda, SND, 4, 18). E ne L’eredità della Legge fondamentale della vita, scrive: «Per chi raccoglie la propria fede e recita Nam-myoho-renge-kyo con la profonda consapevolezza che adesso è l’ultimo momento della sua vita il sutra proclama: “[…] quando la loro vita giungerà al termine, esse saranno accolte dalle mani di mille Budda che le libereranno da ogni paura e impediranno loro di cadere nei cattivi sentieri dell’esistenza”» (WND, 216).
Possiamo immaginare quei Budda dell’universo come tutti i compagni di fede che recitano Daimoku per accompagnare e proteggere il viaggio del defunto. «Che felicità! – aggiunge Nichiren – Come trattenere le lacrime di gioia sapendo che non uno o due, non cento o duecento, ma mille Budda verranno ad accoglierci con le braccia aperte?». Questa felicità, questa grande pace e serenità nel momento della morte derivante dall’essersi armonizzati con l’universale natura buddica che permea, al più profondo livello, la vita e l’universo (vedi D. Ikeda, I misteri di nascita e morte, pag. 93) non è affatto scontata, ma dipende da come abbiamo vissuto.
Partendo dal dolore che ci provoca la scomparsa di una persona cara il Buddismo ci spinge ad affrontare prima e soprattutto dentro di noi la morte intesa come perdita di speranza, come arresto spirituale: in altre parole la mancanza di spirito di ricerca verso il raggiungimento dell’Illuminazione, la morte interna. Perché se esiste una morte da temere, per il Buddismo, è proprio questa: l’abbandono della ricerca sincera e determinata della via del Budda.

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Il volo di Lorena

Il 6 marzo 2005 è morta Lorena: mia cugina, nonché mia grande amica e compagna di fede.
Dovevamo essere al corso di Paestum insieme… ma lei non ce l’ha fatta. Una grave malattia le ha rubato il corpo, ma non il suo forte spirito, la sua profonda fede che, come un fiume in piena ora pervade tutto l’universo.
Le sue ultime parole sono state queste: «Grazie per il Daimoku che sento. Il mio primo obiettivo è praticare insieme a voi. Questa malattia è stata la preziosa occasione per me di tornare a S. Bartolomeo come buddista: e questa occasione, buddista fra i buddisti di S. Bartolomeo, voglio viverla pienamente ringraziando e lodando la vita per questa opportunità. Vi abbraccio forte forte. Lorena».
Aver affrontato fino in fondo la morte di Lorena mi ha permesso di scoprire i tesori del cuore nascosti nella mia vita. La morte di Lorena ha illuminato la preziosità e profondità della mia vita e di quella degli altri. In quei giorni ho cercato in ogni istante di alleviare la sua sofferenza e di darle gioia e speranza strappandole sempre un caldo sorriso. E ho anche cercato, con tutta me stessa, di incoraggiare tutte le persone che soffrivano per lei.
E mentre soffrivo dietro le quinte, il giorno del suo funerale ho ricevuto da Alfredo, responsabile del settore di Lorena, queste bellissime parole: «Stiamo recitando per accompagnare Lorena in questo viaggio verso l’infinito e verso l’eternità della sua vita. Noi insieme a voi siamo i “mille Budda” che recitano Nam-myoho-renge-kyo. Grazie davvero Lucia, spero che un giorno potremo raccontarci una bella esperienza, partendo proprio dal valore delle tue azioni di vera, grande e autentica bodhisattva di questa terra».
Mentre prima recitavo Daimoku di volta in volta per i vari problemi (il fidanzato, il lavoro, i soldi, le relazioni con gli altri…) ora la mia preoccupazione è recitare Daimoku per non scappare dall’ambiente in cui sono, ma trasformarlo nella felice terra del Budda. Il mio “pensiero costante” è come posso utilizzare il tempo per migliorare, come posso usare la mia vita per realizzare la promessa di diventare felice insieme a tutti gli altri. Ora, adesso. Non domani, ma in questo istante.
Il presidente Ikeda parla della forza del gruppo analizzando le peculiarità del volo degli uccelli: uno stormo migratore può giungere a destinazione solo se tutti i suoi componenti si aiutano a vicenda. Le oche, per esempio, volano sempre in una caratteristica formazione a V ma se anche solo un’oca abbandonasse la formazione, le altre sentirebbero subito il peso e la fatica del volo. È l’uccello più forte a mettersi al comando finché ha le forze, arretrando quando non riesce a mantenere un’adeguata velocità. Ma dal fondo continua a lanciare un grido d’incitamento per incoraggiare quelli davanti a mantenere una velocità elevata. E anche quando un membro del gruppo si indebolisce, si distacca dal gruppo, ma verrà accompagnato e sostenuto da altri due uccelli per riunirsi agli altri una volta che il compagno debole avrà ripreso le forze. Il forte sta vicino al debole sia nei momenti difficili che in quelli tranquilli, nei momenti di debolezza come in quelli di vigore. Così ho volato con Lorena e così voglio volare con voi.
Grazie Lorena. Grazie a tutti.
Lucia D’Urso

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Negli scritti del Daishonin

Il mistero eterno della morte

Sia i giovani che i vecchi vivono nel regno dell’incertezza, ma è nell’ordine naturale delle cose che i vecchi muoiano prima e i giovani rimangano. Perciò, anche nel dolore si può trovare un motivo di consolazione. Ma quando capita che il giovane muoia prima e il vecchio rimanga, nessuno si dispera di più del figlio che muore ancora bambino prima dei genitori e del genitore anziano che vede morire il figlio prima di lui. Gli uomini vivono in questo mondo fuggevole ove tutto è incertezza e impermanenza, eppure pensano soltanto ad ammassare ricchezze in questa esistenza. Dalla mattina alla sera si concentrano solo su faccende terrene, senza venerare il Budda e senza credere nella Legge; sprecano le loro giornate senza praticare e senza acquistare saggezza. Quando saranno trascinati davanti al tribunale di Emma, quali provviste porteranno con sé nel lungo viaggio attraverso il triplice mondo, cosa potranno usare come barca o zattera per attraversare il mare della sofferenza di nascita e morte e giungere nella terra del Budda della reale ricompensa e della luce tranquilla? Quando siamo illusi è come se sognassimo, quando siamo illuminati è come se ci fossimo svegliati.
(Le quattordici offese, SND, 5, 176-177)

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