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Un lungo viaggio - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 16:43

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    Un lungo viaggio

    Virginia Straus Benson – direttrice esecutiva del Centro ricerche per il XXI secolo di Boston – narra in prima persona due tappe cruciali del viaggio iniziato nel 1982 verso la sua rivoluzione umana

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    Virginia Straus Benson – direttrice esecutiva del Centro ricerche per il XXI secolo di Boston – narra in prima persona due tappe cruciali del viaggio iniziato nel 1982 verso la sua rivoluzione umana. Impegno per la pace e la diffusione dell’umanesimo buddista nel mondo si intrecciano con un profondo cambiamento nella sua vita personale che, a partire dalla malattia e dalla morte della madre, la portano a trasformare antichi nodi familiari irrisolti, in particolare con il padre. E, poiché nel Buddismo nessuno ma proprio nessun desiderio rimane senza risposta, quella prima esperienza – realizzata cercando di applicare con la stessa coerenza il pensiero del suo maestro alla propria attività pubblica quanto alla propria vita privata – la conduce anche a coronare a cinquant’anni il sogno della sua infanzia: trovare il Principe Azzurro

    Una sana collera

    Nell’estate del 1992 partecipai a un seminario del Dipartimento di studio in Giappone, con il presidente della SGI, Daisaku Ikeda. Nei nostri incontri informali sentii un legame con lui come con un padre avuto da sempre: mi sentivo completamente a mio agio, sicura di me e ascoltata come non mi era mai successo prima. Il periodo successivo a quel viaggio fu molto difficile. Appena rientrai a casa, mia madre ebbe un ictus che le paralizzò tutto il lato sinistro e la mia famiglia andò immediatamente in crisi.
    Nel settembre 1993 il presidente Ikeda fondò il Centro ricerche per il XXI secolo di Boston, un istituto internazionale di pace, e a me fu assegnato il ruolo di direttrice esecutiva. Nello stesso periodo fummo costretti a internare mia madre in una casa di riposo dove mio padre poteva condurre una vita normale all’interno di un condominio e mia madre ricevere l’assistenza ospedaliera, anche se di fatto era mio padre, nonostante l’età e le condizioni cardiache precarie, il primo a prendersi cura di lei. Abbiamo avuto molti incontri con tutta la famiglia e io andavo a trovarli molto spesso.
    Questa situazione durò più di nove anni. Condividevo la lunga lotta di mio padre, che mentre accudiva mia madre aveva superato un impianto di bypass e il cancro, affrontando allo stesso tempo le mie intense sfide al Centro. Ora so che è stata la sua eroica determinazione nel prendersi cura di mia madre che mi ha reso capace di svolgere il mio incarico al Centro ricerche.
    Ma a quell’epoca provavo un senso di rifiuto per dover sostenere mio padre. Mi sono sempre sentita molto distante da lui e molto vicina a mia madre. Ora, per via delle condizioni di lei, mi sentivo obbligata a stare accanto a mio padre regolarmente. Nella nostra famiglia non è abitudine condividere i sentimenti, quindi per lo più voleva solo che io fossi lì con lui, a guardarlo mentre svolgeva le operazioni di routine previste per mia madre: un giro nel condominio, guardare la TV, imboccarle la cena, metterla a letto, fare il bucato.
    Una delle ragioni per cui sentivo mio padre così distante era dovuta alla mia profonda convinzione che preferisse la mia sorella maggiore a me. E, adesso che c’era bisogno, lei era quasi del tutto irraggiungibile e svolgeva la sua eccitante vita da diplomatica dall’altra parte del globo. Mio padre rispecchiava perfettamente il mio risentimento. Anche se ero l’unica persona che vedeva costantemente, per lui non era mai abbastanza, mostrava poco interesse nei miei confronti e invece un vivo interesse nel parlare di mia sorella e delle sue attività nel potente mondo della politica internazionale. Se continuavo a rimanere lì con lui era grazie alla pratica buddista e al legame maestro-discepolo che si era creato con il presidente Ikeda durante i primi dieci anni di pratica. Mentre impiegavo le mie energie nel lavoro e nel prendermi cura dei miei genitori, sentivo la presenza incoraggiante del presidente Ikeda, che lodava i mie sforzi.
    Alla morte di mia madre, nel gennaio del 2003, mio padre perse ogni ragione e desiderio di vivere. Il mio incoraggiamento buddista che la vita della mamma fosse eterna era inutile.
    A questo punto, il presidente del Centro, Masao Yokota, riferì la mia situazione al presidente Ikeda, il quale, con mia grande sorpresa, scrisse direttamente a mio padre dicendo: «Comprendo che le manchi la sua amata moglie. Tuttavia, secondo il Buddismo, la vita è eterna, e un giorno lei tornerà certamente su questa terra per creare ancora una vita gioiosa insieme a lei. Io apprezzo molto l’opera che sua figlia Virginia sta facendo per contribuire alla pace nel mondo. Spero vivamente che possa avere una relazione meravigliosa con sua figlia e una vita piena di significato insieme a lei».
    La convinzione del presidente Ikeda riuscì ad aprire una breccia nel cuore di mio padre sulla morte facendogli intravedere uno spiraglio di possibilità per il futuro. Per un verso fui grata del messaggio ma anche preoccupata. Come potevo infondere significato alla vita di mio padre? Nei dieci anni di malattia di mia madre, la sua vita è stata per me come un pozzo senza fondo pronto a risucchiare ogni raggio di luce che emanavo, e ora mi si diceva che non era abbastanza. Stare con mio padre mi ricordava costantemente che ai suoi occhi la mia vita non valeva quanto quella di mia sorella. Sul piano concreto il quadro che mi si prospettava era deprimente: tornare alla massacrante routine di guardare il golf alla TV, senza più tempo per me e per i miei amici.
    In quel periodo andai in Giappone e presi guida dalla responsabile della Divisione donne, signora Hachiya. Dopo che le ebbi esposto i miei sentimenti e le mie esperienze, lei manifestò apertamente rabbia nei confronti di mio padre. Io non avevo mai osato arrabbiarmi con lui in vita mia e soltanto il vedere quella meravigliosa responsabile buddista arrabbiarsi senza remore con mio padre fu un sollievo per il mio spirito. Poi mi invitò ad abbandonare i sensi di colpa ogni volta che pretendeva che accantonassi tutto per correre da lui. Disse che dare per scontato che io fossi sempre disponibile non andava bene per la sua Illuminazione. Capii che non avevo mai distinto fra ciò che lui credeva lo rendesse felice e la sua Illuminazione. Poi, con mia grande sorpresa, disse: «Un giorno tua sorella e tuo padre rispetteranno i valori per cui stai lavorando nel mondo».
    Dopo il viaggio in Giappone, io e mia sorella escogitammo un piano per scuotere nostro padre dal suo torpore offrendogli l’unica cosa che gli interessasse: un assaggio della sua vita come diplomatica in un paese straniero. E io l’accompagnai. Mia sorella ce la mise tutta per intrattenerlo, ma lui continuava a portarsi dietro la sua nuvoletta nera. Una sera gli dissi la mia opinione. Facendo riferimento a tutti gli sforzi che mia sorella e i suoi amici stavano facendo per lui dissi che doveva rispondere a tanta gentilezza con un minimo di gioia. Fu sconcertante per me vedermi veramente arrabbiata con lui, ma, per tutta la durata di quel viaggio, la lezione gli servì e riuscì ad aprire il suo cuore alla gentilezza della gente del posto.
    Al rientro a casa, prima che mi portasse da lui a guardare il golf in TV, dissi: «Babbo, devo pulire lo scantinato, perché non vieni a darmi una mano?». L’audace richiesta sfidava il mio risentimento che lui avesse la tendenza ad aiutare i miei fratelli con le loro faccende domestiche, ma non me. Dopo il lavoro avrei cucinato per lui. Aggiunse una proposta: guardare un film con i sottotitoli perché aveva difficoltà d’udito. I film in lingua originale sono la mia passione! Questo divenne il nostro nuovo modo di passare i week-end, e io mi ritrovai con uno scantinato splendente.
    Non vedevo l’ora di trascorrere i fine settimana con papà. Si stava gradualmente avvicinando alla mia vita e ci divertivamo davvero insieme. In quel periodo mia sorella, tornata a vivere a Washington, all’improvviso mostrò interesse per il nucleo familiare. Ora che avevo finalmente trovato una collocazione nel cuore di mio padre non accolsi a braccia aperte il ritorno di mia sorella, soprattutto quando vidi l’entusiasmo di mio padre di fronte alle sue attenzioni.
    Un giorno che venne a trovarmi, mi resi conto che lei nutriva per la mia vita lo stesso scarso interesse di mio padre. Durante quella visita accusai degli spasmi in fondo alla schiena. Il giorno dopo mi ritrovai con uno dei più dolorosi mal di schiena mai provati e un sacco di tempo per recitare Daimoku e riflettere. Pensai che forse c’era un significato più profondo al mio malessere: dovevo rafforzare la mia “colonna vertebrale” con mia sorella. Non ero mai riuscita a tenerle testa quando perdeva la pazienza e si arrabbiava senza ragione con me. Ho recitato profondamente sulle molte esperienze legate al suo carattere e al mio timore delle persone aggressive, una tendenza che odiavo in me. Davanti al Gohonzon compresi che stavo affrontando la rabbia repressa che nutrivo per mia sorella. Mi tornò in mente un articolo che metteva in guardia sulla “purezza irreale” di tante persone che lottano per la nonviolenza. Diceva: «Se siamo disposti ad affrontare la nostra collera personale allo stato grezzo e trasformarla nella collera disciplinata che cerca un cambiamento, potremo parlare in maniera ben più persuasiva ai nostri compagni del bisogno di sradicare dai nostri cuori la collera omicida». E anche: «Quando ci sentiamo oppressi e non vediamo via d’uscita, spesso stiamo cercando di reprimere la verità rispetto al male che ci hanno fatto e la rabbia che proviamo per questo». Nella nostra famiglia, mia sorella sfogava la sua collera in improvvisi attacchi di aggressività, mentre io e mia madre fingevamo di non essere quasi mai arrabbiate. Vedevo mia madre come l’ultima ruota del carro della famiglia e io come la sua controfigura, un’immagine di me che mi teneva ancora prigioniera dopo così tanti anni.
    Mentre riflettevo e recitavo Daimoku per ore sdraiata sulla schiena, cominciai gradualmente a stare meglio. La mattina seguente mi ritrovai senza rabbia per la mia famiglia. Il Gohonzon mi aveva permesso di trasformare la “collera malata” in una collera sana che mi fece decidere di cambiare una situazione opprimente per il bene di tutti. Capii anche che la mia famiglia non rispettava i miei valori buddisti perché non avevo avuto il coraggio di sostenerli apertamente nel contesto familiare.
    In una lezione alla Columbia University il presidente Ikeda aveva spiegato che ciò che fa di una persona un cittadino del mondo è la saggezza di percepire l’interconnessione di tutte le forme di vita, il coraggio di accogliere le differenze e imparare da esse, e la compassione per identificarsi nella sofferenza degli altri, anche coloro che sono lontani. Era la guida per realizzare la pace nella mia famiglia: avevo bisogno di mostrare saggezza nelle nostre relazioni, nessuno di noi poteva essere felice a spese dell’altro; avevo bisogno di coraggio per abbracciare le differenze senza giudicarle, per esempio dovevo smettere di pensare a mia sorella, mio padre e uno dei miei fratelli da una parte e mia madre, l’altro mio fratello e io dall’altra. Infine era necessario che provassi compassione per le persone distanti, cioè, anche quando un altro era arrabbiato con me e lo sentivo distante, provare a colmare questa distanza nel mio cuore cercando di comprendere il suo sentire.
    Fu una fortuna aver fatto tutto questo lavoro davanti al Gohonzon perché l’avvicinarsi del Natale avrebbe portato uno stuolo di familiari a confronto; giusto quello che mi occorreva per mettere alla prova la mia rabbia trasformata in determinazione. Mia sorella riaffermò il suo ruolo tradizionale portando regali favolosi dall’estero. La sistemazione pensata dalla famiglia non era di suo gradimento, così mi chiamò per discuterne animatamente e assegnarmi il compito di sistemare tutti come diceva lei. In passato sarei stata lusingata di seguire le sue istruzioni, ma ora sapevo che l’approccio di mia sorella non era saggio. Aveva intenzione di scontrarsi con un altro componente della famiglia ed era arrivato il momento di reagire. Dovevo necessariamente parlare con mia sorella delle conseguenze della sua rabbia. Da quando avevo trasformato la mia rabbia davanti al Gohonzon, non c’era più motivo di vivere nel passato. Le feci presente che da quel momento in poi sarei stata più forte con lei e che non l’avrei più assecondata. Quando scoppiò a piangere dicendo che avrebbe voluto non essere mai tornata a casa, le manifestai tutto il mio amore. Mi abbracciò dicendomi che aveva notato che stavo diventando forte e che ne era contenta. Era come se attendesse da sempre che io le dessi dei limiti. Passai il resto del Natale sentendomi pari a mia sorella e mio padre e godendo della loro compagnia come mai avevo fatto prima.
    La primavera seguente scoccai inconsapevolmente il dardo di Cupido per mio padre che si innamorò di una splendida signora, Elaine, una psicoterapeuta affetta dal morbo di Parkinson. Quando mio padre mi confessò il suo amore per lei, prese il messaggio del presidente Ikeda e mi disse: «Ti ricordi cosa mi disse il presidente Ikeda?». «Sì, che io e te ci saremmo divertiti un sacco», risposi. E lui: «Sì, ma non ha detto come, vero?». Dato che a papà non piace guidare a lungo e con Elaine ama viaggiare nei weekend, li ho accompagnati molte volte. Il culmine delle esperienze di quei fine settimana fu una notte che passai a parlare con mia sorella e mio padre. In quell’occasione mia sorella accettò la nuova felicità di mio padre con Elaine e lo abbracciò. Mio padre mi confessò che era la prima volta, da quando era bambina, che lei riusciva a esprimere una simile manifestazione d’affetto. Compresi che la loro apparente alleanza in famiglia in realtà nascondeva una frattura forse ancor più grande di quella che c’era fra me e lui.
    Al contrario di mio padre e mia sorella, Elaine si interessò molto al Centro ricerche e alla mia pratica buddista. Decise che mio padre non doveva mancare al decimo anniversario della fondazione del Centro. Il mio discorso d’apertura, si intitolava “La rete buddista della vita”. Ero nervosa e non riuscivo a preparare il discorso. Volevo parlare col cuore e non basarmi sugli appunti. Per farlo dovevo esprimere il legame col mio maestro che sentivo connaturato alla mia vera identità. Perciò studiai attentamente il discorso del presidente Ikeda per la fondazione del Centro, “Il Buddismo mahayana e il XXI secolo”.
    Studiando le sue teorie sul contributo del Buddismo per la pace, ho compreso più profondamente la missione del Centro e come svilupparla nel futuro: promuovere una filosofia di interdipendenza – come dice il presidente Ikeda di “co-esistenza simbiotica” – in grado di influenzare le persone di tutto il mondo. Scoprendo ancor di più l’immensità di tale missione, mi sembrava di vivere il mio personale “abbandonare il transitorio per rivelare il vero” (hosshaku kempon). Quando mi alzai per parlare quella sera, la mia energia si riversò nella sala con entusiasmo e gioia. Mi sentivo così a mio agio che non solo condivisi il mio profondo rispetto per il presidente Ikeda, ma decisi anche di presentare pubblicamente papà e Elaine alla fine del discorso. Si alzarono entrambi con i volti radiosi. A un certo punto, nel corso della serata Tu Weiming, uno studioso di Confucio che aveva introdotto la lezione del presidente Ikeda a Harvard dieci anni prima, me li indicò in mezzo al pubblico. «È meraviglioso, guardalo – mi disse ­- ha il volto radioso». All’improvviso vidi mio padre attraverso gli occhi di quello studioso cinese, che apprezzava la bellezza di una vita vissuta. E compresi che quel pozzo nero e senza fondo che era stata la sua vita per dieci anni non aveva soltanto ingoiato per tutto quel tempo il mio Daimoku e il mio incoraggiamento costante; l’aveva anche conservato per restituirmelo pienamente sotto forma di piena Illuminazione quando fossi stata pronta a capire.

    I signori Buona Fortuna

    Quando 22 anni fa ho iniziato a praticare il Buddismo di Nichiren Daishonin, mi fu detto che potevo realizzare tutti i miei sogni e l’idea mi elettrizzava. Allora avevo 35 anni, e il mio più grande sogno era trovare l’anima gemella e vivere felice per sempre. Da piccola, la mia fiaba preferita era Cenerentola, avevo persino dato questo nome al mio cane. Ma, fino a quel momento i miei uomini si erano rivelati molto diversi dal Principe Azzurro. Poco più che ventenne, mi ero imbarcata in un matrimonio che si rivelò più una tragedia greca che una favola. Mio marito era sicuro che sarei stata migliore se fossi stata qualcun altro e, dato che la consapevolezza della mia identità era precaria, cercavo di assecondarlo, ma senza riuscire mai a essere la persona che desiderava. Dopo il divorzio e altre sofferenze sentimentali, capii che ero attratta da uomini che non mi rispettavano e che volevano dominarmi e quindi cominciai a evitare di proposito gli uomini da cui ero attratta.
    Il principio buddista di non dualità della vita e dell’ambiente mise la mia infelice esistenza emotiva nella giusta luce. Avevo continuato a scegliere il riflesso della mia insicurezza e della mia scarsa autostima: il Principe Azzurro poteva cambiare la sua maschera, ma il dramma interiore rimaneva lo stesso. Ho immaginato allora che avrei incontrato un uomo che mi avrebbe rispettato per il Budda che sono in realtà ma non immaginavo quanto tempo sarebbe stato necessario per sviluppare il mio “vero io”.
    Per più di vent’anni ho praticato con fede e ho sperimentato immense trasformazioni in ogni settore, tranne che nella mia vita affettiva. Dove erano finiti tutti gli uomini? Era un deserto. Ogni nuova possibilità si rivelava un miraggio. Nel Buddismo di Nichiren impariamo che nessuna preghiera rimane senza risposta, quindi dov’era la risposta alla mia? Però, dopo dieci anni di pratica buddista, mi ero scoraggiata. Forse avrei dovuto andare a caccia di uomini invece di svolgere le attività buddiste. Avevo perso il mio tempo? Incontrai la responsabile nazionale della Divisione donne in Giappone e le aprii il mio cuore. La sua risposta fu: «Potresti anche non sposarti mai». Piansi a lungo: nessuno me lo aveva mai detto. Ma poi aggiunse: «Se porti a termine la tua missione come bodhisattva, alla fine della vita sarai completamente realizzata, che tu sia sposata oppure no». Mi disse infine di recitare Daimoku fino a percepire che era proprio così. Mi ci sono voluti circa tre mesi. Alla fine ho compreso che la vera vittoria non era il matrimonio. Ho sentito un grande senso di realizzazione che mi sarebbe appartenuta se avessi vissuto come un bodhisattva e non ho più avuto attacchi di solitudine.
    Ma continuavo a desiderare un compagno. Avevo l’assillante sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato in me, perché ero sui cinquanta e nessun uomo mi aveva scelto. Poi sentii il presidente Ikeda affermare che molte delle donne che nella storia hanno realizzato grandi cose non erano sposate. E che, ugualmente, molte persone sposate non erano più felici di quelle sole. Gradualmente compresi che andavo bene esattamente così com’ero. Le sue parole mi aiutarono a eliminare lo stereotipo patriarcale della “vecchia zitella”.
    Poi mia madre, che adoravo, è morta: attraverso la recitazione ho trasformato la mia relazione conflittuale con mio padre e ho trovato in me la compassione per stimolarlo a continuare a vivere senza di lei (vedi Una sana collera a pag. 13, n.d.r.). Invece di etichettarlo come l’ennesimo maschio dominatore, ho visto la sua parte migliore e, in questo processo, ho percepito che stavo cambiando il mio karma negativo con gli uomini. In quel periodo Matilda Buck, responsabile donne della SGI-USA mi disse: «Ginny, credo che lo incontrerai grazie alla “buona fortuna”». La sua compassione mi ha commosso, e compresi che la mia missione comprendeva il sogno di una relazione intima soddisfacente. Con questi due cambiamenti – credere nel potenziale di Budda di mio padre, e per estensione nel potenziale di altri uomini, e capire la natura specifica della mia missione – ho continuato a recitare per una relazione. Ho sviluppato un forte senso dell’io basato sulla fede e, di conseguenza, tutte le mie relazioni hanno assunto maggiore profondità.
    Nell’aprile 2004 salii su un aereo diretto in California. Seduto al mio posto, convinto che fosse il suo, c’era la mia anima gemella, Don. Parlammo, ridemmo e ci aprimmo l’un l’altro per tutto il viaggio fino a Los Angeles, dove lui viveva. Tutto ciò che lui ama di me l’ho sviluppato attraverso la mia pratica buddista. Lui pensa che io abbia una radiosità interiore e so che questo deriva dagli anni di recitazione di Nam-myoho-renge-kyo. È interessato al mio lavoro al Centro ricerche per la pace e rispetta la mia dedizione a esso. Ha abbracciato il Buddismo e apprezza il calore della comunità buddista. Nel settembre scorso stavo volando a Minneapolis per incontrare la famiglia di Don. Ho cambiato aereo a Chicago, e Don inaspettatamente è salito sul mio volo. Sorridendo, ha detto: «Questa volta, sei tu quella seduta al posto sbagliato». Comportandosi proprio come il Principe Azzurro, mi ha guidato verso un posto riservato e mi ha chiesto di sposarlo. Don si è trasferito a Boston. Recentemente, Don ha incontrato Matilda Buck in California e le ha detto: «Io sono il signor “Buona Fortuna”». Mi ha detto che l’espressione di pura gioia sul viso di lei, lo ha persuaso dei legami altruistici che le donne creano all’interno del nostro movimento.
    Riflettendo sul mio viaggio interiore per trovare il signor Buona Fortuna, sono commossa dai meccanismi profondi della preghiera buddista. Come ha detto il Presidente Ikeda: «Ci sono molte implicazioni in una preghiera che aspetta una risposta, ma la cosa importante è continuare a pregare finché non arriva. Continuando a pregare, puoi riflettere su te stesso con incrollabile sincerità e iniziare a muovere la tua vita in una direzione positiva lungo il sentiero dello sforzo serio e costante. Anche se la preghiera non produce risultati concreti subito, la tua preghiera costante a un certo momento si manifesterà in una forma più grande di quanto tu abbia mai sperato» (For Today and Tomorrow, pag. 98).

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    Il Centro ricerche per il XXI secolo di Boston (BRC)

    È un istituto internazionale che ha come scopo la creazione di una rete mondiale di cittadini globali in grado di sviluppare una cultura di pace attraverso il dialogo e la comprensione reciproca.
    È stato fondato nel 1993 dal presidente della SGI, Daisaku Ikeda, il quale ne ha dettato i tre principi ispiratori: 1) essere il nucleo di una rete di cittadini globali; 2) essere il ponte per un dialogo fra le civiltà; 3) essere il faro che illumina la via del nuovo secolo. Ha sede a Cambridge, Massachussets, proprio accanto all’Università di Harvard.
    Il Centro promuove il dialogo fra studiosi, specialisti ma anche comuni cittadini impegnati di ogni nazionalità e credo religioso sui valori umani che travalicano le differenze fra le varie culture e religioni allo scopo di costruire un’etica globale per un ventunesimo secolo di pace, stabilendo relazioni di scambio e collaborazione con istituzioni universitarie e associazioni civili di tutto il mondo.
    Diritti umani, nonviolenza, etica ambientale, giustizia economica, ruolo guida delle donne nel processo di costruzione della pace, sono state durante questi anni le tematiche fondamentali su cui il Centro si è impegnato.
    Il BRC patrocina dibattiti pubblici, seminari educativi, conferenze, tavole rotonde, mostre a tema, sui temi del dialogo interreligioso, dell’etica ambientale e della cultura della pace, con particolare accento sul ruolo cruciale che in essa possono svolgere le donne. Su questi temi cura anche la pubblicazione di libri che negli Stati Uniti vengono adottati come testi in numerosi corsi universitari.
    Nel 1997 il Centro ha collaborato alla stesura della Carta della Terra, in cui si prefigurano e si progettano culture, società, comunità, e anche individualità, basate su un’etica di rispetto e consapevolezza dell’interdipendenza reciproca degli individui e dell’ambiente.

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