La pratica buddista ha accompagnato e guidato la sua carriera di attrice, ricordandole che più importante del successo è la capacità di usare i propri talenti e anche i propri difetti per dare gioia agli altri
Maria Amelia Monti, attrice brillante, spazia fra teatro, cinema e televisione. Pratica il Buddismo dal 1986. Dal 2003 sta portando nei teatri italiani Ti ho sposato per allegria di Natalia Ginzburg.
Redazione: Perché il Buddismo e quando hai cominciato?
MARIA AMELIA: A Napoli nell’86, per la mia prima trasmissione televisiva importante, si era creata una situazione disastrosa, il regista ci teneva lì ma non si registrava. Tutti che piangevamo, tutti lontani da casa. Fu allora che Lucia Vasini mi disse: «Prova a praticare, ti fa benissimo. Ti metti lì contro il muro, fai Nam-myoho-renge-kyo e vedrai che la situazione si capovolge». In realtà non avevo capito cosa volesse dire, mi serviva solo a darmi un aggancio con la forza della vita, ma dall’86 non ho più smesso.
I primi anni mi dava fastidio andare nei gruppi, e facevo Gongyo da sola. Voglio dire che ho iniziato in modo assolutamente istintivo, come una bambina o un vitellino che succhia il latte e non si chiede se è allergico: se ci sono le vitamine, lo ciuccia e intanto cresce. Anche se ero un po’ distaccata dall’organizzazione, ne parlavo a tutti: mi veniva naturale. E iniziai questo viaggio meraviglioso, pieno di benefici straordinari, molto più di quello che uno può intuire, ma pieno anche di lotte con se stessi, di difficoltà.
Redazione: Quali difficoltà?
MARIA AMELIA: I primi cinque anni praticavo perché il mio compagno risolvesse i suoi problemi di droga, ma non riuscivo a immaginare di praticare per la mia felicità. Pensa a che livello ero! Ho dovuto cominciare a rispettarmi, a sentire il valore della mia vita, ma ci ho messo tanto. Dopo quella storia passai due anni di vuoto pneumatico dal punto di vista maschile e se trovavo qualcuno, questo era la gigantografia del mio problema, persone squilibrate, insicure, ecc. Per un bel po’ di risultati ne ho visti davvero pochi. Continuavo a praticare per essere felice sentimentalmente, e più insistevo più mi si sgretolava tutto. Un giorno davanti al Gohonzon mi sono detta: «Almeno avere un segnale… vorrei trovare un quadrifoglio per capire che sono sulla strada giusta. Un segnale piccolo, mi tranquillizzo e vado avanti». Poi cominciai a guardare in tutti i prati e non trovavo niente. Però continuavo a guardare e un giorno a Milano in piazza Vetra, abbassai la testa e trovai 20 quadrifogli tutti insieme. Forse è una stupidaggine, però rappresenta un po’ come funziona la pratica. Ci sono dei momenti bui come l’undicesimo giorno, bisogna fidarsi e avere la fortuna di continuare a praticare perché il Gohonzon ti dà molto di più di quello che tu non riesci nemmeno ad intuire. [«…il viaggio da Kamakura a Kyoto dura dodici giorni: se viaggi per undici giorni e ti fermi quando ne manca uno solo, come puoi ammirare la luna sopra la capitale?» (Lettera a Niike, SND, 4, 245), n.d.r.]. Tra l’altro io da quel giorno lì continuo a trovare quadrifogli, chiedilo ai miei bambini!
Redazione: Ma ti sei poi avvicinata all’organizzazione?
MARIA AMELIA: Sì, dopo i primi due anni sono sempre andata alle riunioni, ho fatto attività al Centro culturale, ho aperto la casa per le recitazioni. Ora non c’è più divisione fra attività e vivere. Se apro la casa, se vado allo zadankai, mi sembra che sia la vita. Non lo vedo come: «Mi sforzo di offrire la casa così ho il beneficio». Mi appare naturale, e spesso mi trovo ad aver voglia di fare un’ora di Daimoku per il settore (e non lo dico per farmi bella). Desidero che tutti abbiano esperienze forti, da sentire veramente che fa bene praticare. Questo per me è un bel risultato.
Fra l’altro ho fatto shakubuku a tutto il vicinato, qui intorno ci sono altri tre Gohonzon. Tempo fa c’è stata in contemporanea una recitazione e una riunione condominiale nello studio di mio marito, con un incrocio di persone che hanno sbagliato stanza che è stata una roba… altro che le mie sit-com con Gerry Scotti! Trovo bellissimo avere i vicini di casa che praticano: si fa Gongyo insieme, ma non lo vedi più come “attività”, ma come un modo di stare insieme.
Redazione: Puoi dirci qualcosa del rapporto con i tuoi figli?
MARIA AMELIA: All’inizio avevo problemi grossissimi perché mi facevo un filmino di come dovesse essere una mamma. Poi siccome io non corrispondevo a quel filmino, mi ritrovavo con delle frustrazioni tremende. Ad un certo punto mi hanno detto: «Non ti devi trasformare, non devi eliminare, ma illuminare quello che sei».
Una sera ero di ritorno da una tournée, e i bambini piccoli se stai via una settimana te la fanno pagare a forza di capricci. Invece di star bene con loro in quell’unico giorno libero, mi ero innervosita parecchio. Io urlavo, loro piangevano. Allora mi sono detta: «Mi voglio illuminare per quello che sono, con tutti i miei difetti e le mie caratteristiche». Ho recitato Daimoku per un’ora, poi sono andata in cucina per cenare. Mentre mangiavo la bambina mi è saltata al collo, e a me dà un fastidio… Feci esattamente l’opposto di quello che avevo appena determinato e cominciai a urlare: «Ora bastaaa!» come penso di non aver mai fatto in vita mia. Appena smisi di strillare tutti scoppiarono a ridere con le lacrime agli occhi: avevo talmente esagerato che avevo messo il buonumore a tutti! Allora credo di aver capito cosa vuol dire illuminarsi. Vuol dire dare comunque gioia. Se uno chiede al Gohonzon di dare gioia per quello che è, riesce. Se invece chiede di dare gioia per quello che pensa sia dare gioia è frustrato, perché non ci riesce. È una continua lotta, ma in realtà poi ti rendi conto che è un viaggio meraviglioso, perché in un certo senso fai la tua rivoluzione umana senza nemmeno accorgertene.
Redazione: Dicevi che ti veniva naturale parlare agli altri di Buddismo, vero?
MARIA AMELIA: Io ho fatto tantissimo shakubuku, anche in situazioni magari da evitare! Forse l’importante è anche un po’ prendersi in giro. Se tu dici: «Scusa, sono fanatica, te lo voglio proprio dire, poi vedi tu», l’altro si ammorbidisce e ti sopporta. Se ripenso a tutte le situazioni, magari in aereo a degli sconosciuti… Mio zio aveva il morbo di Alzheimer, andai da lui a Milano e gli dissi: «Devi fare questa cosa». Gli scrissi Nam-myoho-renge-kyo su un foglietto e tornai a Roma. Dopo una settimana mi chiamano i miei arrabbiatissimi: «Ma cosa hai fatto allo zio? L’altro giorno sono arrivati dei clienti giapponesi e lui li ha messi sul terrazzino a fare Nam-myoho-renge-kyo! Ora gira con questo foglietto e lo fa fare a tutti». Io andavo come un treno, con una spregiudicatezza quasi comica.
Redazione: Come vedi il rapporto tra la tua pratica e il tuo lavoro di attrice?
MARIA AMELIA: Praticare mi aiuta a difendermi un po’ da me stessa, perché col mio lavoro è facile montarsi la testa. In teatro, per esempio. È difficile che dieci idraulici aggiustino lo stesso lavandino, invece è normale che dieci attori facciano lo stesso spettacolo. Allora è necessario ricordarsi che tutti devono stare bene, che devi rispettare gli altri: è lì che vinci. Anche se non è immediato e naturale, la regola è semplicissima ed efficace: se tu dai agli altri, ti torna tutto indietro. Ma sulla scena o davanti alla telecamera è facile illudersi e pensare: «Se metto in ombra l’altro, esco più io». Il farmi notare questa cosa è un regalo tremendo che la pratica mi fa.
E poi la pratica mi aiuta anche nei momenti di stanchezza. Come quando a teatro fai 300 volte lo stesso spettacolo, e arrivi magari alla domenica pomeriggio, che di solito ci sono le signore anziane e la platea ti sembra uno schermo pieno di riflessi per via di tutti i loro occhiali da vista… Basta, io ho solo voglia di prendere il treno e tornare dai miei bambini! Sentire invece che puoi alzare lo stato vitale a 500 persone che hai davanti, ti dà un’energia… che tu riesci a dare e che poi alla fine ti torna indietro. Ho imparato che la gratitudine, e riuscire a lodare prima che a criticare – anche a lodare se stessi pur senza compiacersi dei propri difetti – sono chiavi straordinarie.