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Comprendersi al di là delle parole - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:41

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    Comprendersi al di là delle parole

    Due donne, Valentina e Cristina, raccontano la loro esperienza nel mondo della sordità. Valentina progetta di aprire una scuola dove i bambini sordi si possano esprimere liberamente e Cristina conferma attraverso la sua storia che la pratica buddista è un linguaggio universale che arriva al cuore di tutti

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    Due donne, Valentina e Cristina, raccontano la loro esperienza nel mondo della sordità. Valentina progetta di aprire una scuola dove i bambini sordi si possano esprimere liberamente e Cristina conferma attraverso la sua storia che la pratica buddista è un linguaggio universale che arriva al cuore di tutti

    Incontrai la pratica nel 1997 a ventidue anni. Dopo otto mesi partecipai alla mia prima riunione e da quel momento non smisi più di recitare Daimoku. Ricevetti il Gohonzon dopo un anno; mi proposero subito di diventare responsabile di gruppo e io accettai con grande entusiasmo. La mia avventura per kosen-rufu era iniziata e percepivo chiaramente la fortuna di aver incontrato il Buddismo così giovane.
    Da quasi tre anni vivevo sola per forti incomprensioni con la mia famiglia, ero iscritta alla facoltà di Lettere moderne da cinque anni e avevo dato cinque esami, e facevo un lavoro per me fonte di facili guadagni e divertimento che mi teneva lontano da casa senza troppa fatica. Mi divertivo ma non concludevo molto per la mia vita, facevo molte esperienze con la pratica ma mai nessuna veramente fondamentale.
    Così facendo arrivai fino agli inizi del 2000. In occasione della riunione del 16 marzo decisi di mettermi uno scopo nuovo: capire quale fosse la mia missione nella vita. Per me era una cosa difficilissima; non avevo mai recitato Daimoku per qualcosa di così astratto. Recitai tantissimo e mi buttai nell’attività buddista e decisi che avrei raccontato la mia esperienza durante una riunione per il 16 marzo.
    Per prima cosa sentii che prima di tutto dovevo mettere un punto nella mia vita… Il punto con la P maiuscola sarebbe stato finire l’università e in fretta. Mi mancavano dodici esami. Con grande sforzo chiesi a mio padre di essere aiutata finanziariamente nell’arco di tempo che mi sarebbe servito per studiare e lui accettò. Non era la prima volta che gli chiedevo aiuto e soprattutto che gli promettevo una svolta nella mia vita ma desideravo che questa fosse l’ultima.
    Quell’anno mi trasferii a Livorno per sei mesi: la persona con cui avevo una relazione sentimentale, difficile e tormentata, doveva vivere lì per motivi di lavoro e io lo seguii senza grandi riflessioni. Una persona amica, incoraggiandomi in un momento di sofferenza, mi fece riflettere: «Fino ad oggi hai realizzato belle esperienze con la pratica, ma a parte quella che riguarda i tuoi genitori, hanno tutte attraversato la tua vita senza lasciare un segno tangibile». Rimasi di sasso… era vero! Nella mia famiglia avevo creato da zero un rapporto con mio padre che detestavo e che ora adoro, e parlato della pratica a mia madre che ha ricevuto il Gohonzon quattro anni fa e alla “tenera età” di sessantanove anni ha finalmente trovato il coraggio di percepire il suo valore profondo. Ma oltre a questo in quei tre anni tutte le esperienze che avevo fatto non avevano profondamente cambiato la mia vita. Era come se avessi utilizzato la pratica per vivere meglio e non per vincere risolutamente.
    Una frase del presidente Ikeda mi diede un’altra occasione di capire che dovevo muovermi: «Fede significa vincere. Il vero vincitore è colui che ottiene la vittoria definitiva». Le parole di quell’amica e quelle di Ikeda spaccarono in due la mia sofferenza e mi diedero il coraggio che mi serviva.
    In un anno sostenni nove esami spostandomi fra Livorno e Roma, non senza ostacoli: la persona con cui vivevo aveva dubbi sulla nostra relazione un giorno sì e uno no e andando profondamente controtendenza riuscivo ogni volta a non farmi intrappolare da quei meccanismi che in passato sarebbero stati l’alibi giusto per non studiare. Nel marzo 2001 lui mi lasciò e la mia paura dell’abbandono mise un grande freno alla mia determinazione. Ricevetti una nuova proposta di lavoro legata al mio passato: quel lavoro facile, divertente e con buoni guadagni e non potendo dare altri esami nella sessione estiva per problemi tecnici, accettai. Tornai a Roma e in un continuo tira e molla in quella relazione sentimentale che non finiva del tutto passarono l’estate e l’autunno, fino a che mi lasciò definitivamente la sera di Capodanno. Rimasi sola a casa e a mezzanotte, singhiozzando per il dolore, recitai un Gongyo di “fuoco” per l’anno che si affacciava e decisi che non avrei mai più sofferto così per qualcuno e che nessuno avrebbe mai più condizionato la mia vita! Ero un Budda perfettamente dotato e il mio valore era illimitato. Meritavo di più!
    Da quel Gongyo, con quella determinazione, la mia vita cambiò in modo definitivo. Dopo quattro giorni rincontrai una persona già conosciuta in passato ma sempre nei momenti sbagliati. Quando si dice il ritmo, eh!
    Iniziammo a frequentarci da amici; dopo un mese la nostra relazione divenne amore. Oggi Fabio, è la persona con cui vivo la relazione sentimentale più sana della mia vita; da un anno e mezzo, anche lui ha iniziato a recitare Daimoku e Gongyo, conviviamo e abbiamo appena firmato un mutuo a venticinque anni per la nostra casa. Le mie debolezze del passato sono diventati i miei punti forti.
    Ripresi la mia corsa all’università senza ancora sapere dove mi avrebbe portato. Da gennaio a giugno diedi tre esami più quello di lingua inglese e scrissi la tesi in cinque settimane, continuando a fare attività e dedicandomi alla nuova relazione che nasceva. Uscivo la sera, passavo week-end al mare portandomi dietro il computer per scrivere la tesi e recitavo, recitavo, recitavo. Nel luglio del 2002 mi sono laureata.
    Mentre scrivevo la tesi mi fu improvvisamente tutto chiaro: dal profondo della mia vita emerse un desiderio profondo di quello che volevo diventare nella vita. Per la prima volta sapevo chi volevo essere da grande, e non era un’idea nata così come tante ne avevo avute in passato… questa volta ero certa: volevo lavorare con i bambini sordi. A chi ancora mi chiede com’è successo rispondo che solo chi recita Daimoku e si affida a questo Buddismo può capire cosa accade quando la decisione è profonda e il cuore e la mente sono aperti al cambiamento senza paura. Non ho ricordi precisi di aver prima di allora mai pensato alla sordità, neanche io sapevo dargli una spiegazione razionale ma ormai ero certa.
    Ovviamente non sapevo da che parte cominciare: mai conosciuta una persona sorda, mai saputo quali fossero le istituzioni legate alla sordità: non importava, il Daimoku mi avrebbe dato la risposta, e così fu. Durante il pranzo per il compleanno di Fabio, un mese dopo la laurea, sua zia mi disse di essere una grandissima amica di una persona presso un Istituto polo per la sordità a Roma. Tutto cominciava a prendere forma e ritmo, collegandosi. La persona che aveva segnato la trasformazione del mio karma sentimentale mi offriva anche l’occasione che aspettavo. A settembre incontrai quella persona nell’Istituto che mi propose uno scambio alla pari: avrei frequentato il corso LIS di I livello e lavorato lì qualche ora a settimana per pagarmene la metà. E così ho frequentato i primi tre livelli, inizierò i due anni di corso interpreti e sono regolarmente assunta con un buonissimo stipendio.
    Ma non era ancora tutto al suo posto. Volevo lavorare con i bambini sordi nella scuola, e in futuro aprire un nido e una materna per bambini sordi e udenti. Mi scontrai con la burocrazia, che faceva di me laureata in Lettere, una persona senza titolo per l’insegnamento. Altra rimboccata di maniche, altro sforzo. Da quel settembre a luglio 2003 preparai cinque anni in uno di un liceo che mi avrebbe consentito di avere un titolo di studio per essere inserita nelle graduatorie dell’insegnamento e a luglio 2003, già laureata, diedi l’esame di maturità. Quello stesso anno, a marzo, come avevo deciso raccontai la mia esperienza al Centro. Fu un’emozione fortissima.
    Più lavoravo nell’Istituto più ricevevo conferme su quanto fosse importante per un bambino sordo poter utilizzare nel suo percorso scolastico la Lingua dei Segni, la sua lingua madre. Il bilinguismo era quello che volevo realizzare nella scuola che avrei aperto. Oggi una persona cura per me il lato burocratico di questi progetti. Sto aspettando l’apertura di un bando per un sostanzioso finanziamento a fondo perduto che mi servirà per mettere in piedi la scuola bilingue di cui ho preparato un lungo progetto. Sempre grazie al giusto ritmo ottenuto con la recitazione di Daimoku, il municipio della mia zona mi ha proposto una struttura nel parco davanti a casa mia.
    Quando nel 2003 ho partecipato al meeting europeo dei praticanti sordi al Centro di Milano è stato come se il cerchio si chiudesse: quello che mi aveva portato al mondo dei sordi e quel mondo stesso, uniti sotto la stessa idea.
    Realizzare kosen-rufu attraverso la nostra rivoluzione umana significa sfidare ogni nostra paura, e lottare con coraggio facendo di ogni limite un punto forte su cui basare la nostra vittoria. Questo mi ha insegnato il Buddismo e questo tutti i giorni mi insegnano le persone sorde con cui lavoro o pratico o vivo.

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    Il suono dell’universo

    Sono nata sorda profonda a Belluno, una piccola e splendente città veneta alle porte delle Dolomiti, e la mia casa guardava sull’azzurro fiume Piave. Ero felice, ignara della mia sordità, correvo tra gli alberi, giocavo con gli uccellini, farfalle, lucertole, lumache e di notte non avevo paura perché c’erano le stelle e la luna, le mie amiche, non mi sentivo sola, ammiravo le meraviglie dell’universo ed ero circondata dall’amore dei miei cari.
    Poi, a tre anni, all’improvviso mi trovai sola in una sconosciuta città, grigia e ferita dalla guerra; erano gli anni Cinquanta e non capivo perché ero lì a Milano. Senza mamma che era l’unica che mi capiva, senza libertà di muovermi, mi sentivo prigioniera come un uccellino in una gabbia.
    Ero alla scuola speciale per sordomuti, per imparare a parlare.
    Per parlare mi “costringevano” a far uscire la voce, il suono che non mi piaceva, invocavo inutilmente mia madre che non c’era e infine invocavo fra me e me una frase incomprensibile che mi dava un po’ di conforto… non sapevo cosa fosse e continuai a farlo fin quasi a dieci anni.
    Un pomeriggio, dovevo avere cinque o sei anni, ero in bagno, sola a riflettere e chiedermi disperatamente perché ero a Milano che non mi piaceva e senza mamma e perché ero sorda e costretta a parlare. Forse prima di essere nata sentivo e parlavo come tutti? Da dove venivo, dove andavo?
    Nessuno sapeva darmi la risposta… ebbi il pensiero di togliermi la vita perché non ce la facevo più così, senza un senso e la mia vita stessa era un incubo anche per via della presenza in casa di mia zia, dove vivevo, di un uomo che mi molestava. Poi non so come capii che ero qui per una “prova”: forse avevo fatto l’errore in un’altra vita di non “ascoltare” qualcosa di importante ed ero “diventata” sorda per questo?
    Infine decisi di dimostrare la capacità di superare il limite della mia sordità, di dare la felicità agli altri col sorriso e non pensare mai più al suicidio che avrebbe fatto soffrire tutti e specialmente mia madre.
    Con questa decisione superai tanti ostacoli, sempre col sorriso sulle labbra. Come prima cosa accettai di imparare a parlare. Crescendo, terminai il liceo artistico in una normale classe di udenti senza bisogno di sostegno, mi diplomai all’Accademia di Belle Arti, diventai campionessa d’atletica, feci una mostra personale con i miei quadri, mimo, yoga… ma lì non trovai quello che cercavo e non sapevo cos’era… Trovai anche un bel lavoro alla RAI come aiuto scenografa, superando molti problemi di comunicazione con i colleghi. Mi sposai e nacque Mirto, mio figlio. Ma poi, con la separazione da mio marito e la morte di alcuni dei miei parenti più cari la mia vita precipitò in un tunnel nero.
    Facevo un bel programma educativo per i piccoli, L’Albero Azzurro, ma dopo due anni regnava un forte malcontento fra colleghi, tutti erano nervosi e urlavano, l’unica che nonostante l’atmosfera difficile lavorava sempre col sorriso era la presentatrice, l’attrice Francesca Paganini. Gli occhi luminosi, come due diamanti. Quando una volta mi avvicinai a lei per chiederle del suo segreto Francesca mi parlò del Buddismo di Nichiren Daishonin. Era il 1992. Non fu un caso se Francesca mi convinse a praticare grazie alla luce che emanava dai suoi occhi, invece che tramite le solite parole. Forse se mi avesse parlato, non l’avrei ascoltata.
    Quando per la prima volta recitai Daimoku sentii un colpo al cuore, non ne capivo il motivo, ma ero felicissima come se avessi trovato il tesoro che cercavo da tempo; infine mi resi conto che quella strana frase mi ricordava proprio quella che ripetevo io da piccola. Gongyo invece mi sembrava cosa troppo complicata per i sordi ma poi mi ricordai la promessa fatta da piccola ed incoraggiata anche da Micaela, un’amica non udente come me che si era avvicinata al Buddismo e oggi è responsabile di capitolo a Milano, superai anche quel limite!
    E capii finalmente che il suono fa parte dell’universo ed è l’origine della vita, potendo accettare così anche la mia voce come una parte del mio corpo.
    Anche noi sordi siamo in questo mondo per poter essere, come afferma nel Sutra del Loto, «felici e a proprio agio»!
    Da qualche tempo sono tornata a vivere a Belluno, la mia città d’origine dove ho la gioia di contribuire a diffondere il Buddismo come responsabile di un gruppo.
    Oggi ringrazio la sofferenza che mi ha permesso di sviluppare sensibilità e desiderio di ricercare il senso della vita e della morte, fino a incontrare questa pratica che ci rende capaci di far emergere la forza vitale necessaria per condurre un’esistenza meravigliosa e ci dà la consapevolezza di essere tutti noi già Budda, così come siamo!

    Cristina Quarti

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    Fra gli scopi anche un meeting europeo

    Il gruppo sordi e udenti dell’Istituto Buddista. È un gruppo di venticinque buddisti, sordi e udenti (educatori,insegnanti, parenti dei sordi) sparsi un po’ in tutta Italia che si occupa principalmente di organizzare incontri nazionali per buddisti sordi ed udenti. Finora ne sono stati realizzati quattro, di cui il primo a Milano nel dicembre 2003 con ospiti membri sordi francesi e inglesi.
    Gli scopi del gruppo sono:

    • sostenere la pratica dei simpatizzanti e dei membri sordi tramite la presenza degli interpreti Lis (lingua dei segni) e la sensibilizzazione dei membri del gruppo;
    • sperimentare la pratica buddista come consapevolezza dell’handicap uditivo e non più come limite, ma come diversità da rispettare e apprezzare;
    • sperimentare come Nam-myoho-renge-kyo funzioni nella vita di ognuno di noi oltre i cinque sensi, al di là dei quali il cuore si apre e inizia il vero ascolto della vita interiore;
    • attivare la funzione di bodhisattva per i sordi e gli udenti, coinvolgendo sordi e udenti in prima persona;
    • organizzare un meeting a livello europeo per membri sordi, e udenti che li sostengono, invitando i membri sordi giapponesi.

    Se sei sordo, puoi contattarci per trovare altri buddisti che conoscano la Lingua Italiana dei Segni e che possano aiutarti a seguire meglio le riunioni. Se conosci la Lingua dei Segni o la stai studiando e vuoi fare attività, mettiti in contatto con noi.

    Nord: Micaela Pini, sms 347 2433060 email mipini23@tiscali.it
    Centro: Barbara Pennacchi, fax 06 44290400 email pennacchi@cyberdeaf.org
    Sud: Stefania Scafa, cell 347 8059478 email stefania.scafa@uniroma1.it

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