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La missione del "coniglio" - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 15:36

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    La missione del “coniglio”

    Il primo beneficio della pratica buddista per una persona multiforme e complessa è una sorta di riunificazione dei vari aspetti di se stesso. Dal viversi come un puzzle al cominciare a sentirsi “il centro della propria vita” e trasmettere con naturalezza questo stato vitale agli altri anche attraverso il mezzo radiofonico e televisivo

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    Il primo beneficio della pratica buddista per una persona multiforme e complessa è una sorta di riunificazione dei vari aspetti di se stesso. Dal viversi come un puzzle al cominciare a sentirsi “il centro della propria vita” e trasmettere con naturalezza questo stato vitale agli altri anche attraverso il mezzo radiofonico e televisivo

    Uomo di teatro a tutto tondo, attore ma soprattutto autore e sceneggiatore. Antonello Dose ha ideato e condotto vari programmi radiofonici e televisivi. Storico conduttore della trasmissione radiofonica mattutina Il ruggito del coniglio su Radio 2, attualmente presenta insieme a Marco Presta il programma satirico televisivo Dove osano le quaglie su RAI tre.

    Redazione: Come ti ha aiutato la pratica buddista?

    ANTONELLO: Questa è una domanda da un milione di dollari! Ero stato a una riunione di discussione e il giudizio era stato: «Carucci, ma io non ho bisogno di fa’ ‘ste cose, perché dopo anni di teatro sperimentale so già come concentrarmi». Poi, 15 anni fa, mentre ero a Milano per il mio primo lavoro in tv, mi informarono che il mio ex compagno Piero, malato di AIDS, si era aggravato. Così provai a fare la mia prima ora di Daimoku sulla moquette orrenda – che ho ancora viva negli occhi – del posto dove dormivo, anzi, dove non riuscivo a dormire per la sofferenza. Allora l’AIDS era una malattia “maledetta”, non se ne poteva neanche parlare. La prima sensazione fu che la mia mente si “sciogliesse”, anche se il problema era sempre lì. E cominciai a studiare questo “esercizio” per cinque ore al giorno come ero abituato a fare con le tecniche di attore. Non avevo letto un Gosho, non sapevo nulla di nulla. La cosa curiosa è che dopo questo primo milione di Daimoku (cinque ore al giorno per un mese e mezzo), mi chiama il mio collega e amico Marco Presta (nella foto di pag. 10 con Chiara Noschese, n.d.r.) perché Enrico Vaime ci voleva come suoi assistenti al Festival di Sanremo di quell’anno. «Ma guarda che strano! Col teatro sperimentale finora non sapevo come sbarcare il lunario e ora, dopo questo strano esercizio di “cantare il mantra” mi succedono “‘sti colpi di fortuna”». Da lì iniziai il mio percorso di pratica, e uno dei primi effetti benefici fu una sorta di riappacificazione con me stesso. Io, attore, gay irrisolto, di cultura cattolica, friulano trapiantato a Roma, mi ero sempre vissuto come un puzzle frammentato: c’era l’Antonello che lavorava, il figlio, il fratello, l’amico ecc. Recitando ho iniziato a unificare tutti questi aspetti, cominciando a sentire che la mia vita ero io e solo io ero il centro dei miei eventi. La realtà dipende dalla mente. Per dirla alla Megan Gale della pubblicità: «Tu sei la stela e il mondo ggira intorno a te!». Adesso questa frase ogni tanto me la sparo per incoraggiarmi e incoraggiare le persone sulla natura di Budda, per dire “sèntitici” che c’hai del valore! (Anche senza cellulare ultimo modello!)

    Redazione: Qual è stata finora la tua lotta decisiva?

    ANTONELLO: Di fronte a una battaglia per la vita o per la morte saltano tutti i punti di riferimento, non vale più la pena di leggere un libro, vedere gli amici, tanto il tempo a disposizione è quello che è. Devo dire che mi ha salvato l’attività, in particolare fare il soka-han. Quando la domenica c’erano grandi riunioni si attaccava alle sette di mattina con un’ora di Daimoku, per staccare la sera quando si poteva. Così ho ritrovato la gioia di vivere, di sfidarmi. Fondamentale è stata pure una guida dell’allora direttore generale Mitsuhiro Kaneda, di cui mi rimasero impressi due consigli. Il primo era di “approfondire l’eternità della vita”. Kaneda ripeté tante e tante volte la parola “approfondire” (io mi aspettavo ricette precise del tipo “fai tre ore di Daimoku e studia il Gosho prima e dopo i pasti”). Il secondo consiglio fu di “decidere di utilizzare la propria vita per kosen-rufu” nonostante i difetti o le problematiche perché – mi spiegava – spesso l’atteggiamento è ribaltato: “Quando starò bene, quando avrò una bella casa, un bel lavoro, una bella famiglia… allora realizzerò kosen-rufu”. Al contrario la decisione per realizzarsi è “io farò kosen-rufu comunque, e per questo chiedo al Gohonzon di guarire o di avere le cose che mi possono permettere di vivere tranquillamente, per portare fino in fondo questa missione”. E poi aggiunse che la traduzione giapponese del termine “missione” è shi-mei che significa “usare la vita”. Io ho solo cercato di usare questa straordinaria organizzazione come una palestra di vita e sono pieno di gratitudine per tutte le persone che mi hanno sostenuto. Attraverso lo sforzo di affidarmi al Gohonzon ho ritrovato la gioia di vivere, di apprezzare quello che ho. Si danno molte cose per scontate, di avere due gambe, di vederci, di avere acqua da bere, mentre dovremmo solo essere grati di essere vivi.

    Redazione: Come è legata la tua pratica al tuo lavoro di spettacolo?

    ANTONELLO: Una svolta importante c’è stata quando ho partecipato al primo Corso italiano artisti a Trets. Per anni avevo studiato tecniche di attore, sofisticatissime, ma saltavano fuori solo lavori come autore. Il che era già una bella fortuna, ma mi dispiaceva non fare il lavoro per cui avevo studiato tanto. A Trets presi questa decisione: «Offro la mia vita a kosen-rufu», senza sapere bene che cosa fosse questa idea che suonava come un’utopia. In compenso il mio fu un pensiero veramente sincero e preciso: «Offro tutto, l’allenamento, la sensibilità, gli anni passati a studiare, le esperienze che ho fatto, quello che so fare e quello che non so fare, anche i difetti». Qualche settimana dopo ci fu proposto un programma alla radio. Ma come? Dopo aver studiato per dieci anni il linguaggio del corpo? Era inimmaginabile, e invece è stata la mia fortuna. Una rivoluzione copernicana! Le capacità della mente sono limitate mentre la vita ha un potenziale che va molto al di là. Davvero solo accostandoti con la fede, una fede sincera, puoi spalancare orizzonti nuovi. E quindi, ci ho dato sotto con questo nuovo lavoro! In realtà mi pagano per fare Gongyo mattina. La nostra è una trasmissione basata sul rapporto con gli ascoltatori e mi sforzo di tirare su il mio stato vitale per andare davanti a quel microfono e restituire qualcosa della gioia di vivere conquistata con le unghie e con i denti, giorno dopo giorno. Quando mi arrivano lettere di ascoltatori che mi ringraziano per averli aiutati a iniziare bene la giornata, a superare una malattia, un’operazione o a sopportare il traffico mi commuovo da pazzi. «Guarda qua, questo non sa niente della vita mia ma c’è qualcosa del mio sforzo vitale che gli arriva come incoraggiamento». Questo è pazzesco! Dal punto di vista artistico è una cosa che mi stupisce davvero tanto. Sulla legge di causa ed effetto sono sicuro, non ho dubbi. Ho fatto questo esperimento su di me e così è andata.

    Redazione: Secondo la tua opinione c’è una diversità fra te che fai l’attore e chi fa l’insegnante o il camionista?

    ANTONELLO: Secondo me nessuna. C’è un karma diverso, c’è una missione diversa però ugualmente importante perché unica. Quando mi giro indietro, dico «Io ho fatto tutto questo? Incredibile!» Sono diventato ricco, mi sono comprato una casa. Io “dovevo” fare radio, è inerente alla mia vita. Era una cosa che grazie al Daimoku si è manifestata, perché coincide con la mia missione. Quando scopri che il tuo karma coincide con la tua missione non c’è più niente che sia di per sé un problema. Se penso al lavoro, (la mia casa è piena di regali di ascoltatori: conigli di ogni foggia e dimensione, cuscini, statue, cristalli intagliati a forma di coniglio…) provo un affetto reale per queste persone anche se ancora mi stupisce incontrare il pubblico e sentire che ti vuole bene. È stato curioso per uno molto timido e introverso come me scoprire che la mia vita poteva raggiungere così tante persone. Solo nella Gakkai avevo vissuto cose del genere.

    Redazione: Quale aspetto del tuo percorso di pratica ritieni fondamentale?

    ANTONELLO: Una cosa in cui sono stato molto fortunato è che da subito ho “recitato per gli altri”, cominciando per il mio primo amore che stava morendo. Piero è morto con grande dignità, ha praticato uno degli ultimi mesi. Mi ha insegnato che morire non è poi una così gran tragedia, ma fa parte della vita. Davvero non ho più dolore né malinconia, ma solo gratitudine per la fortuna di aver passato un periodo di vita insieme a una persona così in gamba. Mi ha motivato a dichiarare guerra a questa malattia. Come gay, di famiglia cattolica, mi sentivo sbagliato e pieno di sensi di colpa. Quindi ho lavorato su questo. Cavolo, mi sono detto, perché non anche questo aspetto? Voglio diventare un omosessuale felice! Al mio primo Corso estivo ho conosciuto altre persone gay e scoprimmo che c’era molto interesse intorno alla questione. Ci rivolgemmo a Dadina e la risposta fu: «Io non so, non capisco, ma vi do fiducia». Poi andammo a parlare con tutti i responsabili di Roma per scoprire che non esisteva una gerarchia di responsabili come la immaginavo io. Chiedevamo un permesso e invece ti dicevano «Vuoi fa ‘sta cosa? Falla». C’erano anche delle resistenze, per esempio ci veniva chiesto: «Perché questo bisogno di separarvi?», non riconoscendo fino in fondo, a mio parere, che è la specifica diversità che fa funzionare il principio di itai doshin, diversi corpi una sola mente. Dadina spiegava che è l’unione di diversità, non la somma di molti che permette di realizzare ogni scopo. L’Arcobalena è stata faticosissima perché poco sostenuta da fuori; siamo sopravvissuti a suon di Daimoku, ci vedevamo tutti i sabati per recitare due ore in sostegno delle persone con HIV. Ho un bellissimo ricordo di quegli sforzi. Abbiamo fatto del nostro meglio perché nessuno ce lo aveva chiesto. È stato un grande allenamento.

    Redazione: Perché dici “poco sostenuti da fuori?”

    ANTONELLO: Perché noi chiedevamo: «C’è un responsabile che ci può aiutare?». Quando inizi un’attività nuova hai sempre paura di sbagliare. Prima recitavamo e basta, poi abbiamo cominciato a fare riunioni con esperienze, poi riunioni di studio, ma sempre con un dubbio: «Perché faccio tutto questo? Non è magari una mia ossessione?». Sentivamo però che c’era un’utilità, e infatti un sacco di gente è cresciuta in questo gruppo, che toccava un punto considerato comunemente un disvalore. In seguito, quando nell’organizzazione è circolata l’idea (noi umani siamo bizzarri) che il “bravo buddista” dovesse essere perfetto come nelle pubblicità, che era un problema avere un orecchino o un tatuaggio, curando cioè aspetti formali, mi sono sentito tradito, ma alla fine è stata anche quella un’occasione: ho messo i Gosho in ordine cronologico e li ho riletti tutti quanti in fila. Ho scoperto che Nichiren dice due cose fondamentali: uno che il Tathagata ottiene la Buddità nell’infinito passato, quindi che la vita è eterna e le cose che ci succedono ora sono solo la superficie di qualcosa di molto più profondo che andrebbe percepito attraverso l’eternità della vita. Il secondo concetto su cui il Daishonin insiste è che tutti hanno la Buddità. “Tutti” significa proprio tutti, anche io con tutti i casini che ho. E anche quello che mi sta antipatico o quello che appare completamente diverso da me.
    Comprendere questi due aspetti mi ha regalato una libertà incredibile, che sto iniziando a esplorare per sentirmi “felice e a mio agio” anche davanti a una telecamera. Questo è un mio “nodo” karmico, perché sono davvero un coniglio, timido come la maggior parte dei friulani, anche se faccio un lavoro pubblico. Mi vergogno, mi blocco, e appena ricevo una critica tiro su un muro. Nelle ultime puntate di Dove osano le quaglie ho sperimentato a tratti che era possibile stare sul palco del Teatro Sistina di fronte a millecinquecento persone senza avere “‘sto patema che stringe il cuore e offusca la mente”. Una sera ho pensato: «Ma prima di tutto guardiamoli in faccia… Ciao, io vi saluto, come state?». Ho cambiato ichinen, direzione della mente. Mi sono detto: «Molla ‘sto copione, questa non è una questione tecnica, è una questione di fare un salto di qualità come essere umano», quindi ho mollato tutto e ho recitato Daimoku sabato e domenica a più non posso. Il lunedì delle riprese ero molto più sereno. Sono emotivo di natura ma recitando Daimoku posso migliorare.
    Ci sono sempre nuove sfide. Fra le tante, credo che l’attività Arcobalena vada protetta e sostenuta, e da parte mia farò ogni sforzo perché diventi ufficiale in tutta Italia. Ci tengo molto, perché credo che questa epoca abbia bisogno di armonizzare le differenze. Facciamo le guerre perché ci percepiamo differenti, lavorare per il superamento delle diversità – qualunque esse siano – è una priorità assoluta.
    Durante un viaggio negli Stati Uniti ho saputo che il presidente Ikeda sostiene in Giappone un gruppo GLBT (gay, lesbiche, bisessuali e transgender) da molti anni. Per me è stata una rivelazione fantastica: abbiamo scoperto che quello che abbiamo fatto per istinto, perché poteva essere utile ad altri, veniva fatto da altri compagni di fede sparsi per il pianeta, e addirittura dal nostro maestro. In America vengono organizzati da cinque anni dei corsi GLBT al Centro Culturale in Florida (il Trets americano), a cui il presidente Ikeda invia messaggi di incoraggiamento. Perché nei Paesi dove l’omosessualità è legale le organizzazioni locali Soka Gakkai non fanno altrettanto? È una proposta; sarebbe una grande occasione di shakubuku e di educazione ai diritti umani. Al Gay Pride a S. Diego sei anni fa c’erano membri della Gakkai non omosessuali che sfilavano per sostenere i diritti degli omosessuali, e il presidente Ikeda li ha ringraziati per la loro lotta per i diritti delle persone e della loro dignità, chiunque esse siano.

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