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Scrivere a un condannato a morte - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:55

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    Scrivere a un condannato a morte

    Avviare un dialogo epistolare con uno sconosciuto rinchiuso nel braccio della morte e scoprire il profondo legame con ogni essere umano

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    Avviare un dialogo epistolare con uno sconosciuto rinchiuso nel braccio della morte e scoprire il profondo legame con ogni essere umano

    A Roma, tra novembre 2003 e gennaio 2004, c’è stata la mostra sui diritti umani.
    Quando hanno chiesto chi voleva fare la guida alla mostra, mi sono preparata leggendo il manuale, discutendo con altri praticanti, recitando Daimoku. Speravo di poter fare quest’attività, ma non mi hanno mai chiamato. Sul manuale c’era scritto: «Legate questa vostra attività a un grosso obiettivo personale». Ho ricevuto il Gohonzon a dicembre 2003 e non ho ancora capito fino in fondo come si formulano gli obiettivi e come si “usano” i desideri, così ho tagliato corto: «Voglio l’uomo della mia vita».
    Poi ho visitato la mostra più volte; e la cosa che mi è piaciuta di più è stato non avvertire quell’angoscia, normale quando si parla di cose orrende come quelle che si vedono e si immaginano dai pannelli. Dalla mostra si usciva leggeri, incoraggiati da quel riquadro alla fine di ogni pannello che chiedeva: «Che cosa posso fare io?». Molte delle risposte suggerite erano cose che già facevo, ma ce n’era una che mi ha colpito, “corrispondere con un condannato a morte”. Finanzio da anni Amnesty International ma, per decidere di prendermi la responsabilità di un rapporto con una persona condannata a morte, ci voleva una spinta più forte. Così tra i miei obiettivi del 2004, il primo gennaio, ho scritto che volevo avviare e portare avanti una corrispondenza con un condannato a morte.
    Sono andata a cercare su Internet: ho trovato il sito di un’associazione canadese, The Canadian Coalition Against the Death Penalty, che raccoglie le richieste di corrispondenza di condannati a morte di tutto il mondo, in particolare statunitensi. Ho girato a lungo tra le schede di presentazione dei condannati, accompagnata dal tetro rumore che il sito propone quando cambi pagina: una porta pesante che si richiude.
    Non sapendo come fare, ho pensato che non avrei dovuto “scegliere”, cercando uno che si dichiarasse innocente, un uomo o una donna, che sembrasse sereno, di una certa razza o religione, dovevo prendere a caso.
    In realtà, spaventata dall’emozione cui andavo incontro, inconsapevolmente ci avevo provato a “scegliere”: ero quindi convinta di avere stampato le schede di un signore molto sereno che diceva: «Rilassatevi e scrivetemi, non mi dovete risolvere nessun problema» e di un altro col quale mi sembrava di avere qualcosa in comune.
    Quando sono arrivata a casa, invece, ho scoperto di aver stampato la scheda di Kurt Michaels. Non avrei voluto sceglierlo: aveva una faccia poco raccomandabile, bianco, della mia età, 38 anni; mi sono detta che allora, evidentemente, dovevo proprio scrivere a lui.
    Così il giorno della Befana mi sono messa, dopo una buona oretta di Daimoku a scrivere una lettera che non fosse patetica, che non fosse spaventata, ma cercasse di stabilire un contatto, e anche un po’ alla cieca.
    Dopo circa venti giorni ho trovato la busta da San Quintino nella cassetta della posta. Davanti alla busta mi sono scontrata con la realtà di quello che avevo fatto: avevo stabilito una relazione con uno sconosciuto, di un altro mondo, che sapeva di dover morire… Ho la tendenza ad assicurarmi sempre vie di fuga, soprattutto nei rapporti con le persone: in quel momento mi sono sentita senza scampo. Ho dovuto recitare mezz’ora di Daimoku solo per trovare il coraggio di aprire la busta e leggere.
    Kurt era abbastanza tranquillo, mi raccontava com’era fatta la sua cella, come viveva, e mi “avvertiva” che dovevo rendermi conto che, anche se per qualche motivo non lo avessero giustiziato, non sarebbe mai uscito da lì.
    È cominciata una corrispondenza che è diventata via via più rilassata da parte mia (in una lettera mi dice “si vede che sei più tranquilla”) e amichevole. Ho iniziato a scoprire un mondo fatto di regole assurde e rigidissime, di violenze psicologiche e fisiche ai limiti della sopravvivenza, e soprattutto un mondo di esseri tremendamente umani, chiusi lì dentro.
    Kurt è diversissimo da me, ha avuto una famiglia violenta e disgregata, un’adolescenza balorda, non ha studiato e ha passato le peggiori esperienze già prima di entrare in galera; e poi, ha ucciso una persona. Non siamo d’accordo sulla politica estera degli USA e non è neanche completamente contrario alla pena di morte. Mi ha spesso preso in giro sul fatto che sono buddista, dicendomi che vorrebbe proprio vedere come se la cava un buddista a vivere come lui.
    Mi ha spaventato pensare che il desiderio che avevo espresso per l’attività della mostra era “l’uomo della mia vita”; ho persino pensato: «Oddio, adesso mi innamoro di un assassino dall’altra parte del mondo!» Poi ho realizzato che è davvero l’”Uomo”, l’essere umano quello che ho incontrato; quello che continuo lettera dopo lettera a imparare da Kurt è proprio la sua esperienza profondissima ed estrema di essere umano.
    La lezione più grande finora l’ho avuta a maggio. Arrivando a una riunione della Divisione donne leggevo una lettera di Kurt appena arrivata, nella quale c’era un suo racconto. Il racconto iniziava qualche tempo dopo la sua uscita dalla galera, in una nuova vita immaginaria, con moglie e figli. Mentre recitavo Daimoku ho capito: lui spera di uscire dalla galera vivo, ci crede!
    Nella riunione si è parlato di quando non si “permette” a un altro di cominciare a praticare perché non ci si crede fino in fondo; ho capito che la cosa mi riguardava profondamente. Da quando avevo cominciato la corrispondenza, praticavo per Kurt, ma non avevo mai praticato perché uscisse di galera. Praticavo perché stesse bene, perché non fosse ucciso o picchiato dai suoi compagni, perché fosse sereno, ma non avevo mai avuto il coraggio di desiderare che fosse liberato, che potesse rifarsi una vita. Ho sentito davvero uno scoppio dentro e ho capito che stavo usando male la fede, che stavo limitando la potenza del Daimoku perché non ci credevo fino in fondo.
    C’è un discorso in cui Daisaku Ikeda cita Gandhi: «Un uomo che dice farò qualcosa “nei limiti del possibile” tradisce sia il suo orgoglio, sia la sua debolezza, nonostante questo possa sembrare segno di umiltà. Non c’è traccia di umiltà in un simile atteggiamento mentale”. In sintesi, chi fa tiepide dichiarazioni è allo stesso tempo arrogante e vile». Così ho cominciato a recitare ogni giorno perché Kurt uscisse e potesse avere una moglie e dei figli (ama molto i bambini).
    L’esperienza non finisce e non finirà: nell’ultima lettera Kurt mi scrive che il suo ultimo appello è stato respinto, ma che non si preoccupa perché, a parte i prossimi appelli, avrebbe tantissimi modi di morire in carcere prima che sia lo stato a giustiziarlo. E anzi, chiede il mio parere, come buddista (e “di educazione cattolica”, che evidentemente gli deve sembrare più efficace), su qualcosa da dire a un suo amico che ha deciso di smettere di presentare appelli, che è l’equivalente di un suicidio.
    Sono commossa dalla fiducia che mi dimostra chiedendomi questo, e terrorizzata dalla responsabilità: ma d’altra parte Ikeda in un altro discorso dice: «In definitiva tutto dipende dal fatto che ci sia qualcuno disponibile ad affrontare una lotta senza quartiere, qualcuno che si prenda la responsabilità al cento per cento senza fare assegnamento su altri, qualcuno che si impegni con dedizione per il bene delle persone, senza preoccuparsi di cosa gli altri possano pensare». Così sono costretta a credere di poter essere io questo qualcuno e che la mia Buddità sia capace di convincere uno sconosciuto dall’altra parte del mondo che la vita non va buttata né regalata a uno stato assassino.
    Per convincermi che è un compito alla mia portata, ripenso alla definizione che mi ero data prima di cominciare a scrivere: uno sconosciuto, di un altro mondo, che sa di dover morire. In fondo non è la descrizione di ogni essere umano che incontri per la prima volta?

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    Sulla pena di morte

    La pena di morte è ancora prevista dalle leggi e praticata dai sistemi giudiziari di 84 paesi al mondo, senza distinzione nel livello di sviluppo (dal Bangladesh al Giappone) o nella forma di governo (Cina, USA, Iran).

    La buona notizia è che negli ultimi 30 anni il numero dei paesi abolizionisti è più che triplicato. Oggi i paesi che hanno abolito completamente la pena di morte sono 76, e il numero dei paesi che in pratica non compiono esecuzioni da almeno dieci anni è 111.
    (fonte: www.santegidio.org)

    La cattiva notizia è che la pena di morte uccide come in una guerra continua contro l’umanità: solo nel 2003 i morti per esecuzione sono stati circa 5.600.
    (fonte: www.nessunotocchicaino.it)

    C’entriamo tutti.
    Nel dicembre 2003 Amnesty International ha chiesto alla FIAT di porre fine alla vendita alle autorità cinesi di furgoni Daily prodotti dalla IVECO di Nanchino, attrezzati come “unità mobili” per le esecuzioni tramite iniezione letale e come camera operatoria per l’espianto immediato degli organi. La FIAT non ha smentito la notizia né risposto pubblicamente. (fonte: www.amnesty.it)
    Molte informazioni utili anche sul giornale web L’urlo contro la pena di morte della Provincia di Firenze. (www.squilibrio.it)

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