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Un padre amorevole - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 14:12

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    Un padre amorevole

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    Ho trentaquattro anni e vivo a Bologna, ma sono nata in un paesino della Puglia. Quando incontrai il Buddismo, nel maggio del 1990, dal paese in cui ero nata, mi ero trasferita in città per frequentare l’università e vivevo nella Casa dello Studente. Avevo un grave problema di salute: a causa di un tumore benigno l’anno prima avevo subito un intervento al ginocchio sinistro che si era rivelato inefficace, il mio ginocchio era in parte inutilizzabile e spesso dolorante e così decisi di risolvere completamente e di recitare Daimoku per ottenere un trapianto osseo, superando la tentazione di accontentarmi di un ripiego. Nel 1991 decisi di praticare regolarmente. Studiavo avidamente i principi buddisti e il Gosho, recitavo Daimoku molte ore al giorno, frequentavo tutte le riunioni di discussione. Il mio primo beneficio della pratica buddista fu quello di ottenere il tanto sospirato trapianto, e soprattutto guarire in brevissimo tempo, con grande stupore dei medici. In quei mesi camminavo con l’ausilio di un tutore articolato e la notte dovevo attaccarmi a un apparecchio che accelerasse la calcificazione del trapianto, ma avevo deciso di guarire. Volevo ringraziare il mio maestro Daisaku Ikeda, che era in visita in Italia proprio in quel periodo, con una prova concreta. Nonostante tutto frequentavo regolarmente l’università, andavo in terapia, in palestra e anche in discoteca e i miei studi proseguivano a gonfie vele. Avevo imparato a cavarmela da sola ottenendo borse di studio e lavorando come guida turistica, perché mio padre non voleva che frequentassi l’università e quindi non mi aiutava economicamente.
    A luglio del 1993, al mio terzo anno di pratica, a mia madre fu diagnosticata una leucemia fulminante e fu ricoverata d’urgenza in un ospedale a 400 chilometri di distanza dal mio paese. Lottai con la forza di un leone. Decisi di non avere paura qualunque cosa accadesse e chiesi al Gohonzon che mia madre fosse felice e serena, come era suo intimo desiderio. Si spense nel sonno, accompagnata dal suono del mio Daimoku. Il dolore era incommensurabile, ma grazie al sostegno della pratica e degli amici capii che era arrivata l’occasione giusta per creare un rapporto di valore con mio padre. Io, mia madre e mia sorella eravamo state sempre molto unite e lui restava un po’ fuori da questo nostro rapporto, sia perché lui lavorava all’estero, sia perché aveva un carattere estremamente litigioso e, a volte, a causa dell’alcolismo, era violento e aggressivo. Per paura delle sue botte evitavo qualunque discussione fin da piccola. Il suo carattere aveva allontanato tutti gli zii, nonni e parenti. I nostri Natali erano tristissimi: sempre noi 4 e nessun regalo. Ma oggi posso dire che proprio grazie a lui ho imparato a desiderare la pace e l’armonia in famiglia.
    Mi sono sempre sentita disprezzata e rifiutata da mio padre. Prima di tutto lui aveva un atteggiamento discriminatorio con le femmine, in più io non ero il suo modello ideale di figlia: mi aveva imposto di frequentare l’istituto magistrale, mentre io volevo fare il liceo linguistico e poi aveva tentato di ostacolare la mia iscrizione all’università. La mia prima decisione fu quella di non fargli mancare nulla, di cucinare tutte le cose più buone a cui lo aveva abituato mia madre e di costruire il modello di figlia ideale a cui lui aspirava. Ogni due week-end tornavo in paese e mettevo la casa a soqquadro, pulendola da cima a fondo, anche se le mie condizioni di salute erano piuttosto precarie. Lui aveva caparbiamente rifiutato di avere una collaboratrice domestica, anche se poteva permettersela, mi aveva tagliato i viveri e ostacolava i miei rapporti sociali, tanto che dovevo usare il telefono di nascosto.
    Sentivo che il mio desiderio era comunque quello di proteggere la sua vita, volevo prendermi cura di lui, perché temevo di perderlo e di lasciarlo solo. Un divorante senso di colpa e senso del dovere, la paura delle sue minacce, l’indigenza economica, la mancanza di un tetto sulla testa mi impedivano inoltre di tagliare tutti i ponti, come invece aveva fatto mia sorella, che si era sposata e trasferita a Bologna. Nuovamente i miei Natali erano tristissimi e deprimenti, io e lui, lui e io conditi con continui rimbrotti. Io resistevo a Natale poi a Capodanno scappavo, con la scusa di visite di controllo che dovevo fare a Bologna e mi rifugiavo dal mio ragazzo in Germania. Ovviamente lui era all’oscuro di questa mia relazione, altrimenti sarebbero sorte altre discussioni.
    La svolta nel nostro rapporto credo sia arrivata a giugno del 1997, a venti giorni dalla mia laurea, quando lui cadde da un albero e rimase senza alcun soccorso per dodici ore. Venne ritrovato dall’unica persona che poteva salvarlo: il vicino della proprietà accanto che casualmente si era recato in campagna al tramonto. Sperimentai così la protezione del Gohonzon, perché avrei potuto non rivederlo più. Raccolsi tutta la mia fede e determinai di ottenere la laurea con lode e di non permettere a questa ennesima difficoltà di distruggermi. Il giorno della mia laurea sperimentai quella frase di Gosho che dice: «Considera entrambe, sofferenza e gioia, come fatti della vita e continua a recitare Nam-myoho-renge-kyo qualunque cosa accada» (Felicità in questo mondo, SND, 4, 157). Provavo gioia non solo perché mi ero laureata con lode, ma anche perché mio padre era al sicuro, amorevolmente assistito in ospedale dalle mie due zie che lui non aveva mai potuto sopportare per trent’anni.
    Il periodo successivo fu un faccia a faccia: due mesi di dedizione assoluta nella clinica specializzata a quattrocento chilometri di distanza dal mio paese, notte e giorno trascorsi ad accudirlo, nutrirlo, vestirlo, a trovare momenti di complicità, a cercare di aprire uno spiraglio di comunicazione in quella corazza dura. Ovviamente avevo anche dubbi sulla fede, mi chiedevo il perché di quella ennesima difficoltà e se mai ci sarebbe stata una fine. Ma quando, in mia assenza, mio padre fu investito da una macchina nel parcheggio dell’ospedale e venne fortunatamente tratto in salvo, compresi che la sua vita era stata protetta e forse prolungata e ringraziai il Gohonzon con tutto il cuore.
    Nel settembre 1997 ritornammo al paese e decisi di rimanergli vicina perché non era ancora completamente autosufficiente, ma anche perché non avevo un tetto sulla testa, né lavoro, né incombenze, né legami: la mia storia d’amore era finita. Rimasi un anno, tra mille difficoltà economiche, divorata dal senso del dovere e di colpa verso di lui. Dopo sei mesi trovai un lavoro non proprio gratificante, ma nel momento in cui decisi di prendere la mia vita in mano, di non preoccuparmi più perché ormai lui stava bene, e di trovare la mia strada, lui mi impose di chiudere il Gohonzon.
    Un anno dopo ci fu l’ennesima litigata furibonda e mi cacciò da casa. Raccolsi tutte le mie cose con la morte nel cuore e mi trasferii a Bologna, con il mio Gohonzon. Se questo non fosse successo non avrei mai deciso. Gli anni successivi tornavo da lui lo stretto necessario: a Natale e per una settimana l’estate e intanto recitavo perché mia nipote potesse vedere il nonno e mia sorella ricucisse i rapporti con lui, perché lei ne soffriva e la bimba pure.
    Il Daimoku non è acqua: parlai a mia sorella con il cuore e le citai la frase di Gosho: «L’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre» (Gosho di Capodanno, SND, 4, 271). L’effetto fu grandioso: in mia assenza mia sorella incontrò mio padre per caso e da quel giorno tutto cambiò tra loro e anche nei miei confronti. Adesso lui si preoccupa per me, ha accettato di buon grado una persona che lo aiuti in casa e i servizi di assistenza domiciliare del comune perché ha gravi problemi di salute e deve essere seguito passo dopo passo. Non serbo rancore a mio padre per avermi ostacolato, anzi nutro un grande senso di gratitudine perché grazie a lui ho cambiato me stessa.
    Ho sperimentato veramente che il nostro Daimoku non conosce confini e limiti e sono grata all’attività di protezione (byakuren), che mi ha fatto veramente migliorare aiutandomi a superare paure, sensi di colpa, senso di inadeguatezza e terrore di sbagliare o di essere punita. Penso che questa organizzazione sia meravigliosa perché mi ha permesso di crescere in modo armonioso e di sperimentare la gioia della Legge. Devo dire grazie soprattutto al mio maestro che nei momenti bui mi ha sempre indicato la strada e insegnato a lottare e “ruggire”. Nel Gosho ho trovato un forte incoraggiamento: «Una donna che si dedica al Gohonzon attira la felicità in questa vita, e nella prossima il Gohonzon sarà con lei e la proteggerà sempre. Come una lanterna nell’oscurità, come un forte braccio che ti sostiene lungo un sentiero infido, il Gohonzon ti proteggerà, signora Nichinyo, dovunque tu vada» (Il vero aspetto del Gohonzon, SND, 4, 203).
    A sei anni dal mio trasferimento a Bologna, ora sento che il Gohonzon è un padre e una madre amorevole. Non mi ha fatto mancare nulla: nel 2000 ho vinto il concorso a cattedra e ora insegno inglese alle scuole superiori. L’anno scorso ho realizzato il mio grande sogno iscrivendomi alla Facoltà di interpreti e traduttori a Forlì; ho ottenuto due mesi di permesso retribuito per frequentare l’università e quest’anno ho sostenuto dieci esami. Come dice anche il Gosho, voglio essere «libera dalla paura, come il re leone» (vedi Risposta a Kyo’o, SND, 4, 150).

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