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Il bello è dietro le quinte - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 14:11

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    Il bello è dietro le quinte

    Quasi trent’anni di carriera e ventidue di pratica buddista. La crescita come attore e la rivoluzione umana da credente: due vie che hanno portato Amerigo Fontani a mostrare sia la professionalità che la voglia di trasmettere la gioia che deriva dalla Legge

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    Quasi trent’anni di carriera e ventidue di pratica buddista. La crescita come attore e la rivoluzione umana da credente: due vie che hanno portato Amerigo Fontani a mostrare sia la professionalità che la voglia di trasmettere la gioia che deriva dalla Legge

    Il tuo incontro con il Buddismo come è avvenuto, quando e perché?
    È avvenuto nel 1984, grazie a Serena, mia moglie, che me ne parlò. Stavo passando un periodo di grande difficoltà, soprattutto psicologica. Vedendolo con gli occhi di oggi si trattava di un episodio di una depressione strisciante e ciclica che mi ha accompagnato nel corso degli anni. Adesso, grazie anche all’analisi, sto scoprendo tutta una serie di momenti “bui” che ho vissuto fin da ragazzo, momenti più o meno forti, più o meno lunghi e, sembrerà strano, mi ritornano ogni dieci anni e uno di questi fu nel 1984. Con Serena, allora la mia fidanzata, ci lasciammo per circa sei mesi. Lei nel frattempo aveva già avuto contatti con il Buddismo e un giorno, incontrandoci per puro caso, m’invitò a una riunione. Cominciai subito a praticare: imparai Gongyo in pochissimo tempo. E per la mia vita fu come aprire una finestra in una stanza chiusa da tempo; quando si apre la finestra, si cambia aria, via tutte le ragnatele attaccate ai muri, ai mobili, una bella folata di vento, aria pura e… fu così che scoprii una forza nuova e incredibile dentro di me. Dopo cinque o sei mesi diventai responsabile di gruppo. Avevo trent’anni e a quei tempi l’attività era meravigliosamente frenetica! Ma quell’impegno determinò una nuova partenza in tutti i campi della mia vita.

    Come sei riuscito a conciliare la pratica buddista con il tuo lavoro di attore?
    In quegli anni vennero fuori una serie di situazioni che si armonizzarono a meraviglia. Ancora prima di conoscere il Buddismo facevo lunghe tournée e andavo via circa sei mesi l’anno per lavoro, ma grazie alla pratica arrivarono subito occasioni di lavoro che mi permisero di stare più tempo a Firenze; oppure a Roma… comunque più stanziale. Di conseguenza potevo fare l’attività buddista quasi normalmente. Mi ricordo di aver partecipato a Roma a dei meeting bellissimi. Ebbi la fortuna quindi di entrare subito nel ritmo dell’attività. Poi cominciai a lavorare al Teatro Regionale Toscano e quindi ebbi ancora più la possibilità di essere presente a Firenze e mantenere e rafforzare i legami con i miei amici membri.

    Qual è l’attività che ami di più?
    È quella dietro le quinte. Ricordo un’attività bellissima che feci per il garden party quando venne il presidente Ikeda in Italia nel 1994. Dovevo andare in giro per l’Italia a visionare i vari spettacoli da rappresentare per quell’occasione e ho conosciuto tanti membri costruendo bellissimi rapporti. Durante il garden party non lavorai come attore sul palcoscenico, ma stetti dietro le quinte. Praticamente facevo il “buttafuori dei gruppi” che dovevano esibirsi: gli davo l’ordine di entrata sul palcoscenico incoraggiandoli a non aver paura. Fu una bella esperienza, anche perché fu un lavoro duro e organizzativo; si respirava una grossa tensione, volevamo fare bella figura ma poi quando arrivò sensei tutto si sciolse e provammo una gioia incredibile.
    Un’altra attività invece che continua nel tempo è Prometeo e consiglio a tutti gli uomini di prendervi parte. È una grande occasione per superare le tensioni e le sofferenze che possono esserci dentro di noi, perché abbiamo deciso di essere lì e offrire il benvenuto e il primo sorriso a coloro che visitano il Centro culturale. Questa attività mi dà tanta gioia e serenità.

    Parlare di Buddismo, fare shakubuku nel mondo dello spettacolo è difficile?
    Fare shakubuku non mi è difficile, la riprova è che tanti amici e colleghi hanno cominciato a praticare. Nel nostro ambiente di shakubuku ce n’è assolutamente bisogno, perché prevale molto l’egocentrismo, l’”io” che esce fuori continuamente produce delle forti sofferenze che destabilizzano la persona e vanno a colpire il mestiere stesso, mestiere che attinge alla profondità della vita. Se la profondità è chiara e luminosa ci sono risultati positivi; io non credo al “genio e sregolatezza”, all’artista maledetto ecc, non è più tempo per questo. L’artista oggi ha la missione di incoraggiare le persone a scegliere una via di gioia e di ricerca personale. Quindi dal mio punto di vista buddista dico che shakubuku è importante perché è necessario che le persone trovino il centro della loro vita e ne siano consapevoli, e la pratica permette di trovare questo centro.
    Il mio desiderio è che la mia esperienza serva a incoraggiare le persone, non mi interessa fare le interviste per dire “come sono bravo”, oggi questo non ha più senso, anche se forse in passato ne ha avuto. Una volta sul palcoscenico mi successe che non ricordavo più assolutamente niente dopo centocinquanta repliche del Sogno di una notte di mezz’estate, blackout totale! E da quel giorno per una settimana soffrii tremendamente, entravo in scena con la paura di non ricordarmi le battute, fu una cosa terribile. Ma Glauco Mauri, il mio maestro, mi disse: «Adesso basta! Devi andare in scena così come sei, non devi mostrare nulla! Sentiti libero!». Era il 1988 e in quel momento sentii, percepii che predominava il mio ego. Andavo in scena per mostrare quanto sapevo fare e così decisi che sarei andato in scena per trasmettere gioia, per raccontare delle “storie” alle persone, per portare avanti la mia missione per kosen-rufu; ecco questo fu l’episodio che mi fece superare il mio egocentrismo che si era manifestato, appunto, non facendomi aprire bocca. Dovevo trovare una motivazione diversa nel mio lavoro e capire questa mia tendenza mi permise di superarla.

    Tu hai lavorato oltre che in teatro, anche per la televisione e il cinema. Sei una persona di grande versatilità che, si percepisce, lavora con il cuore, e in un’intervista hai dichiarato: «Il mio maestro Vittorio Gassman diceva sempre: “Si può fare tutto, dipende da come si fanno le cose”». In questo atteggiamento riconosci la capacità di far emergere sempre la propria Buddità? Quello per cui ci sforziamo ogni giorno?
    Sì, proprio questo. Io ho un ricordo molto bello, un mio carissimo amico praticante, Alessandro Gigli, che è l’organizzatore di Mercantia, (festival del teatro di strada che si svolge a Certaldo) mi dette una grande occasione in un momento di difficoltà. Era il 1994 (dopo dieci anni di pratica buddista!) e attraversavo un momento duro della mia vita: mi ero ammalato e soffrivo molto e questo mi aveva portato a chiudermi. Il buon amico mi invitò a partecipare al festival di strada, e visto che era la mia prima esperienza di questo tipo avevo una grande paura, ma accettai. Mi calai nel personaggio di Frate Cipolla. Il mio compito era accogliere il pubblico della festa all’inizio del paese e divertirmi a provocarlo in varie maniere, un gioco di improvvisazione. Mercantia dura sei giorni e io da attore di teatro mi preparai un “canovaccio”, ma nonostante le mie attenzioni non riuscivo a catturare il pubblico, che passava e se ne andava senza ascoltarmi. Dopo due giorni ero abbattuto e volevo abbandonare. Il terzo giorno recandomi a Certaldo in macchina, sentii una gran voglia di tornare indietro, invece fermai la macchina, recitai tre Daimoku e dissi: «Stasera o vinco o perdo, ma ci voglio provare, voglio usare la strategia del Sutra del Loto, non le mie strategie mentali che sono piene di limiti. Vincere o perdere!». Arrivai lì, con grande tensione mi preparai e iniziai a recitare la mia parte. Quel giorno si fermarono trecentocinquanta persone… Da allora a Mercantia Frate Cipolla è diventato un personaggio insostituibile. Una vittoria lunga dieci anni! Non solo ho superato i miei limiti ma è diventata una grande vittoria nella vita e nel lavoro. Con questo intendo dire che dobbiamo vincere sulle nostre tendenze negative quando emergono nella nostra vita e fare attenzione perché siamo sempre pronti a usare le nostre “piccole” strategie. Ho usato il cuore, senza canovaccio, e la gente era lì con me a proprio agio. Una bellissima esperienza.

    C’è un personaggio della tua carriera a cui ti senti particolarmente legato o con il quale hai vissuto un’esperienza particolare?
    La mia professione di attore l’ho cominciata nel 1979, a ventiquattro anni, quindi di personaggi ne ho fatti tanti, però non ne ho uno al quale sono più legato. Ma forse uno è stato particolare: l’Amerigo che entra in scena. Il momento in cui devo spogliarmi della vita di tutti i giorni per accogliere il personaggio dentro di me. I personaggi sono punte di un iceberg di una personalità che io sento e a cui tengo molto. I personaggi sono le lucine, ma la batteria è l’essenza: l’emozione pura.

    La tua esperienza sul set di Benigni come è stata?
    Un’esperienza professionalmente bella. È toccare il cinema ad altissimi livelli sotto tutti i punti di vista. Roberto è una persona che mette nel lavoro la gioia dell’intuizione, l’intelligenza, la professionalità e una preparazione meticolosa.

    Il Buddismo è vincere o perdere: c’è stato un momento della tua vita in cui tu non pensavi di riuscire a vincere?
    Per adesso si è parlato solo dell’aspetto lavorativo della mia vita, importante ma non unico. La mia vita comprende tante cose: la famiglia, il matrimonio, i figli, con tutti gli annessi e connessi.
    Un ostacolo che ho vissuto per molto tempo come una sconfitta è stata la malattia che ha accompagnato i miei anni di pratica e che oggi scopro come la grande occasione per fare la mia rivoluzione umana. La malattia ha colpito prima mio padre, poi me e adesso i miei figli; questo tipo di karma si ripropone periodicamente. Ma continuando a recitare Nam-myoho-renge-kyo ho capito che questa è la grande occasione della mia vita per diventare una persona più bella e più forte.

    Parlaci dello spettacolo Il respiro della Terra organizzato da membri dell’Istituto Buddista
    L’amico attore Leonardo mi ha proposto di partecipare allo spettacolo Il respiro della Terra (vedi box, n.d.r.). Non aspettavo altro!
    Questa proposta è arrivata in un momento in cui stavo recitando molto Daimoku per dare un senso ancora più concreto al mio lavoro e puntualmente è sorta questa bella occasione. Siamo andati in scena il 28 febbraio a Siena, in un teatro gremitissimo, grazie all’impegno di tanti membri. È stata un’esperienza meravigliosa e totalizzante e le persone hanno percepito davvero la Legge mistica! Il suo titolo è Il respiro della Terra, anche perché dà voce agli esseri che vivono e soffrono su questa terra.

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    Il respiro della Terra

    Il Respiro della Terra è uno spettacolo nato su iniziativa della Divisione artisti della Soka Gakkai. È già stato portato in scena a San Casciano, in provincia di Firenze, nel teatro comunale Niccolini (18 dicembre 2005) e a Siena al Teatro dei Rozzi (28 febbraio 2006), in concomitanza con la mostra I semi del cambiamento, che promuove la divulgazione della Carta della Terra, un documento che si occupa dello sviluppo sostenibile e dei diritti umani sul nostro pianeta.
    Lo spettacolo ha visto la partecipazione di cantanti, musicisti, ballerini, oltre ovviamente a uno staff di scenografi, grafici e fonici, che hanno portato in scena, tra le altre cose, poesie di Pablo Neruda, Primo Levi e Bertold Brecht, sulla necessità di abbracciare una cultura della non violenza e della tolleranza, monologhi di Aristofane e Paul Eluard e meditazioni tratte dalla saggezza degli indiani d’America, che ci ricordano con toccante veemenza la necessità di una coscienza ambientale. Inoltre, particolarmente emozionanti, la lettera che Nazim Hikmet spedisce a un figlio che ancora deve nascere e parti tratte dal commovente diario di Etty Hillesum, giovane ragazza prigioniera nel campo di concentramento nazista di Westerbork. Una frase scritta da Etty ai suoi familiari nel settembre del ’45, poco prima di essere uccisa, riassume la speranza e il messaggio di pace quali finalità dello spettacolo e della mostra in generale: «Eppure la vita è meravigliosamente buona, nella sua inesplicabile profondità».

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