Daisaku Ikeda è il maestro e la guida del movimento di kosen-rufu, ma è stato a sua volta, e lo è ancora, un discepolo. Da questa esperienza si può partire per vivere concretamente la relazione di non dualità fra maestro e discepolo che permette di rinnovare la qualità della pratica buddista e quindi della propria esistenza
Volevamo affrontare il legame fra maestro e discepolo nel modo più concreto e tangibile che conosciamo: attraverso le esperienze personali. E così abbiamo fatto, raccogliendo l’esperienza di una persona particolare: il nostro maestro, Daisaku Ikeda. Sì, perché oltre a essere la guida del movimento di kosen-rufu, Ikeda è anche il discepolo di Toda. Chi meglio di un discepolo come lui può incoraggiarci a sperimentare il legame con il maestro?
Nel Buddismo di Nichiren Daishonin la ricerca di un modo di vivere “da discepolo” è imprescindibile e per nulla secondario, non solo per la realizzazione di una società pacifica e finalizzata a diffondere la cultura e l’educazione, ma anche per vincere sulla propria oscurità innata e raggiungere la felicità assoluta. Il rapporto con il maestro arricchisce la qualità della pratica e la completa. La pratica buddista infatti non si definisce in base alla “quantità” di studio, di Daimoku recitato o di attività svolta, ma soprattutto per “come” cambia la nostra percezione della vita. La grande sorpresa che provai quando incontrai il Buddismo, a parte la serenità e la forza che mi dava, fu proprio quella di vedere la mia vita come parte di una totalità. Era come se mi fossi sempre percepita come “goccia”, quindi insignificante, e invece ero anche “mare”, le mie difficoltà e le mie trasformazioni si incidevano nella vita degli altri e, per estensione, nella storia di kosen-rufu. Che bellissima (e anche dura) scoperta!
Il rapporto fra maestro e discepolo unisce due individui che non condividono un legame di parentela o di amicizia, che sono apparentemente estranei, ma che scelgono però di condividere uno scopo per la vita. Chi sceglie di praticare il Buddismo comprende che il debito di gratitudine più grande da ripagare, dopo quello verso i genitori, è quello verso il maestro perché è grazie al suo impegno che oggi possiamo praticare. Essere discepolo non significa annullare la propria individualità nel rapporto con il maestro, anzi, ricercando dentro di sé il senso di unità con lui, trova la sua identità ed esprime se stesso al meglio.
Il maestro che ispira e annulla la dipendenza
«Sullo sfondo rovinoso di un Giappone devastato, il mio cuore di ragazzo cercava una qualche via certa nella vita. L’intensità della determinazione espressa da Toda […] arrivò dritta nel profondo del mio essere. Ero affascinato dalla sua personalità e allo stesso tempo profondamente colpito dall’ottimismo e dalla profondità filosofica di quella riunione di gente comune» (NR, 348, 5). Ikeda ha incontrato il Buddismo in un momento di difficoltà, come è successo a molti di noi, e, prima che di una filosofia si è fidato di una persona. Toda non era però una figura idealizzata, ma un uomo comune, con le sue sofferenze e il coraggio di combatterle che trasmise al giovane Daisaku una forza e una convinzione assolute: «La prima volta che ho incontrato il presidente Toda avevo diciannove anni. Mi faceva sentire come se fossi un diamante prezioso, e fu quello spirito sincero che mi fece decidere di alzarmi in prima persona per realizzare kosen-rufu» (NR, 346, 4).
Dal suo maestro Ikeda ha imparato ad avere il coraggio di agire e di parlare per opporsi alle ingiustizie e per la felicità delle persone. «Come soleva dire il presidente Makiguchi: “Se non avete il coraggio di essere nemici dei malvagi, non potete essere amici del bene”» (NR, 344, 4).
Il discepolo Ikeda non imita i modi del maestro, né parla come lui, ma fa proprio il suo scopo, che poi realizza secondo il proprio “stile”. Ikeda, Toda e Makiguchi sono individui dal carattere e dalla personalità molto diverse, in effetti. Il punto di riferimento di un discepolo non è dunque la persona, ma la Legge; questo atteggiamento si esprime in uno studio costante degli scritti di Nichiren Daishonin.
Per portare felicità bisogna dialogare e avere attenzione per gli altri, inoltre è necessario anche essere informati; così Toda stimola Ikeda ad approfondire la conoscenza delle opere di scrittori antichi e moderni.
Ma il discepolo è anche lui un essere umano, e come tale si scontra con i propri demoni e le difficoltà di mantenere una fede salda in ogni situazione. Ikeda da giovane soffre di tubercolosi, gli viene detto che non vivrà oltre i trent’anni; spesso gli è difficile alzarsi presto per andare al lavoro o impegnarsi nelle attività per gli altri. Ecco ad esempio cosa scrive nel giorno di lunedì 3 ottobre 1955: «Sono fisicamente esausto. Ho la sensazione di sprofondare in una buia spirale di stanchezza. La sola cosa che posso fare è rafforzare la mia fede. Rompere, frantumare, trasformare. Ho pensato con amarezza che mi mancano capacità e forza» (Diario giovanile, edizioni esperia, 343). Molte sono le volte in cui Ikeda, nelle pagine del diario della sua gioventù, esprime scoraggiamento e dubbi sulla sua capacità di vincere il proprio karma; nonostante ciò, continua ad andare avanti.
La responsabilità di rappresentare il maestro
Da Ikeda-discepolo si capisce che la maniera migliore per percepire un legame con il maestro è sfidare la propria oscurità innata nelle sue manifestazioni quotidiane, ossia sforzarsi di vincere “qui e ora”. Non occorre cioè intraprendere un’avventura per salvare il mondo, ma sforzarsi lì dove si percepisce che esiste un limite che ci sembra invalicabile. La pace nel mondo non prescinde dalla felicità di ciascun individuo, d’altra parte la felicità individuale non è possibile se egoisticamente rivolta ad abbellire solo il proprio “piccolo orticello”.
Per spiegare il principio di non dualità di maestro e discepolo recentemente Hideaki Takahashi, presidente dell’Istituto europeo, ha paragonato l’ago al maestro e il filo al discepolo, riportando un discorso che il presidente Ikeda aveva rivolto alla Divisione futuro. Cucendo, l’ago ha il compito di aprire la strada e il filo di seguirlo. Quando abbiamo finito di cucire, ciò che rimane e che determina il risultato di questo lavoro è il filo, cucito nel tessuto. Ikeda ha detto: «Io continuerò ad aprire la strada e ad andare avanti, ma in futuro il risultato di queste azioni dipenderà da voi, che seguite la mia strada». Ciò significa che il valore del maestro viene dimostrato dal valore del discepolo.
In realtà il rapporto con il maestro non è facile da capire, e spesso si tende a pensare che solo dopo molti anni di pratica (e svariati benefici personali) sia possibile cominciare a pensare a se stessi come discepoli di Ikeda. Dal mio punto di vista, penso che nel momento in cui sono parte della Soka Gakkai, accetto di assumermi la responsabilità di rappresentare il maestro nel mondo. Ma non è una responsabilità pesante, anzi. È una delle forme più elevate di libertà: fare delle nostre vite, con il nostro carattere e le nostre capacità, degli esempi che “ispirino” a praticare quelle persone che Ikeda non potrebbe mai raggiungere da solo. A lungo, e forse ancora oggi, ho cercato di capire come potevo sentire vera gratitudine per il maestro e il desiderio di essere sua discepola. È stata dura, e anche se molto resta da fare, una piccola cosa l’ho capita e cerco di metterla in pratica: quando non giudico le persone con cui ho delle difficoltà, ma cerco di vederne la Buddità e di dialogare con loro, anche più e più volte, senza mai arrendermi o pensare che non ne vale la pena, ecco, allora sono veramente una discepola che ha scelto un maestro.
Con questo atteggiamento cerco di sentirmi come la famosa mosca blu, che si aggrappa alla coda del cavallo-maestro e che arriva così a coprire distanze che da sola impiegherebbe un tempo infinito a percorrere, e lo fa nella gioia di condividere il tragitto, con le sue sofferenze, insieme a un compagno fidato («Una mosca blu, se si posa sulla coda di un buon cavallo, può viaggiare diecimila miglia» (Assicurare la pace nel paese, SND, 1, 31).
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La testimonianza
È stata una crescita
di Anna Di Biase
Quando iniziai a praticare mi consideravo ancora troppo ribelle perché potesse durare. Stavo vivendo una crisi sentimentale e avevo bisogno di uscirne fuori, ma aderire a un’associazione che riconosceva un maestro significava ancora ammettere una dipendenza. Mi faceva sentire privata della mia vita. Quando mi sembrò che tutti volessero suggerirmi una condotta di vita, mollai tutto. Avevo praticato per pochi mesi, ma il suono delle preghiere e il significato profondo di quelle poche frasi di Gosho udite allora non mi lasciarono più. La mia vita andò avanti, finché due anni dopo decisi di ritornare. Subito mi trovai ad affrontare quelli che oggi posso definire demoni: amici che arrivarono a demolire in toto la validità degli insegnamenti del Daishonin, cui imputavano le scorrettezze di alcuni compagni di fede. Solo con il tempo e a distanza di due anni mi sono accorta di aver maturato una fede incredibile. Ho capito che la paura del maestro nasceva proprio dalla mancanza di quella libertà che credevo di avere. Oggi per me le parole del Gosho sono finalmente la guida per vivere un’esistenza che non è quella dei tanti compagni di fede o dei responsabili che ho incontrato e nemmeno quella delle persone care. Ma è la mia! E questo grazie al maestro che non mi sta privando di nulla, ma al contrario sta arricchendo la mia vita!
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Storia
Oltre le apparenze
Dove ha trovato, la Soka Gakkai, la forza per ribaltare l’idea che fosse un ricettacolo di poveri e malati? In qualche decennio ha vinto le critiche e il disprezzo grazie al desiderio di realizzare un sogno comune.
di Dave Baldschun
Per chi abitava a Nishikanda, alla periferia di Tokyo, le persone che entravano e uscivano dall’edificio della modesta sede della Soka Gakkai nel 1951 erano un gruppo strano. I loro abiti facevano capire che erano persone povere e indigenti, e il comportamento di molti di loro li faceva sembrare deboli e malaticci.
Al primo piano si trovava l’ufficio di Josei Toda. Attraverso la finestra aperta del suo ufficio, egli sentiva spesso le frasi di derisione pronunciate dalle persone che abitavano intorno alla sede: «Ecco che arrivano quei fanatici senza speranza della Soka Gakkai!».
Un giorno il presidente Toda non resse più. Anche se i membri avevano l’aspetto povero e malaticcio – e in realtà in gran parte lo erano – per Toda erano figli del Budda, nobili Bodhisattva della Terra che abbracciavano la Legge mistica. Non riuscendo a tollerare oltre gli insulti verso i suoi preziosi discepoli, si precipitò fuori dall’ufficio e si fermò di fronte all’edificio da cui provenivano le offese.
«Sono io, Toda – gridò -. Se avete qualcosa da dire sulla Soka Gakkai, scendete subito a dirlo a me!».
Unirsi alla Soka Gakkai nei primi anni Cinquanta significava essere soggetti a critiche da parte della famiglia, degli amici e dei colleghi di lavoro, ed esposti agli attacchi dei media.
In questa difficile situazione, Toda ricordava ai membri che essi avevano la più nobile delle missioni, diffondere la conoscenza della Legge fondamentale dell’universo, e che un giorno sarebbero stati leader in ogni ambito della società. Il 3 maggio 1951, durante il suo discorso inaugurale, Toda promise di portare il numero delle famiglie aderenti alla Soka Gakkai, di poco superiori a 3.000, a 750.000.
Egli dichiarò: «Nel corso della mia esistenza convertirò settecentocinquantamila famiglie. Se alla fine della mia vita non sarò stato in grado di raggiungere lo scopo che oggi ho dichiarato davanti a voi, non celebrate il mio funerale, ma gettate semplicemente le mie ceneri nella baia di Shinagawa, avete capito?» (La rivoluzione umana, vol. 5, pag. 35).
Per gran parte dei membri, parlare di grandi numeri di propagazione, come anche l’idea di diventare leader della società, erano fonte di grande ispirazione, ma difficilmente credibile, se si osservavano le loro attuali condizioni. Alcuni pensarono che Toda avesse commesso un errore, intendendo invece 75.000.
Un giovane, comunque, non solo credeva alle parole di Toda ma era determinato a realizzarle. Daisaku Ikeda era così povero che non possedeva un cappotto invernale, e per di più stava lottando contro la tubercolosi. Nonostante le sue condizioni, credeva in Toda con tutto il cuore. Il giovane Ikeda rinunciò all’occasione di frequentare l’università per sostenere il suo maestro. In cambio, Toda istruì privatamente il suo giovane protetto.
Nel 1277, Nichiren Daishonin scrisse a un discepolo: «Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo, e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore. Dal momento in cui leggerai questa lettera sforzati di accumulare i tesori del cuore» (I tre tipi di tesori, SND, 4, 177).
I membri della Soka Gakkai forse non avevano i tesori del forziere né quelli del corpo, ma possedevano in abbondanza i tesori del cuore. E grazie ai loro sforzi e alla lungimirante guida del presidente Ikeda, l’organizzazione della SGI oggi comprende più di dodici milioni di membri in centonovanta paesi e territori. Quando Ikeda parla dei premi che riceve, non esalta se stesso, come ha chiarito molte volte: egli li riceve a nome di tutti i membri. Aprendo innumerevoli percorsi di amicizia all’interno della società in tutto il mondo per tutti noi e per il futuro del nostro movimento di kosen-rufu, il presidente Ikeda sta anche rendendo profondo omaggio al suo maestro, il presidente Toda, e ci ricorda il valore che ha il fatto di accumulare i tesori del cuore. Laddove un tempo le persone riversavano insulti sulla Soka Gakkai, oggi diffondono lodi.
tratto da World tribune del 9 marzo 2007