Questo io affermo: che gli dèi mi abbandonino, che tutte le persecuzioni mi assalgano, io continuerò a dare la mia vita per la Legge.
tratto da Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 1, pag. 194
In questo brano…
In occasione della tentata decapitazione di Tatsunokuchi, Nichiren Daishonin comprese di essere il “Budda di gioia illimitata illuminato dal tempo senza inizio”. Quindi, una volta giunto in esilio a Sado, si mise immediatamente all’opera per trasmettere questa comprensione ai suoi discepoli. Desiderava infatti che tutti, allo stesso modo, potessero manifestare la Buddità nella propria vita di comuni mortali.
Il trattato L’apertura degli occhi aveva proprio lo scopo di lasciare ai posteri un resoconto di come si possa abbandonare il transitorio e rivelare l’originale (hosshaku-kempon). Il Daishonin impegnò allora ogni risorsa per trasmettere ciò che aveva dimostrato a Tatsunokuchi, cioè che tutte le persone dell’Ultimo giorno della Legge possono abbandonare il transitorio e rivelare il vero, la propria natura di Budda. Per questo occorreva “aprire gli occhi”, vedere e comprendere quale strada Nichiren Daishonin avesse aperto e decidere di seguirla.
Le sue affermazioni di essere il pilastro, gli occhi e il grande vascello del Giappone sono riferite proprio a questa funzione di dare a tutti gli esseri umani la possibilità di fare emergere la loro intrinseca natura di Budda. Lo indica egli stesso quando dice: «Qui un singolo individuo viene usato come esempio, ma la stessa cosa si applica egualmente a tutti gli esseri viventi» (GZ, 564)
Il Daishonin invia questo trattato a tutti i suoi discepoli, ma lo affida a Shijo Kingo, che aveva dimostrato proprio a Tatsunokuchi di essere disposto a dare la vita per il proprio maestro. L’esortazione ad aprire gli occhi giunge ai discepoli di Nichiren in un momento in cui era facile dubitare del suo insegnamento ed era estremamente difficile considerare il pilastro del Giappone un uomo esiliato in un’isola pericolosa e lontana. Ma proprio per questo le sue parole hanno il potere di fare aprire gli occhi ancora oggi a chi desideri manifestare la propria natura di Budda.
Per approfondire la comprensione di questo fondamentale trattato, si consiglia di leggere le lezioni tenute da Daisaku Ikeda e pubblicate su Buddismo e Società a partire dal n. 106, settembre-ottobre 2004.
Dal punto di partenza
Per anni ho aperto il primo volume del Gosho, sfogliato le sue pagine fino ad arrivare in quel punto preciso, a pagina 194; poi riempivo i polmoni e, tutto d’un fiato, declamavo queste parole. Le ho anche lette, scritte, sussurrate, condivise, ruggite, finché non c’è stato più bisogno di aprire il primo volume, ormai erano parte di me. O almeno così credevo fino al giorno in cui non riuscii più a pronunciarle.
Il presidente Ikeda ci incoraggia a leggere il Gosho, anche se non lo comprendiamo lì per lì, tanto al momento opportuno affiorerà dalla nostra vita in tutta la sua efficacia. Per me è stato così. Non ho mai indagato o analizzato il motivo per cui questo brano in particolare mi avesse tanto colpito.
Nel corso di una riunione studenti nel 1994, appena laureata, annunciai che sarei partita per l’Australia, e qualcuno disse che avevo coraggio. Mi sono sentita ripetere la stessa cosa quando, dopo un periodo trascorso in Italia, sono ripartita per l’Australia per realizzare un progetto di vita legato a kosen-rufu. In realtà ciò che mi spingeva era il bisogno di riuscire in un’impresa impossibile, di costruire qualcosa dal nulla.
Quando si vede per la prima volta il cielo australiano si ha l’impressione che sia più grande, più vasto e la terra, arsa dal sole e in certe zone quasi rossa, sembra poter raggiungere l’orizzonte. Anche la vita sembra dilatarsi e lo stato vitale si espande fino a cancellare ogni dubbio: tutto è possibile.
Nel 1998, quando atterrai all’aereoporto di Melbourne dopo una lunga assenza, era notte fonda, ma il ricordo del mio primo arrivo non era stato cancellato dagli anni. Ad attendermi c’era la mia amica e compagna di fede Thérèse e il suo compagno. Sapeva che questa volta avevo un biglietto di sola andata, anche se con visto turistico di sei mesi. Sapeva anche che il mio piano era preciso, per quanto azzardato: iscrivermi all’università, ottenere un visto per motivi di studio e con il permesso di lavoro aprire la strada alla mia carriera di scrittrice di storie di vita che creassero un ponte di dialogo tra culture diverse. È il mio sogno, dedicato al maestro. In quegli anni ebbi l’occasione di mettere in pratica tutto l’allenamento ricevuto nella fede e nell’attività in Italia.
Con la forte decisione di aprire una strada al mio maestro e quindi a kosen-rufu, “incidevo” il Daimoku in ogni azione. Ogni mattina Gongyo risvegliava in me questa decisione e declamavo: «Questo io affermo». Così superai gli ostacoli, smascherai le illusioni, buttai giù i muri. L’obiettivo prioritario era legato al permesso di soggiorno. Il ritmo di uno straniero è quello di vivere ogni giorno come se fosse un mese. Non hai molte scelte, se non quella di vincere. Come per un Budda! Riuscii così a convertire il visto turistico per motivi di studio con il permesso di lavoro. Per farlo dovetti superare il test d’ingresso per un diploma post-laurea per aspiranti scrittori. Ero l’unica studentessa non di madrelingua inglese. Dovetti materializzare la “buona fortuna” con una cifra per me improponibile per pagare l’università. L’attirai da “mille miglia lontano”, come si legge in un Gosho, perché mi fu inviata da mio padre, che inizialmente si era opposto al progetto. Dovetti trasformare i miei limiti nella mia forza. Così riuscii a diplomarmi con il massimo dei voti, mantenendo due lavori e contribuendo costantemente all’attività della Soka Gakkai austrialiana. Il mio motto personale: «I don’t know how, but I will make it», cioè: «Non so come, ma lo farò», rispecchiava la decisione di affidarmi completamente al Sutra del Loto.
A conclusione dell’università, dovevo decidere se tornare in Italia o realizzare l’obiettivo “impossibile” di ottenere la sponsorizzazione per un visto per motivi di lavoro. Recitando Daimoku e dedicando ogni risorsa alle giovani donne del mio settore, scelsi la seconda strada e ottenni la sponsorizzazione. Mentre attendevo la conversione del visto mi fu comunicato che sarei partita per il corso giovani in Giappone come rappresentante dello Stato in cui vivevo. Avrei così realizzato il sogno di condividere queste parole: «Io continuerò a dare la mia vita per la Legge! […] Tutti gli altri problemi sono per me soltanto polvere al vento» (BS, 106, 45) con il mio maestro.
Il giorno dopo mi consegnarono l’avviso che la richiesta di sponsorizzazione era stata revocata. Avevo due settimane di tempo per lasciare il paese.
Al rientro in Italia, non riuscivo più a pronunciare quelle parole che sempre ho avute care. Il solo leggerle mi ricordava la mia sconfitta: non ero riuscita a realizzare il mio progetto migratorio. Ero tornata al punto di partenza, ormai straniera a casa mia. Nella mia testa circolava questo pensiero: i Budda non falliscono.
Ho continuato a praticare, a fare attività per gli altri, a studiare, ma chissà per quale motivo quelle parole non uscivano più dalla mia bocca. Ho ricostruito la mia vita, lavoro, casa, amici, un nuovo amore seppur breve. Raccontavo la mia esperienza, incoraggiavo, parlavo con altri del Buddismo, ma sotto sotto si annidava il timore, anzi il terrore, di perdere tutto nuovamente. Perciò tutto quello che facevo era lo specchio di una minima parte del mio potenziale, non riuscivo proprio a mettermi in gioco al cento per cento. Me ne resi conto quando queste parole cominciarono a dibattersi dentro di me: «Abbandonare il superficiale e ricercare il profondo richiede coraggio» (Sulla profezia del Budda, SND, 4, 31) afferma Nichiren Daishonin.
La mia vita lentamente, ma inesorabilmente, stava emergendo. Come se “qualcosa” di ancora più profondo la spingesse a riaffiorare, venire allo scoperto. Era il “voto” del maestro, più forte della codardia, più forte dell’oscurità che mi avvolgeva. Ricominciai a ripetere le parole: «io continuerò a dare la mia vita per la Legge». Col Daimoku scavavo nei recessi della mia vita per riconquistare «Questo io affermo». Col Daimoku lottavo per sentire il cuore del maestro che da sempre mi esortava a non farmi sconfiggere dalla mia stessa debolezza, a perseverare, a non arrendermi.
E fu così che compresi per la prima volta, la potenza che scaturiva da quel brano. La potenza che scaturisce dalla vita del maestro per trasmettere coraggio al discepolo. Il coraggio di decidere di dedicare la nostra vita, non a questo o quell’obiettivo, a un progetto piuttosto che a un altro, ma alla vita stessa, comunque essa si presenti, nella vittoria, come nella sconfitta, in pace e in guerra, al di là dei successi, dei risultati raggiunti o dei sogni da realizzare. Pronunciare quelle parole, formulare un voto solenne che coinvolge l’intera durata della vita, permette di sviluppare illimitatamente ogni risorsa.