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Un occhio sul mondo - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 15:42

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    Un occhio sul mondo

    Massimo Mastrorillo è un fotoreporter che ha fatto della propria passione un lavoro e anche una sfida per kosen-rufu. Per la foto pubblicata in questa pagina ha ricevuto recentemente un prestigioso riconoscimento internazionale

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    Massimo Mastrorillo è un fotoreporter che ha fatto della propria passione un lavoro e anche una sfida per kosen-rufu. Per la foto pubblicata in questa pagina ha ricevuto recentemente un prestigioso riconoscimento internazionale

    Quando hai conosciuto il Buddismo di Nichiren Daishonin e come?
    Ho cominciato a praticare nel 1984, ma poco dopo ho smesso. Ho ripreso dopo un anno e mezzo e ho ricevuto il Gohonzon nel 1987. Mi aveva parlato di Buddismo una persona che mi aveva dato un passaggio a Perugia dove studiavo a quel tempo e dove eravamo in due a praticare.

    Come fotografo giornalista, ritrai spesso situazioni di grande sofferenza. Non deve essere semplice entrare nella vita di queste persone e rispettarne il dolore. Come ti comporti in questi casi?
    Noi, comunque, attraverso il nostro lavoro dobbiamo fare informazione. È questo il nostro scopo. A me è capitato più volte che persone che vivevano dei drammi mi chiedessero spontaneamente di farsi fotografare. Più siamo determinati e più possiamo far sentire quanto è importante il nostro lavoro, quanto sia utile il nostro ruolo nell’aiutarli. Ricordo, in Mozambico, un funerale di un bambino di quattro anni morto per AIDS: i suoi genitori non solo furono disponibili a lasciarmi fotografare, ma mi chiesero anche di tenere un discorso in memoria del figlio. Mi sentii molto imbarazzato, ma fu un importante attestato di stima nei miei confronti.

    Qual è stato l’incontro che ti ha segnato di più?
    Una situazione in cui ho fotografato un bambino malato di AIDS, orfano di entrambi i genitori, morti anche loro per la stessa malattia. Era completamente intubato e di lì a poco sarebbe morto, ma stringeva con una forza incredibile un biscotto che non poteva mangiare, ma che nessuno riusciva a portargli via. Mi sembravano i suoi ultimi tentativi di rimanere “aggrappato” alla vita…

    Pensi di realizzare la tua missione attraverso questa professione?
    Sì, sto cercando di fare proprio questo. L’ambiente in cui lavoro è un mondo di squali, persone molto egocentriche. Cerco invece di utilizzare le mie foto per fare shakubuku. Ultimamente ho tenuto una conferenza in un college negli Stati Uniti sulla “Coscienza globale nel giornalismo” e ho cercato di sottolineare il concetto della “diversità come ricchezza”, prendendo spunto da un articolo di Buddismo e Società. È stata una bella sfida, in un paese dove si insegna prevalentemente l’etica del profitto individuale.

    In che modo la fede ha influito sul tuo lavoro?
    Ovviamente è stato un percorso professionale ma anche di fede, che ho bisogno di approfondire sempre di più. Ho vissuto tante difficoltà nella vita e nel lavoro e, se non avessi praticato questo Buddismo, non ce l’avrei mai fatta a superarle. Ho provato tanti modi di fotografare. La protezione del Gohonzon mi ha guidato verso la mia strada, quella di fare il fotogiornalista. Anche l’attività mi ha molto aiutato a capire e a decidere qual era la cosa più giusta per me.

    Qual è il tuo rapporto con le nostre riviste?
    Collaboro con Buddismo e Società come responsabile dello staff fotografi. Ho sempre cercato di portare le mie capacità professionali in questa attività. Il mio scopo è quello di riuscire a pubblicare foto sempre meno ovvie o banali. Per riuscirci dobbiamo assolutamente cercare di ottimizzare l’organizzazione del lavoro: spesso non riusciamo a dare il prodotto che vorremmo perché dobbiamo fare le cose all’ultimo minuto!

    Anche il presidente Ikeda ama scattare fotografie… puoi raccontarci qualcosa delle sue visite in Italia?
    Sì, con il mio maestro, il presidente Ikeda, abbiamo in comune questo amore per la fotografia, questa passione. È venuto in Italia due volte, da quando ho iniziato a praticare. La prima volta, a Milano, non riuscii a incontrarlo e ci rimasi molto male. Non ho il culto della persona, ma ero molto curioso di conoscere quest’uomo che con tanta forza e determinazione agiva nel mondo per propagare il Buddismo di Nichiren Daishonin. La seconda volta a Firenze, ho vissuto una bellissima esperienza. Mi fecero stare vicino a lui durante il Garden Party organizzato per l’occasione, e mi fu possibile fargli tantissime foto. Mentre eravamo là, lui mi mise un cappellino in testa e la scena venne ripresa da un fotografo del suo staff e poi pubblicata su un libro della SGI. Inoltre, a mia insaputa, mi scattò una foto che poi mi ha spedito. Mi piacerebbe rivederlo e vorrei regalargli altri miei lavori. Recentemente gli ho inviato la foto premiata con il World Press.

    Che significato ha avuto per te vincere l’importante riconoscimento fotogiornalistico del World Press 2006?
    È stato importante, ma è stato solo l’inizio. Quest’anno ho vinto altri tre premi importanti. Però non è assolutamente un punto di arrivo, anzi. Circa sei anni fa ho cominciato a pensare di dedicarmi a tempo pieno al fotogiornalismo e da subito si sono presentati ostacoli e contrattempi. La crisi del mercato e i grandi cambiamenti tecnologici hanno ridotto di molto le possibilità di lavoro.
    Circa tre anni e mezzo fa è nato mio figlio e per sfidarmi ulteriormente ho deciso di stare più vicino alla mia famiglia. L’anno successivo mia moglie Paola scoprì di avere un tumore al seno e contemporaneamente anche mia suocera si ammalò gravemente. Come potete immaginare avevo ben poco tempo e voglia di dedicarmi al mio lavoro…

    Ci vuoi parlare di come avete superato questo problema?
    Abbiamo fatto tanto Daimoku, e i nostri compagni di fede ci hanno sostenuto e aiutato continuamente. La casa era aperta tutti i giorni e facevamo molte ore di Daimoku al giorno. Paola è stata molto forte ad affrontare tutto, dalla chemioterapia alle operazioni. Mentre era in ospedale ha fatto anche tanto shakubuku! Inoltre, anche se non lavoravo, è come se il Gohonzon mi avesse protetto: mi arrivavano continuamente soldi per foto vendute nelle parti più disparate del mondo (il Daimoku arriva in tutto l’universo), soldi che mi hanno permesso di andare avanti in quel periodo e di stare vicino a Paola e Michele.

    Torniamo allora a questo premio prestigioso: il World Press Photo.
    Non appena Paola è stata meglio, gli organizzatori del Festival Internazionale di Fotografia di Roma mi hanno incaricato di documentare la situazione del dopo tsunami in Indonesia. Arrivai in quei posti disastrati, dove scattai moltissime foto. Ogni cosa che fotografavo era importantissima, densa di significato. Mi aveva accompagnato una ragazza indonesiana, membro della Comunità di Sant’Egidio (collaboro con loro da tanti anni e ho stretto anche grandi rapporti di amicizia).
    Quando notai la zona, dove poi ho scattato la foto che è stata premiata, una zona poco visitata dagli altri reporter, la ragazza che era con me si allontanò piangendo perché aveva paura del mare, anche se in quel momento era incredibilmente calmo! Credo che il successo della foto sia dovuto quindi, oltre che al contenuto artistico, anche e soprattutto alle forti emozioni che l’hanno accompagnata. Vorrei sottolineare poi che la “buona fortuna” mi ha consentito di vincere un premio importante con l’unico lavoro che mi era capitato in più di un anno. La notizia del premio mi è stata data da Maria Lucia De Luca. Anche questa è stata una cosa strana. In genere controllo sempre i risultati dei premi fotografici, invece quella volta non lo avevo fatto. Il World Press mi comunicò la notizia la sera, ma erano arrivati prima i miei compagni di fede. Uno degli sponsor di questo reportage, inoltre, era un paese della Sardegna, che ha fatto una vera e propria festa quando ha saputo del premio! È stata quindi una vittoria di gruppo, e per me una grande conferma che i miei sforzi di non far prevalere l’ego nel mio lavoro stanno avendo ottimi risultati. È una dura lotta con me stesso, ma anche una missione.

    Possiamo dire, quindi, che anche il successo può essere un mezzo per la realizzazione di kosen-rufu?
    Certamente. Queste vittorie sono dei punti di partenza. Il mio lavoro è duro, anche perché sono spesso impegnato in progetti a lunga scadenza, per cui mi devo autofinanziare e spesso non recupero nemmeno le spese. Ma ho fatto questa scelta e ne sono fiero. Cerco di affidarmi completamente al Gohonzon per superare ogni difficoltà. La caratteristica di questo lavoro, infatti, è che si vive sempre sul “filo del rasoio”: in bilico tra successo e fallimento, senza vie di mezzo. Quando facevo foto commerciali guadagnavo di più e in maniera più continua. Ma tutta la mia vita è stata un continuo mettermi in discussione e mi sono affidato al Gohonzon anche quando le mie scelte potevano sembrare in contraddizione tra loro. La mia esperienza la racconto continuamente negli zadankai; cerco di incoraggiare gli altri come meglio posso. Mi piacerebbe, un giorno, raccontare la mia storia, magari a un corso buddista.

    Pensi di poter cambiare il mondo?
    Beh, (sorride) sono convinto che più riesco a sensibilizzare l’umanità più posso lavorare in questo senso. Non voglio però, per questo, fotografare solo tragedie. Mi sto dedicando a documentare situazioni di vita più “normali”. Certo è più difficile fare una bella foto piena di significato ritraendo la “banale” vita quotidiana, ma mi sto sfidando proprio in questo. Voglio allenarmi a cogliere, anche in poco tempo, l’anima del posto in cui mi trovo, raccontare attraverso le immagini la vita delle persone dal punto di vista buddista, mettendo dietro l’obiettivo della macchina fotografica l’”occhio del Budda”.

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