Sessant’anni fa, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un documento attuale ancora oggi, spesso inascoltato e calpestato. Solo la strada dell’umanesimo, come ci indica il presidente Ikeda, può aiutarci a comprendere l’altro e a fare delle differenze la nostra ricchezza
Il 10 dicembre 1948 veniva firmata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Lo scopo, all’indomani della Seconda guerra mondiale, era quello di salvaguardare la dignità di ogni singolo individuo garantendo a ognuno il rispetto di libertà considerate fondamentali. A sessanta anni di distanza questo documento racchiude ancora un grande senso di novità e di attualità. L’articolo 2 della Dichiarazione stabilisce la parità delle persone «senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere» ma la realtà è spesso tutt’altro che aderente a questo principio, innumerevoli volte disatteso e calpestato sia da governi e istituzioni sia da singole persone. Nel corso di questi sessant’anni nuove leggi, trattati, convenzioni, hanno visto la luce, sempre nel tentativo di frenare e arginare fenomeni come il razzismo e le discriminazioni di ogni genere. Ma, come già il presidente Ikeda aveva anticipato molti anni fa, nulla convincerà gli uomini a cambiare se non la comprensione profonda dell’uguaglianza tra le singole persone e della grandezza che ogni individuo, senza distinzioni, si porta dentro. Un’empatia che può venire solo dal cuore. Mentre era in viaggio negli Stati Uniti nel 1960 si domandò se ad abolire l’ingiustizia nei confronti degli afroamericani e a garantire loro la felicità sarebbe bastato il riconoscimento dei diritti civili e politici. La sua risposta fu: no, «giacché la causa fondamentale di questi problemi risiede nei pregiudizi e nei preconcetti profondamente radicati nel cuore delle persone» (NRU, 1, 142).
Nel Sutra del Loto i princìpi della sacralità della vita
Ma perché il pregiudizio è in grado di attecchire così facilmente nel cuore delle persone? Le risposte possono essere tante, ma alla fine risulta inutile conoscere i meccanismi della mente o della società se non si comprende anche il come cambiare tali tendenze. Nel Buddismo di Nichiren Daishonin non c’è spazio per l’esclusione, ce lo insegna il comportamento del Bodhisattva Mai Sprezzante, che aveva sempre nel cuore e nella mente la consapevolezza che ogni uomo è un Budda degno di rispetto e di attenzione. Come potrebbe un Budda disprezzare altri Budda e non gioire, invece, dell’incontro con altri esseri umani, così diversi e, proprio, per questo, incredibilmente preziosi? Non nelle leggi o nei trattati internazionali, ma nel Sutra del Loto, sono racchiusi i princìpi regolatori della società, della sacralità della vita – di ogni singola vita – i princìpi di un atteggiamento rispettoso in grado di sviluppare gioia e felicità per ogni essere umano. «Rispettare le persone è il pensiero centrale del Sutra del Loto e deve essere l’asse principale della pratica buddista» ci ricorda il presidente Ikeda (NR, 316, 19). È su questa base che sensei continua da anni instancabilmente a lavorare per diffondere l’umanesimo buddista e quindi la pace e la comprensione profonda tra gli esseri umani. Attraverso il dialogo, l’attenzione, la partecipazione è possibile incontrare l’altro su un terreno comune e sentirsi così parte di una medesima realtà, di uno stesso progetto di vita. Nella proposta di pace 2005 egli scrive: «Occorre accettare tutto ciò che è umano senza discriminazioni rifiutando di circoscrivere le persone o stigmatizzarle sulla base dell’ideologia, della nazionalità o dell’etnia. Bisogna decidere di ricercare attivamente ogni possibile occasione di dialogo e non permettere mai che le strade in questa direzione vengano interrotte».
Percorrere la strada dell’umanesimo
Tutte le proposte di pace che dal 1983 sensei invia alle Nazioni Unite hanno un filo conduttore che si può sintetizzare con la parola “umanesimo”. Una parola che racchiude la volontà di incontrare le persone, di realizzare un percorso in cui gli individui tutti si ritrovino “felici e a proprio agio”. «Il vero dialogo sfocia nel cambiamento degli opposti punti di vista, trasformandoli da solchi che separano gli individui in ponti che li uniscono» (Daisaku Ikeda, Proposta di Pace 2001).
A volte possiamo non renderci conto della distanza che ci separa dagli altri, della superficialità con cui viviamo le relazioni con chi ha un diverso colore di pelle o tradizioni e idee differenti dalle nostre. A volte possiamo essere tentati di non riconoscere in noi atteggiamenti che non ci piacciono, ma è davvero meraviglioso, spesso confortante, scoprire che è solo la paura che in certe circostanze ci fa agire in modo arrogante e presuntuoso. Una paura che è frutto sia di ignoranza – quel demone che non ci fa guardare la Buddità inerente nella vita di ognuno – sia di “pigrizia mentale” come la definisce Ikeda. «La paura costruisce steccati di odio e di discriminazione […]. Un tale atteggiamento è il riflesso della pigrizia mentale che ci frena dal coltivare la comprensione e la fiducia reciproche e dallo sviluppare la perseveranza e la risolutezza necessarie per impegnarsi nel dialogo» (D. Ikeda, Proposta di Pace 2001, pag. 39). Quale grande occasione abbiamo, nell’incontro con gli altri di parlare, capire e apprezzare le persone che incontriamo. «Shakubuku è rispetto degli altri, desiderio di condurli all’Illuminazione […]. Dunque il suo significato fondamentale consiste proprio nel rispettare gli altri» (Daisaku Ikeda, NR, 316, 16).
Tutti ugualmente esseri umani
Il principio di umanesimo buddista incarna quel concetto di umanità universale in cui profondamente credeva chi per anni si è battuto contro le discriminazioni razziali. Martin Luther King, che diede vita al movimento per i diritti civili e Nelson Mandela, leader della lotta contro l’apartheid in Sud Africa, hanno lottato tutta la vita per il riconoscimento della dignità di tutti gli individui e del rispetto dovuto a ognuno, proprio come previsto dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Nel corso di una delle sue visite ai membri americani Ikeda fece questa riflessione: «L’idea di “genere umano” comprende una grande varietà di aspetti. Esistono infatti razze, gruppi etnici, lingue, culture e nazionalità molto diverse fra loro, proprio come non esistono due persone completamente uguali. […] Le persone, però, hanno sempre avuto la tendenza a enfatizzare le differenze, a classificare i propri simili in categorie, rendendo inevitabili le discriminazioni. La storia ha visto infinite divisioni e conflitti insanabili fra i membri della stessa famiglia umana, e tutto a causa dell’attaccamento alle differenze» (NRU, 1, 146). Esistono dunque negli esseri umani due tendenze: il desiderio di rimanere ancorati alla propria “diversità” negativizzando quella dell’altro e il tentativo di unificare, massificare tutto ciò che si ritiene faccia parte della propria cultura e di accettare all’interno del proprio circolo solo ciò e chi si ritiene simile, aderente, uguale. Ma che cos’è uguale? Albert Einstein risolse tale dilemma con una battuta. Allo sbarco in America, in fuga dalla Germania nazista, sul modulo dell’immigrazione in cui si chiedeva di rispondere alla domanda: razza di appartenenza, lui scrisse: razza umana. Trovata di un genio che racchiude una semplice verità. In questa appartenenza unica, ma non uguale, rientrano categorie infinite di persone con le loro tendenze, aspirazioni, esperienze, potenzialità. Tutti esseri umani. È questa, dunque, la nostra sfida: coltivare differenze e identità in egual misura, imparando e scambiando, ricevendo e donando. Dialogando.
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Il Documento / 1 – Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo fu firmata a Parigi il 10 dicembre 1948. La sua redazione, voluta dalle Nazioni Unite, fu dettata dall’ondata di indignazione che seguì la fine della Seconda guerra mondiale e il disvelamento delle atrocità compiute negli anni del conflitto. L’intento dei suoi estensori (tra cui Eleanor Roosvelt, Renè Cassin, John Peters Humphrey) era quello di elaborare i princìpi per un futuro di pace, concordia tra i popoli, fratellanza universale. Niente più nazionalismi, campi di sterminio, bombe atomiche. Per un futuro così bisognava partire dal rispetto di ogni singolo essere umano, senza alcuna distinzione.
In quanto Dichiarazione di princìpi, appunto, essa non è giuridicamente vincolante. Tuttavia i diritti e le libertà in essa contenute sono ormai considerate, dalla gran parte delle nazioni civili, alla stregua di diritti inalienabili. La Dichiarazione è costituita da un preambolo, in cui sono indicate le condizioni storiche e sociali che ne hanno reso necessaria la stesura, e trenta articoli che sanciscono i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali di ogni persona. Tale Dichiarazione rappresenta la base di molte conquiste civili ottenute nei decenni successivi e il fondamento di altri documenti analoghi.
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Il Documento / 2 – Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali
Quarant’anni di distanza. 1938: lo stato italiano vara la legislazione razziale (una serie di leggi e decreti che esplicitano, rimarcano e incitano il razzismo nel nostro paese). 27 novembre 1978: a Parigi la Conferenza generale dell’UNESCO vota all’unanimità la Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali. Nel documento si definisce priva di ogni fondamento scientifico qualunque dottrina che pretende di attribuire alle differenze di razza differenze attitudinali, intellettuali e psichiche. I dieci articoli che costituiscono la Dichiarazione, difendono il diritto a mantenere la propria identità di origine e culturale senza il rischio di essere stigmatizzati. Si chiarisce, inoltre, che «ogni intralcio al libero e pieno sviluppo degli esseri umani e alla libera comunicazione tra essi, basato su considerazioni razziali o etniche, è contrario al principio di uguaglianza in dignità e diritti; esso è inammissibile». La Dichiarazione insiste sull’importanza di ogni cultura come “patrimonio comune dell’umanità”. Infine, dà grande importanza al ruolo dei mezzi di informazione e coloro che li detengono, che sono chiamati «a promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia tra gli individui e i gruppi umani, e a contribuire a eliminare il razzismo, la discriminazione razziale e i pregiudizi razziali, evitando in particolare di presentare in maniera stereotipata, parziale, unilaterale o capziosa individui e differenti gruppi umani».
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Cittadinanza senza Confini / 1 – Budda tra Budda
Quando ho ascoltato Nam-myoho-renge-kyo la prima volta, ero in Italia da un po’ e avevo nostalgia dell’isola Mauritius. Dopo una esperienza di lavoro con una donna malata allo stato terminale ho deciso di riprendere in mano la mia vita. Ho trovato una stanza per me in una casa insieme ad altre persone, tutte e tre buddiste. Così ho iniziato a praticare, era il 1996. Da allora ho vissuto tantissimi cambiamenti. Ho iniziato lavorando come colf e badante, lavori che ho svolto con gioia e sempre assunta con contratto, poi ho trovato lavori più qualificati. A suon di Daimoku vedevo un problema e decidevo di risolverlo, senza paura, con gratitudine, impegnandomi molto anche nell’attività. Per un periodo sono tornata a Mauritius e anche lì mi sono dedicata tanto all’attività buddista: siamo riusciti a superare una grave crisi che ci rendeva disuniti nella Soka Gakkai. Contemporaneamente ho visto sciogliersi la freddezza tra me e mia madre, conseguente al fatto che sono cresciuta con una zia perché alla mia nascita la mamma non stava bene. Subito dopo mi hanno richiamata in Italia per offrirmi dei lavori interessanti. A Napoli dopo aver coordinato un progetto internazionale in una scuola superiore di design ho trovato un buon lavoro, come segretaria in un’azienda, dove mi occupo anche di progetti all’estero. Viaggio, faccio shakubuku, sono responsabile di gruppo. Rappresento un’azienda di Napoli e non dimentico mai di dare un’immagine positiva di questa città a cui sono grata per avermi offerto tanto. Ho deciso di seguire la guida di sensei che ci chiede di essere cittadini del mondo e così oggi mi sento a casa sia a Mauritius che in Italia, grazie anche ai compagni di fede con cui non percepisco la diversità del colore della mia pelle, ma sento di essere un Budda tra Budda.
Mitzi
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Cittadinanza senza Confini / 2 – Nessuna frontiera nel cuore
Ho iniziato a praticare nel 1995 in Camerun, nonostante la mia famiglia di origine cristiana mi ostacolasse. Giocavo a basket: avrei voluto realizzare kosen-rufu anche tramite questo sport e venire in Europa per crearmi una vita migliore. I miei genitori, però, non potevano aiutarmi economicamente. Così decisi di rischiare, di contare solo sulle mie forze, e lasciai il Camerun. Ho vissuto in tanti paesi diversi, in particolar modo ricordo i membri della Costa d’Avorio con i quali ci incontravamo per recitare Daimoku durante un sanguinoso colpo di stato. Proprio durante quel periodo assistetti a una partita di basket, al termine della quale decisi di ricominciare a giocare insieme alla squadra che aveva perso. Non lo sapevo, ma quella squadra era l’unica della Costa d’Avorio che partecipava ai tornei in Europa. Dopo poco mi ritrovai in Francia, con un visto di due settimane e da lì entrai in Italia con un visto di soli quattro giorni, eppure determinatissimo a non tornare indietro. Tenevo nel cuore la frase «Nam-myoho-renge-kyo è come il ruggito di un leone quale malattia può quindi essere un ostacolo?» che mi dava coraggio. Iniziai a recitare Daimoku per poter avere documenti regolari. Dopo sei mesi il governo decise di regolarizzare circa 750.000 clandestini, e tra questi c’ero anch’io. Oggi vivo a Bologna e lavoro come mediatore culturale al Centro di Permanenza Temporanea, anche grazie al fatto che parlo francese, inglese e italiano. Nel frattempo mi sono sposato e mia moglie, dalla quale ho avuto un figlio, grazie al mio atteggiamento di fronte alle difficoltà e ai benefici ottenuti, ha deciso di praticare. Qualche tempo fa mia madre è venuta in Italia e ha partecipato a una riunione di discussione. Sento di avere superato tante difficoltà legate al razzismo e sono orgoglioso d’essere nato in Africa. Ho viaggiato senza soldi alla ricerca di me stesso, aprendo la strada del mio cuore e della mia vita solo con il Daimoku. So che continuerò ad agire con gratitudine per il mio maestro Ikeda e per la Soka Gakkai di tutti i paesi in cui ho praticato.
Gaetan
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Cittadinanza senza Confini / 3 – Lontani e vicini allo stesso tempo
Come fisioterapista in Ucraina non riuscivo a mantenere la mia famiglia e così da sei anni sono venuta in Italia, dove lavoro come badante. Aiutare anziani non è sempre stato facile e dopo la scomparsa dell’ultima persona che ho accudito mi sono intristita, avevo paura a cercare una nuova famiglia. Un giorno è arrivata l’ennesima proposta di lavoro, ma la voce gentile al telefono mi ha colpito molto. Ho sentito che era la famiglia giusta. Il primo giorno ero davvero preoccupata e a disagio ma quando Ilaria, la figlia della donna a cui faccio compagnia, mi ha detto che era buddista la tensione si è sciolta: da noi si dice che chi è buddista è più sincero. Il suono del Daimoku mi ha affascinato e subito ho desiderato provare. Con grande stupore ho iniziato a sentirmi meglio: non piango più ogni giorno per mio figlio gravemente malato. Oltre a preoccuparmi per la mia famiglia so che posso gioire per la mia vita. I problemi restano, ma adesso, grazie al Daimoku, li vedo con più speranza e leggerezza. Non ho più paura di andare avanti. Durante le riunioni buddiste, pur non comprendendo tutte le parole, dentro di me emerge una serenità mai provata prima. Soprattutto mi sento in famiglia: non importa come sono vestita, conta solo pregare insieme con sincerità, mentre in Ucraina durante i culti si è molto attenti alle apparenze. Ringrazio Ilaria che mi ha incoraggiato a non aver timore della vita. Vorrei che tutte le donne con problemi e ansie come me provassero a pronunciare Nam-myoho-renge-kyo. Non costa niente sperimentare.
Lyba
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Cittadinanza senza Confini / 4 – Dalle Ande agli Appenini
Ho quarant’anni e vengo dal Perù. Per la mancanza di lavoro, sono stata costretta a emigrare lasciando con estrema sofferenza i miei familiari e i miei tre figli. Il viaggio come clandestina è stato durissimo e pieno di incognite: nei diciassette giorni, tanto è durato, a ogni frontiera correvo il rischio di essere rimandata indietro. Fortuna volle che, pur non conoscendo la lingua, trovassi lavoro come badante dopo solo cinque giorni dal mio arrivo, ma, quando l’anziano che accudivo venne a mancare, rimasi senza lavoro e senza alloggio. Un giorno, un vicino di casa molto gentile mi avvicinò, facemmo amicizia e mi parlò della pratica buddista. Non iniziai subito, mi vergognavo anche perché non sapevo dire bene quella frase, ma, incoraggiata da questa persona, cominciai una pratica corretta con l’obiettivo di trovare lavoro. Recitavo Daimoku anche per lui, perché me n’ero innamorata, la mia pratica si approfondiva e conoscevo tante belle persone che mi aiutavano. Ritrovai lavoro e mi fidanzai con lui. La sofferenza più grande era comunque la lontananza dai miei figli, erano già cinque anni che non li vedevo e che li sentivo solo per telefono. E loro intanto crescevano. Riuscivo a mandare loro quasi tutti i soldi che guadagnavo grazie ai quali mia madre e i miei figli si stavano facendo costruire una casa in Perù. Purtroppo una mia connazionale che credevo amica, conosciuto il figlio dell’anziana che accudivo fece di tutto per prendere il mio posto di lavoro. Ero disperata ma, incoraggiata dal mio compagno, cercai di “trasformare il veleno in medicina”. Recitavo Daimoku e facevo colloqui di lavoro finché accettai un lavoro fuori dalla città dove vivevo presso una famiglia di persone eccezionali che hanno subito dichiarato che appena fosse stato possibile mi avrebbero assunto regolarmente. In più mi occupo di due bambini stupendi. Ero felice, ma il mio desiderio era tornare a trovare i miei figli. Ho recitato tanto per questo e due mesi fa è arrivato il tanto sospirato nullaosta che mi ha permesso di tornare in Perù, riabbracciare la famiglia, rientrare regolarmente in Italia ed essere assunta a tutti gli effetti.
Giovanna