L’Istituto Buddista ha ospitato al Centro culturale di Firenze la mostra fotografica di Oliviero Toscani, rilanciando l’appello della moratoria della pena di morte
In occasione del sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, nell’ambito del programma del Festival della Creatività, la Regione Toscana, il comune di Firenze – l’idea è partita dal presidente della V Commissione cultura Dario Nardella – e l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai (che ha ospitato l’evento) insieme al Comitato sviluppo paesi emergenti hanno promosso dal 22 al 29 ottobre la mostra fotografica di Oliviero Toscani “Noi nel braccio della morte”.
La mostra, edita nel 2000, ritrae vari condannati a morte e le rispettive testimonianze sotto forma di interviste. «Le foto scuotono dall’illusione – dice Andrea Bottai, aprendo gli interventi all’inaugurazione la sera del 22 ottobre – Toscani ci mostra gli intoccabili e ce li presenta in tutta la loro struggente umanità». Rocco Toscani, figlio di Oliviero e curatore del montaggio e della post-produzione del video che accompagna le foto, ci racconta la sua esperienza: «Ci sono voluti due anni solo per ottenere i permessi negli Stati Uniti, mentre tutti gli altri paesi ce li hanno negati. Del “braccio”, ricordo l’odore della morte. I detenuti attraverso i cancelli, mani e piedi incatenati, hanno addosso quell’odore acre; è come se il loro corpo si fosse già arreso». Michele Brancale della Comunità di Sant’Egidio aggiunge: «La pena di morte non serve a niente, è statisticamente provato che il tasso di criminalità e violenza è più alto nei paesi che la applicano. La pena di morte non è un omicidio casuale, c’è dietro un’organizzazione che premedita e prepara la morte. Uno stato intero contro un individuo». Brancale ricorda poi l’esperienza condivisa con l’Istituto della raccolta di firme come una vera avventura umana. Il fatto che l’Assemblea Generale dell’ONU a New York abbia approvato la moratoria nel dicembre 2007 è significativo per tutto il lavoro svolto dalle differenti organizzazioni italiane: l’intera campagna ha raccolto infatti due milioni di firme di cui 700.000 solo da parte della Soka Gakkai italiana. Anna Carli, presidente della Fondazione Rocco Dereck Barnabei, ha riportato la testimonianza del giovane condannato, riflettendo sulla sofferenza delle vittime e dei loro familiari.
La visita alla mostra fotografica lascia ammutoliti e fa vivere la sofferenza dei protagonisti. William Quentin Jones, giustiziato il 22 agosto 2003 per iniezione letale, amava viaggiare con la mente per andare a trovare la madre e la figlia, per parlare con loro. In un luogo dove ogni momento potrebbe essere stato l’ultimo, William soffriva per la mancanza di cose semplici come l’odore fresco del mattino o camminare in un giorno di pioggia. Joseph Amrine, detenuto dal 1989 e rilasciato nel 2003, non è impazzito grazie alla sua determinazione: «Avrei scontato la pena fino all’ultimo, non avrei mai permesso alla pena di scontare me». Harvey Lee Green, giustiziato il 24 settembre 1999 per iniezione letale, per sopravvivere faceva il gioco del “se”: «…e se domani ti vengono a prendere e ti portano nella camera? …e se vengono adesso?». Cesar Francesco Barone, ancora detenuto dal 1995, non ha mai smesso di sperare. Noi con lui e insieme a tutti coloro che difendono la dignità della vita possiamo sperare di abolire la pena di morte nel mondo intero.