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Una melodia semplice - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 15:42

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Una melodia semplice

Tanti anni fa, durante un corso al Centro culturale di Kanagawa in Giappone, Giancarlo, musicista professionista, rimase “conquistato” udendo il presidente Ikeda suonare il pianoforte. Non fu la tecnica ma l’intensità, la gioia e la profondità immensa che percepì a farlo decidere di lottare al suo fianco e da allora… non si è più fermato

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Tanti anni fa, durante un corso al Centro culturale di Kanagawa in Giappone, Giancarlo, musicista professionista, rimase “conquistato” udendo il presidente Ikeda suonare il pianoforte. Non fu la tecnica ma l’intensità, la gioia e la profondità immensa che percepì a farlo decidere di lottare al suo fianco e da allora… non si è più fermato

Redazione: C’è una persona in particolare che ti ha fatto decidere di iniziare a praticare il Buddismo?

GIANCARLO MAURINO: Sono un musicista e in quel periodo suonavo con un gruppo di artisti che praticavano e che hanno diffuso il Buddismo in tutta Italia. Girando con loro sentivo spesso il suono del Daimoku che mi affascinava. Posso dire che mi hanno fatto conoscere il Buddismo in gruppo, perché una sera ero andato a sentire un loro concerto e all’uscita, uno dopo l’altro, me ne hanno parlato tutti. Il mio grande amico Karl si ricorda di essere stato il primo della serie. Mi confrontavo continuamente con una mia particolare caratteristica, quella di essere molto sensibile, troppo, e questo mi rendeva assai vulnerabile alle influenze esterne. Spesso mi capitava che davanti a un problema mi paralizzavo, invece di agire. Decisi così di sperimentare anch’io la pratica buddista per cambiare questo mio atteggiamento, volevo provare a vedere se funzionava e… funzionava! Praticando riuscivo sempre di più a trasformare la mia condizione interiore.

Redazione: La tua pratica è sempre stata costante, o hai avuto periodi di crisi?

GIANCARLO: Ho ricevuto il Gohonzon nel 1977. Ho attraversato molti momenti di crisi nella mia vita, ma la mia fede è sempre stata un punto fermo, a volte l’unico. Nel 1993, a un certo punto, sopraffatto dalle difficoltà che stavo attraversando, ho sentito di dover lasciare la responsabilità che avevo portato avanti da quando avevo ventitré anni. Senza dubbio è stato un periodo molto duro, ma non ho mai smesso di recitare Daimoku, fare shakubuku e andare alle riunioni. Sono seguiti anni di dure prove e sofferenze dovute alla separazione da mia moglie e alla morte, in pochi anni di quasi tutti i miei familiari più vicini. Anche la condizione economica era difficile e ho sperimentato livelli di precarietà fino ad allora sconosciuti. Nel 2000 morirono entrambi i miei amatissimi genitori a tre mesi di distanza e come figlio unico è stato un colpo durissimo. Grazie a mia madre ho potuto vivere un’esperienza molto profonda e accompagnarla con il Daimoku verso la morte, che è stata serena: mostrava un aspetto luminoso e sembrava una regina. Tutto questo è stato per me un grande incoraggiamento. Fortunatamente sua sorella, cioè mia zia che ha ottant’anni, l’unica rimasta viva tra i miei parenti, gode di ottima salute e usa il computer da cinque anni anche per comunicare con i cugini sparsi nel mondo. Mentre affrontavo queste vicissitudini mi hanno proposto una responsabilità nella zona di Roma dove abitavo e così ho potuto nuovamente fare un’esperienza preziosa e comprendere profondamente come la responsabilità nella Soka Gakkai non abbia niente a che vedere con la formalità. Quello che conta è la decisione, da approfondire giorno per giorno, di seguire la vera intenzione, che spesso chiamiamo “cuore”, del presidente Ikeda: il suo desiderio è che tutti diventino felici e ottengano la Buddità, quindi il compito del responsabile è solo quello di sostenere i membri nella pratica buddista, rispettandoli e valorizzandoli. Penso che il legame tra maestro e discepolo sia la relazione più importante nella vita e devo proprio al legame con sensei la vittoria su tutte le mie difficoltà e la capacità di trasformarli in occasione di sviluppo.

Redazione: Quando hai cominciato a praticare vivevi a Roma?

GIANCARLO: Sì, vivevo a Roma in una stanzetta in subaffitto. Ricevetti il Gohonzon proprio in quella stanza dove avevo allestito un altarino davanti allo sguardo incredulo della mia compagna. Mitsuhiro Kaneda e Hiroaki Nakada, i responsabili di allora, mi fecero visita alle otto di mattina e mi affidarono il Gohonzon.

Redazione: Quanti eravate e come eravate organizzati?

GIANCARLO: Eravamo pochissimi; quando ho iniziato c’erano due capitoli che si chiamavano Roma e Lazio, che contavano circa una settantina di persone. I primi tempi andavo tranquillamente alle riunioni di discussione e non pensavo proprio a come eravamo organizzati, ma un giorno del ’79 venne a trovarmi Kaneda e a un certo punto, guardando fuori dalla finestra, con tono improvvisamente serio, mi disse: «Giancarlo… devi prepararti ad assumere una grande responsabilità!». Non avevo la più pallida idea di cosa intendesse dire e ci ho messo almeno due anni per cominciare a capire qualche cosina. In ogni caso, al corso estivo di Bardonecchia di quell’anno, partì la nuova organizzazione che a questo punto vedeva riuniti i due capitoli in uno, che credo si chiamasse capitolo Sud Italia. Oltre ai membri di Roma che erano riuniti in quattro settori, c’erano i pionieri che cominciavano in Sicilia, Campania e Puglia mentre, in un primo momento, la Sardegna veniva sostenuta dai membri della Lombardia. In corrispondenza alla visita del presidente Ikeda nel 1981, Kaneda si trasferì a Firenze e tutta l’attività, che fino a quel momento si svolgeva nella sua casa si spostò per un po’ di anni nella mia casa in zona Portuense: c’erano solo due stanze, una per il Gohonzon e una camera da letto, dove avevamo un telefono con un filo lunghissimo che ognuno si portava dietro secondo le necessità, una fotocopiatrice e una macchina da scrivere. Capitava a volte di andare in bagno e di trovare qualcuno che stava dando dei consigli sulla fede! In queste condizioni è stato organizzato a Roma il primo corso estivo italiano con millecinquecento partecipanti, veramente un’esperienza indimenticabile!

Redazione: Che sensazione hai provato la prima volta che hai incontrato il presidente Ikeda?

GIANCARLO: Dopo due anni di pratica, in cui non avevo ancora un’idea molto chiara di cosa fosse l’organizzazione, la figura del maestro e come funzionava un po’ tutto, grazie alla liquidazione per i danni di un incidente mi ritrovai una certa somma di denaro e la mia compagna, che nel frattempo aveva cominciato a praticare, mi suggerì di utilizzarla per andare in Giappone, al tempio principale dove era custodito il Dai-Gohonzon e conoscere il presidente Ikeda. In verità non avevo capito granché del suo ruolo ed ero anche un po’ circospetto nei suoi confronti, fondamentalmente a causa del mio carattere chiuso, ma anche perché allora non avevamo molto materiale informativo. Comunque partii, ventitreenne, carico di ardente spirito di ricerca e una volta arrivato in Giappone mi recai nel Centro culturale di Kanagawa, dove era in programma una riunione con il presidente Ikeda. Una volta arrivato, rimasi per un po’ davanti a uno stand all’interno del Centro dove servivano il sakè caldo con la gentilezza tipica del paese e a un certo punto mi resi conto, vedendo una certa agitazione in giro, che era arrivato Ikeda. Sarà stato anche il sakè, ma rimasi davvero stordito dal suono della sua voce nel recitare Gongyo. L’altra cosa che mi colpì fu averlo sentito suonare il pianoforte. Suonava una melodia semplice, ma con un’intensità tale che trasmetteva una grandissima gioia, qualcosa di infinitamente profondo e io pensai: «Voglio suonare così». È incredibile, io sono un musicista e sensei mi ha conquistato proprio attraverso la musica. Comunque anche dopo quel primo incontro, ero rimasto ancora titubante, finché il presidente Ikeda non è venuto in Italia nel 1981. Dopo quell’incontro cominciai a recitare Daimoku con grande passione, decidendo di contribuire a far sviluppare l’Italia del Centro-sud più di come si era sviluppato il Centro-nord: gli amici di Firenze e Milano infatti erano attivissimi e lì i gruppi crescevano a dismisura.

Redazione: Entriamo un po’ più sul personale. Che desiderava trent’anni fa Giancarlo, quali erano i suoi sogni?

GIANCARLO: Fondamentalmente volevo essere felice e mi rendevo conto che alcuni aspetti del mio carattere me lo impedivano. Recitavo soprattutto per il lavoro e per aprire la mia vita, per vincere sulla mia chiusura. Contemporaneamente facevo tantissima attività e avevo sempre più forte e chiaro l’obiettivo di realizzare kosen-rufu nella mia zona. Più facevo attività per gli altri più aumentavano le occasioni di lavoro per il quale mi spostavo in tutta Italia e, non appena avevo un giorno libero, andavo a trovare i membri della città in cui mi trovavo.

Redazione: Hai realizzato tutti i tuoi obiettivi iniziali?

GIANCARLO: Quelli iniziali sicuramente. Con il tempo ovviamente se ne sono aggiunti anche altri. Oggi posso dire che la mia condizione vitale si è rafforzata in modo straordinario, aprendo la mia vita. Ho capito cosa veramente mi poteva far felice. Prima, oltre alla musica non mi interessava praticamente nulla. Recitando Daimoku per il bene degli altri, invece, ho risolto tutti i miei malesseri e le mie profonde insoddisfazioni.

Redazione: Che consigli daresti a chi comincia a praticare adesso e ha tanti sogni nel cassetto?

GIANCARLO: Di seguire sempre il presidente Ikeda. Chi inizia adesso dispone di una serie di mezzi che noi non avevamo e quindi la qualità della pratica e delle attività è altissima fin da subito. Ma questo potrebbe rappresentare anche un limite. Molti membri non vengono seguiti come si dovrebbe, c’è dispersione e meno entusiasmo. La mia lotta di adesso è quella di far capire bene che occorre mantenere sempre vivo lo spirito di ricerca, rafforzando ogni giorno il rapporto con il maestro.

Redazione: Come uomo e come artista cosa hai imparato dal Buddismo?

GIANCARLO: Ho imparato a ricercare e a creare l’armonia, ovunque sono e con chiunque. Ora mi sto sforzando di migliorare la qualità di ciò che faccio, in tutti gli aspetti della vita.

Redazione: Parliamo un po’ della Divisione uomini. So che nei primi tempi era una struttura portante nell’organizzazione, addirittura, se non ricordo male, i responsabili erano solo uomini. Sono cambiate molte cose da allora…

GIANCARLO: Quando ho iniziato a praticare avevo ventitré anni, ma per necessità ero responsabile della Divisione uomini. In realtà eravamo tutti giovani, ma a Roma i nuovi giovani scarseggiavano a differenza di Milano e Firenze dove erano molto più numerosi. Lì il timone delle attività era in mano ai giovani, ma nel Centro-sud la maggior parte dei membri erano adulti. Abbiamo fatto una gran fatica a creare una forte Divisione giovani qui, ma quando è partita è stata inarrestabile.

Redazione: Te la senti di darci delle indicazioni su come possiamo ottimizzare la collaborazione tra divisioni, considerando un po’ tutti i passaggi che in questi anni ci sono stati?

GIANCARLO: Nel 1985 ho partecipato a un viaggio in Giappone e in quella occasione siamo stati ospitati a gruppi nelle case dei membri di Tokyo. In particolare io sono andato a casa dei coniugi Noda, entrambi praticanti di “lungo corso”. Mi ricordo che la mattina il signor Noda, che aveva allora più di settant’anni, alle otto era già uscito (dopo aver recitato due ore di Daimoku) per accompagnare un suo shakubuku a ricevere il Gohonzon. La sera i membri del quartiere avevano organizzato una piccola riunione durante la quale fu commovente vedere i giovani prendere appunti mentre parlavano gli adulti, pieni di gratitudine per le esperienze che sentivano, e vedere gli adulti evidentemente felici e orgogliosi quando i giovani parlavano ed esprimevano le loro determinazioni. Questa scena mi è sempre rimasta impressa e mi ha dato indicazioni per l’attività. Indubbiamente il punto di partenza per creare una grande collaborazione è la fede, e quindi la volontà comune di promuovere kosen-rufu e, dal punto di vista personale, il coraggio di combattere l’oscurità interiore.
Il rispetto profondo per gli altri, inoltre, deve essere il fondamento delle nostre azioni, e credo che perseguire questo atteggiamento porti naturalmente a ottimizzare la collaborazione. Il rispetto, poi, non può rimanere confinato nell’ambito delle chiacchiere, ma si deve palesare nelle azioni: il modo di comunicare o trasmettere le informazioni nell’ambito delle attività buddiste, ad esempio, può essere per noi un terreno di sfida e crescita sia personale che collettiva e un modo concreto di esercitarci nella pratica del rispetto.
Condividere le cose ha un effetto molto positivo: migliora la collaborazione, allena al dialogo e aumenta la coesione tra giovani e adulti, tra uomini e donne. Dialogare e decidere insieme è quindi di importanza vitale. Itai doshin in fondo significa condividere lo stesso voto del Budda e su questa base valorizzare al massimo le capacità di ogni persona. La famiglia Soka è proprio questo.

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