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Oltre il muro, l'infinito - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 17:31

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Oltre il muro, l’infinito

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Avevo innalzato un confine tra me e gli altri: ero intrappolata nella gabbia che io stessa avevo costruito. Sono seguiti anni di Daimoku, di attività per gli altri ma senza vedere nessuna trasformazione. Ostinatamente continuavo a recitare perché era lì tutta la mia speranza.

di Giulia S., Reggio Calabria

Riunione di discussione, una donna prende la parola e ci descrive il muro che la separa dagli altri. Già… il “muro”. So bene di cosa parla, eppure realizzo solo adesso che il mio muro è svanito, non c’è più. Faccio un lungo passo indietro.
Ho undici anni e un unico grande amore: mio padre, che si ammala gravemente e viene ricoverato in una clinica a Roma. Mi portano da lui, non lo vedo da un mese, tante cose da raccontargli… ma lui mi rimprovera, severo come sempre, perché ho risposto male al nonno. È il momento di andare via. Mi chiede un bacio, ma sono offesa: «No, non te lo do!». Ci scambiamo un ultimo sguardo, il suo di richiesta, il mio di rifiuto. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Il primo mattone del muro: il bacio negato.
Mia madre, casalinga, vedova a trentaquattro anni e due figli: io e mio fratello di nove anni. Siamo due estranee. Lei e mio fratello, io e mio padre, era questo il nostro equilibrio familiare, spezzato dalla morte di mio padre. Mia mamma, fragile e insicura, iniziò una relazione con un uomo che venne ad abitare con noi, subito accettato da mio fratello: loro tre da un lato, io dall’altro. L’autoesclusione: un altro mattone del muro. Decisi di essere la nemica di ogni cambiamento e iniziò la lotta terribile e devastante tra me e mia madre, infinite parole spiacevoli, di quelle che lasciano il segno. Io, piena di rancore e astio nei suoi confronti per aver sostituito mio padre, le rimproveravo di essere lontanissima dalla mamma ideale che immaginavo forte e traboccante di calore e di affetto. Lei, dall’altra parte, riteneva che la presenza di un uomo al suo fianco fosse fondamentale.
Mi esercitavo a non dimostrare emozioni, al mutismo, alla resistenza al pianto, all’impassibilità, niente doveva colpirmi e ferirmi: altri mattoni del muro.
Trascorsero gli anni più brutti della mia vita e al compagno di mia madre, con il quale non avevo mai avuto un buon rapporto, venne diagnosticato un tumore. Durante gli ultimi mesi della sua vita, ci incontravamo nei corridoi di casa, lui sempre più magro e sofferente e io sempre impassibile e muta.
Per la seconda volta mia madre aveva basato tutta la sua esistenza su un uomo e per la seconda volta la vita la metteva in ginocchio. Trovò un altro uomo. Io e lei sempre più distanti. Sognavo una famiglia tutta mia per dimostrare che l’errore non era in me e che se arrancavo a fatica nel mio vivere quotidiano, la colpa era… di mia madre!
La mia più grande paura era quella di somigliarle, e mio malgrado, mi vedevo simile a lei: fragile e bisognosa di colmare il mio vuoto interiore. Affamata di amore mi infatuavo di uomini freddi o non disponibili; mi odiavo tanto e spesso pensavo alla morte come rimedio.
Fu grazie all’ennesimo fallimento sentimentale che iniziai a recitare Daimoku e per la prima volta nella mia vita mi sentii dire che ero solare e accogliente: una crepa nel muro. Continuavo a disprezzare mia madre al punto tale che se lei sbadatamente mi sfiorava, sentivo per l’intera giornata bruciare la pelle nel punto in cui c’era stato il contatto. Uno dei primi obiettivi che mi posi fu quello di diventare una donna di illimitata autostima.
Il primo beneficio fu proprio quello di vedere questo muro. Era il primo corso del territorio Calabria e facevo attività di protezione. In bagno incontro una donna che piange, mi irrigidisco e, incapace perfino di chiederle se potevo fare qualcosa per lei, fuggo via. La mia incapacità di entrare in contatto con quella donna, mi fece capire che avevo innalzato un confine tra me e gli altri: ero intrappolata nella gabbia che io stessa avevo costruito. Sono seguiti anni di Daimoku e di attività per gli altri ma senza vedere nessuna trasformazione. Ostinatamente continuavo a recitare perché era lì tutta la mia speranza.
Nel Gosho di Capodanno Nichiren afferma: «L’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre e trascura sua madre» (RSND, 1, 1008). Iniziavo a comprendere che la mia realizzazione di donna, passava proprio da lì… da mia madre.
Dopo circa quattro anni di pratica decisi di recitare Daimoku per la felicità di mio padre, anche se ancora nutrivo rabbia per il suo abbandono. E finalmente, dopo oltre venti anni dalla sua morte sono riuscita a perdonare lui e me stessa sperimentando così che il potere di Nam-myoho-renge-kyo va oltre il confine di vita e morte.
Iniziai il 2007 ponendomi due obiettivi fondamentali: ripagare il debito di gratitudine nei confronti di mia madre e incontrare l’uomo con cui costruire una famiglia e avere dei figli. A fine gennaio conosco un uomo. La nostra relazione era appena agli inizi quando scoprii di essere incinta e la notizia ci riempì di gioia. Purtroppo vivevamo lontano e nel tempo le incomprensioni tra noi divennero così enormi che decidemmo di lasciarci. Comunico la notizia a mia madre che nel frattempo aveva fissato il giorno del tanto sognato matrimonio con il suo compagno. Improvvisamente, però, la sera stessa si lasciano e trasloca momentaneamente da mio fratello.
Sin dalla prima visita dal ginecologo si evidenziano dei problemi che purtroppo in seguito si sono rivelati fatali per il proseguimento della gravidanza.
Sono arrabbiata, annichilita dal dolore: anche il Daimoku non era servito a niente.
Con estrema fatica torno al Gohonzon; è necessario che scopra il senso di ciò che mi è accaduto. Leggo una frase dal Gosho L’apertura degli occhi: «Sebbene io e i miei discepoli possiamo incontrare varie difficoltà, se non nutriamo dubbi nei nostri cuori conseguiremo naturalmente la Buddità. Non dubitate semplicemente perché il cielo non vi protegge. Non scoraggiatevi perché non godete di un’esistenza facile e tranquilla in questa vita. Questo è quel che ho insegnato ai miei discepoli mattina e sera, ma tuttavia hanno cominciato a nutrire dubbi e abbandonare la loro fede» (RSND, 1, 256). Decido di non arrendermi al pessimismo di mia madre e così attraverso il Daimoku, gli zadankai e la mia attività di responsabile di gruppo, a poco a poco vedo oltre… e lì c’è la mia mamma! Lei che ha deciso di lasciare il suo compagno perché lui non approvava la mia gravidanza “non convenzionale”; lei con me dal ginecologo, lei con me in clinica, lei sempre presente…
Il nodo si scioglie e nasce una profonda e infinita gratitudine, un grazie enorme per gli abbandoni, per le gioie e per le sofferenze, per il pianto, per quell’uomo sbagliato, per la compassione di chi mi ha fatto shakubuku, per il calore che ho percepito alla mia prima riunione, per le storie che ho ascoltato, per quel sorriso che mi ha accolto, per il Daimoku recitato, per le parole buone e per quelle cattive, per quel bambino mai nato, perché nulla è andato perduto, anzi, ho ritrovato mia mamma. Adesso andiamo insieme al cinema, ci confidiamo e, quando lei parte per Roma, ci scambiamo addirittura un bacio… davvero incredibile!
Finalmente il muro tra me e gli altri è crollato e ho la piena consapevolezza che ogni Daimoku, ogni sforzo fatto per l’attività buddista hanno aperto, giorno dopo giorno, nuove impercettibili brecce e finalmente mi sento libera di essere me stessa.

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