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Daimoku e chilometri - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 11:54

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    Daimoku e chilometri

    UMBRIA – Siamo nel 1984 quando per la prima volta nella verde terra umbra si inizia a recitare Nam-myoho-renge-kyo e prendono il via le prime riunioni. I giovani pionieri erano disposti a tutto pur di diffondere il Buddismo del Daishonin, anche a trasformarsi in improvvisati pasticceri… quando non c’era da scappare inseguiti da cani inferociti! A riprova del percorso, duro ma pieno di soddisfazioni, le testimonianze di Cristina, Antonella, Emanuela, Mauro, Giampiero e Rosella

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    UMBRIA – Siamo nel 1984 quando per la prima volta nella verde terra umbra si inizia a recitare Nam-myoho-renge-kyo e prendono il via le prime riunioni. I giovani pionieri erano disposti a tutto pur di diffondere il Buddismo del Daishonin, anche a trasformarsi in improvvisati pasticceri… quando non c’era da scappare inseguiti da cani inferociti! A riprova del percorso, duro ma pieno di soddisfazioni, le testimonianze di Cristina, Antonella, Emanuela, Mauro, Giampiero e Rosella

    Pur di riuscire a far recitare anche solo un po’ di Daimoku alle persone nuove si era disposti a tutto. Anche ad aiutare nella preparazione di dolci, creme pasticcere, tiramisù… «Attenzione che il mascarpone con le uova se girato troppo può impazzire!». Insomma le cose più impensabili come “merce di scambio” con il Daimoku.
    La storia di kosen-rufu in Umbria, per chi l’ha vissuta è sempre un po’ speciale, ma come renderla speciale anche per chi non c’era? E come fare a renderla interessante e d’esempio per il futuro? Mah… forse partendo dalla recitazione del Daimoku, come afferma il presidente Ikeda nei suoi Quattro punti essenziali nella fede (NR, 402, 7): «Toda era solito dire: “Una forte preghiera al Gohonzon verrà sicuramente esaudita. Tuttavia esistono tre condizioni: Daimoku, Daimoku e ancora Daimoku”». E dal Daimoku fatto in una stanzetta la domenica pomeriggio inizia la storia.
    Siamo nel 1984, ottobre, Giuseppe e Malcolm, il primo umbro, il secondo scozzese, che hanno iniziato a praticare a Firenze, si trasferiscono a Spoleto per aprirvi una scuola di inglese. I primi zadankai non sono da definirsi tali, si recitava Daimoku per ore, durante il pomeriggio della domenica, appunto. Qualche persona sparuta resiste, finché non arrivano i primi responsabili fiorentini, tra cui Gianfranco D. che ha seguito l’Umbria per oltre vent’anni, che cominciano a dare “un’organizzata” all’attività. E quindi riunioni di discussione tutte le domeniche pomeriggio a Perugia e a Spoleto. Al corso estivo del 1985 all’Hotel della Torre partecipano in tre, di cui due principianti.
    E si arriva al 20 aprile 1986, quando vengono consegnati i primi quattro Gohonzon. I mobiletti per custodirli vengono regalati da una signora giapponese che era venuta in vacanza nella regione e li aveva lasciati per i primi dieci Gohonzon. Purtroppo di lei si sono perse le tracce. Ed è a questo punto che nascono i primi due gruppi, a Spoleto e a Perugia.
    L’Umbria ha una caratteristica che condivide con poche altre regioni italiane, quella di avere una scarsa densità di popolazione, 103 abitanti per chilometro quadrato, contro, ad esempio, i 158 della Toscana, e quindi le persone che iniziano la pratica buddista naturalmente stanno “ai confini del mondo”, non tanto nelle città, sarebbe troppo facile, quanto nei piccoli comuni, nelle frazioni e in mezzo alla campagna. E il cammino di kosen-rufu in Umbria è proprio una strada che viene continuamente battuta dai pionieri, che ormai hanno imparato a memoria la geografia e le vie di comunicazione della regione. I primi tempi, in auto, volendo emulare il presidente Ikeda, si recitava Nam-myoho-renge-kyo “per gettare i semi”. Non si sa se funzionò proprio quel metodo, ma di sicuro le persone cominciarono a praticare prima solo a Spoleto e Perugia, poi a Terni, Todi, Foligno, Orvieto, Gubbio e così via.
    Le lotte dei pionieri non erano solo con il Daimoku, ma anche con i cani, di cui in ogni casa isolata ce n’è minimo un esemplare, in genere abbastanza feroce, che tentava di attaccare non appena si metteva piede nel cortile (forse faceva la funzione del demone?); sono lotte per andare a fare Gongyo mattina da una parte all’altra di Perugia incontrando solo gelo e netturbini, talmente abituati a vederci passare alla solita ora da diventare conoscenti. E sono lotte per cercare di andare a fare attività al Centro culturale di Firenze, spesso da soli, prendendo il treno la mattina della domenica, naturalmente alle 5,40.
    Il primo corso primaverile umbro, così chiamato appunto perché si tenne in primavera, si fece nel 1988 nella casa di campagna della famiglia di una pioniera, Antonella C.. Non volendo farsi mancare nulla, durò due giorni. Gli uomini dormirono al piano terra, cioè in quelle che una volta, non tanto tempo prima, erano le stalle, e le donne al primo piano. Tutti per terra con i sacchi a pelo. Solo alle più “anziane”, che erano poche, toccò la fortuna di un letto. Per l’occasione venne invitata Amalia Miglionico, Dadina, che diede il meglio di sé come sempre e tutti i partecipanti di allora ricordano ancora quel corso memorabile. Il gruppo di protezione, composto da giovani con molto entusiasmo, volle imitare Nichiren a Sado facendo Gongyo e un’oretta di Daimoku alle sei di mattina, all’addiaccio, con un po’ di brina sotto le ginocchia, ma davanti al sole nascente.
    Quanti anni sono passati? Ventiquattro? I primissimi pionieri, di cui riportiamo le parole in queste pagine, continuano ancora a praticare questo meraviglioso Buddismo, hanno cambiato la loro vita e la lotta dura tuttora. A loro via via se ne sono aggiunti altri. Il 9 settembre 2007 si è formata la Regione Umbria. Adesso le riunioni si fanno di giovedì, due volte al mese, come nel resto d’Italia. Nel maggio scorso è stato organizzato il primo corso a Trets della Regione e a dicembre vorremmo ottenere una grande partecipazione alle riunioni. Nel 2009 è negli scopi di tutti gli umbri l’apertura di un Centro. Al momento in cui scriviamo (primi giorni di ottobre) non abbiamo ancora realizzato né il primo né il secondo scopo. Ma sappiamo da dove partire: dal Daimoku. La domenica soprattutto, ma non solo.

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    Tanto Daimoku e poche chiacchiere
    Cristina C., Amelia (TR)
    All’inizio era venuta in Umbria solo per tre mesi, poi si è fermata per più di vent’anni. È Cristina C., anno di Gohonzon 1986, emigrata da Poggibonsi (Siena) ad Amelia (Terni). «L’attività era basata tutta sul Daimoku, anche perché non eravamo in molti e facevamo poche chiacchiere. A volte però non era semplice. La mia coinquilina ad esempio, una dei primi membri di Terni, appena io iniziavo l’ora di recitazione, mi toccava sulla spalla e mi annunciava l’inizio di Capitol, la telenovela. La storia è andata avanti per parecchi mesi, poi abbiamo cambiato orario della recitazione».
    A Cristina l’Umbria ha anche portato fortuna, qui ha conosciuto suo marito con il quale ha avuto quattro figli: «Dopo la nascita dei bambini, per circa dieci anni mi sono chiusa in un guscio. Poi i figli sono cresciuti un po’, ad Amelia ha iniziato a praticare un giovane uomo, David, che mi ha spronato ad agire, mi ha fatto ritrovare la voglia di fare, di rimettermi in gioco. Anche se all’inizio non è stato facile, l’attività mi sembrava cambiata, le persone diverse… ma il Buddismo di Nichiren era lo stesso e ho cercato di metterlo in pratica correttamente».

    Aprire a tutti il nostro potenziale
    Antonella C., Perugia
    Non pensava di fermarsi a lungo nella sua città natale, visto che ormai da anni viveva a Roma dove aveva comprato una casa. Ma quei tre mesi di inizio pratica proprio a Perugia furono fondamentali: «Ho sentito subito una grande forza che mi teneva qui – racconta Antonella C., una delle primissime praticanti umbre – volevo fare qualcosa per la mia famiglia che viveva in questa città. Dentro l’organizzazione percepivo che esisteva “un mondo diverso”». Iniziare a praticare il Buddismo è stata un’esperienza interiore molto forte, racconta ancora Antonella: «Subito dopo si è manifestata una grave malattia che mi ha fatto rendere conto della fortuna di avere incontrato il Gohonzon. Il Buddismo mi ha dato la spinta a voler vivere bene in questo mondo insieme agli altri, come dice Daisaku Ikeda: “Gli esseri umani sono nati su questa Terra per gioire della propria vita”. Nel Buddismo c’era tutto quello che avevo sempre cercato, l’uguaglianza, la possibilità di esprimere tutto il proprio potenziale, che nella società odierna è invece molto compresso. Sento che dovremmo ricercare e trasmettere il nostro entusiasmo dell’inizio, in fondo sono passati solo poco più di vent’anni…».

    Affari di famiglia
    Emanuela F., Todi (PG)
    «Ho trovato una famiglia capace di sostenermi». Con questa bella immagine Emanuela descrive la sensazione provata quando, nel lontano 1987, ha conosciuto ed è entrata a far parte della “grande famiglia” della Soka Gakkai. «Ero giovanissima e non riuscivo a laurearmi. Inoltre vivevo una situazione estremamente conflittuale con la mia famiglia di origine. Allora mi sono detta: “Proviamo anche questa”. E ha funzionato. Mi sono laureata in tre mesi e col tempo ho costruito un rapporto splendido con mia madre». Emanuela racconta delle difficoltà di fare attività in una città come Todi, dove la presenza di pochi praticanti induce ad assumersi in prima persona la responsabilità di kosen-rufu. Tutta la fiducia ricevuta nei primi anni di pratica, le ha permesso di imparare a sostenere gli altri e di restituire il calore provato. «Gioia nel fare attività e una comunità buddista a Todi sempre più numerosa», questi i desideri di Emanuela per il prossimo futuro.

    Entusiamo nel dare e nel ricevere
    Mauro B., Gubbio (PG)
    «Ho iniziato a praticare a Firenze nel 1985 nell’ambito universitario – ricorda Mauro B. – e dopo circa un anno ho fatto ritorno in Umbria, a Gubbio. I primi quattro mesi mi sono ritrovato a tenere gli zadankai praticamente da solo, considerato che in tutta l’Umbria c’erano soltanto sedici praticanti e le uniche occasioni per incontrarli erano le riunioni per i principianti a Spoleto e una volta al mese a Perugia. Ricordo con piacere il grande entusiasmo che c’era nel dare e ricevere al massimo, nelle poche occasioni che avevamo per incontrarci. I legami con i compagni di fede sono tuttora forti e profondi e sopravvivono più vivi che mai nel tempo. Incontrare quelle persone è sempre un’occasione unica e meravigliosa».

    Le molte facce dell’attività
    Giampiero L., Spoleto (PG)
    «Soli? Mai… abbiamo sempre avuto il sostegno dell’organizzazione anche se all’inizio eravamo veramente quattro gatti!». Giampiero L., responsabile uomini della Regione Umbria, è tra i primi ad aver iniziato a praticare in questa regione. Che cosa lo spinse? «Sicuramente le mie difficoltà personali che poi si sono trasformate nella lotta che mi ha permesso di cambiare totalmente la mia vita. Ricordo che quando decisi che non avrei mai smesso di praticare e che avrei dedicato la mia vita a kosen-rufu ero in un letto d’ospedale». E l’attività di allora, è diversa da quella di adesso? «Secondo me l’attività non è cambiata, forse si è chiarito il concetto e l’importanza di farla. L’attività per gli altri ha tante sfaccettature, fare shakubuku, le visite a casa, incoraggiare le persone che non stanno bene». E il futuro? «Sono ottimista, ma la vittoria dipenderà da quanto profondamente rimaniamo legati al presidente Ikeda e facciamo la nostra rivoluzione umana. Più riusciamo a sviluppare felicità e gratitudine verso la nostra vita, il Buddismo, il maestro, più l’attività in Umbria sarà gioiosa. È questa la cosa più importante».

    hanno collaborato Cecilia Metelli e Manuela Milleni

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    Legami oltre l’Amicizia
    Intervista a Rosella Benedetti del Rio, vice responsabile donne della Regione Umbria a cura di Maria Elena Di Cicco Pucci

    Quali sono stati gli aspetti più importanti che ti hanno portato ad abbracciare la pratica buddista?
    Direi che con la pratica ho imparato il significato di lottare. Fondamentalmente non sono stata educata a farlo, ero rinunciataria. Un altro aspetto importante è la “cura”, quella che tante persone si sono presa di me, ad esempio recitando molto Daimoku per la mia felicità e facendomi sentire la loro vicinanza. Da quando mi hanno fatto conoscere il Buddismo a quando ho iniziato a praticare sono passati due anni, e da allora non ho più smesso. Questo prendersi cura di me mi fa pensare a una piantina che continuamente innaffiata e nutrita diventa una pianta forte. Mi hanno fatto sentire che io ero importante e che avevano una grande fiducia in me. Mi hanno incoraggiato tanto che ho iniziato a tirare fuori le mie capacità. Vorrei che questa “cura” potesse essere sperimentata da tutti perché cambia la vita. Il terreno dove fiorisce Nam-myoho-renge-kyo è un terreno coltivato dall’interessamento degli altri, dal rapporto umano.

    Quindi praticare insieme agli altri ha svolto un ruolo fondamentale.
    Ho percepito subito l’importanza di praticare dentro l’organizzazione e per gli altri. Posso capire le critiche nei confronti dell’organizzazione, a volte le condivido anche. Invece non capisco la volontà di allontanarsene. Una delle frasi che mi ripetevano all’inizio era che «io sono l’organizzazione». Questo concetto l’ho interiorizzato. Le persone sono state brave a incoraggiarmi a cambiare ciò che secondo me andava migliorato, nel coinvolgermi a darmi da fare. Fare qualcosa insieme è più importante che essere serviti su un piatto d’argento. L’organizzazione insegna a rapportarsi agli altri, a collaborare per costruire questo movimento di pace. Spesso le persone “chiedono” all’organizzazione, invece secondo me, paga molto di più imparare a offrire, tant’è vero che non ho mai avuto tante “pretese”…

    Non sempre sarà stato facile…
    No, assolutamente, ma quel concetto lo avevo interiorizzato. Devo dire anche che i miei amici hanno avuto, e hanno, molta pazienza con me, a volte ero insopportabile [ride, n.d.r.]. Ad esempio io non guido nelle grandi distanze per cui gli altri mi hanno sempre “scarrozzato”. No, non era facile sopportarmi. Questo ha fatto nascere in me molta gratitudine per le persone con cui ho fatto attività negli anni.

    Com’era l’attività e l’organizzazione quando hai iniziato?
    Ho ricevuto il Gohonzon nel 1986, era un periodo di grande entusiasmo. A un certo punto facevamo tre riunioni di discussione alla settimana, il martedì a Terni, il mercoledì a Spoleto e il giovedì a Perugia. Però mi sono anche divertita tanto. Fare attività è divertente.
    Abbiamo passato anche dei momenti difficili, di lacerazione, quando dei compagni di fede hanno abbandonato la Soka Gakkai. Mi sono sentita io stessa abbandonata. Ma adesso questi compagni di fede, dopo tanti anni, stanno ritornando. A distanza di tempo un’altra cosa di cui assaporo il piacere è di aver creato dei legami che vanno oltre l’amicizia, che sono qualcosa di più. Praticando insieme a tante bellissime persone si è creato un senso di appartenenza e di condivisione che mi fa sentire ricca. È un patrimonio umano, di contatti e scambio, ne sono orgogliosa.

    Si parla spesso del rapporto maestro e discepolo. Tu come lo vivi?
    Mi sono sempre fidata di Daisaku Ikeda, prima attraverso le sue guide, quando arrivava Il Nuovo Rinascimento la prima cosa che facevo era leggerle avidamente. Sentivo che attraverso i suoi discorsi mi dava una direzione, percepivo che mi potevo fidare di lui. Poi nel ’93, quando ho partecipato a un corso in Giappone, questo sentimento si è confermato e unito alla profonda decisione di impegnarmi ancora di più accanto a lui. È attraverso il suo esempio che ho scoperto quanto potere contiene la mia vita, potere inteso non come autorità naturalmente, ma come possibilità di trasformare qualsiasi sofferenza e realizzare qualsiasi cosa. Vorrei continuare a fianco di questo maestro il mio viaggio, creare una comunità buddista che emerga dalla società e si differenzi dalle altre organizzazioni per i valori che riesce a esprimere. Mi piacerebbe sentir dire “quella persona speciale fa parte della Soka Gakkai”. Vorrei tirare fuori l’umanità che c’è in me e negli altri. Allo stesso tempo recito costantemente per tenere a freno il mio ego. Avendo avuto sempre una responsabilità so che può essere fonte di una “malsana” gratificazione, di arroganza, che significa smettere di adoperarsi e sfidarsi. Ultimamente recito Daimoku ispirata in particolare da quell’aspetto della Buddità che Ikeda mi sembra stia nominando spesso, le quattro virtù o qualità: «Recitando Nam-myoho-renge-kyo con determinazione, per affrontare fino in fondo qualsiasi cosa si presenti sul nostro cammino, continuiamo a diffondere le brezze fragranti di eternità, felicità, vero io e purezza, per il bene della Legge, dei nostri simili e della società» (NR, 405, 4).

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