Il presidente Yamamoto in veste di privato cittadino incontra il primo ministro cinese Deng Xiao Ping per contribuire a creare un forte legame tra le due nazioni. Ascoltandolo, Shin’ichi comprende che è fondamentale non restare intrappolati in un labirinto di antichi rancori e conflitti, anzi, è necessario avere una solida visione di un futuro pacifico e compiere passi nuovi in quella direzione
La voce del vice primo ministro cinese Deng Xiaoping risuonò nella Grande sala del popolo: «Benvenuti! Grazie di essere qui. Sono veramente felice di rivedervi».
Era il 16 aprile, quattro mesi dopo il loro incontro precedente. Entrando nella stanza dove avrebbe avuto luogo la riunione, Deng sorrise con calore e abbracciò Shin’ichi [pseudonimo di Daisaku Ikeda, n.d.r.].
Nel gennaio precedente, durante il quarto Congresso popolare nazionale, Deng era stato scelto, tra i dodici vice primo ministro che assistevano il primo ministro Zhou Enlai, per assumere l’incarico di vice primo ministro esecutivo. Era una posizione che comportava pesanti responsabilità, compresa l’incombenza di incontrare dignitari stranieri al posto del primo ministro, che al momento era sottoposto a cure mediche.
Oltre alla delegazione della Soka Gakkai, era presente alla riunione anche il capo del Dipartimento degli affari asiatici del ministero degli esteri giapponese.
Shin’ichi dette inizio all’incontro con un tocco d’umorismo: «Sono qui, oggi, come un privato cittadino giapponese che si prefigge di avere con voi una conversazione lunghissima. Voglio continuare a parlare per ore, per giorni magari, finché non mi direte di andarmene. Ma sono sicuro che lei, vice primo ministro Deng, sarà così saggio da riuscire a rispondere a tutte le mie complicate domande nel giro di un paio d’ore».
Shin’ichi era assai impaziente di vedere le relazioni cino-sovietiche – che stavano mostrando incrinature sempre più profonde – imboccare una direzione più positiva. Voleva anche capire con maggiore chiarezza le ragioni dell’insistenza della Cina sull’inclusione di una clausola contro l’egemonia in un eventuale trattato di pace e amicizia tra Cina e Giappone.
«So che ha compiuto un lungo viaggio – rispose il vice primo ministro – ma il presidente Mao è piuttosto anziano e il primo ministro Zhou non gode di buona salute. Sono certo che, se fosse stato in grado, avrebbe voluto incontrarla personalmente, ma questa volta non sembra possibile».
«Certo, capisco – rispose Shin’ichi -. Non ho dimenticato che durante il nostro incontro l’anno scorso egli mi accennò di aver lasciato il Giappone più di cinquant’anni fa nel periodo della fioritura dei ciliegi: perciò ho con me un dipinto raffigurante fiori di ciliegio, che vorrei gli venisse donato in seguito, tramite l’Associazione per l’amicizia cino-giapponese».
Sincerità e integrità sono i fili con cui si tesse la stoffa dell’amicizia, filati uno a uno attraverso la considerazione e la franchezza totale. Sono questi i fili che formano i legami più forti tra le persone.
In qualità di delegato dell’anziano presidente Mao Zedong (1893-1976) e del primo ministro Zhou Enlai, che stava combattendo con la malattia, il vice primo ministro Deng era di fatto il governante della Cina. Sicuramente avrebbe dovuto sostenere responsabilità anche più pesanti in futuro.
Shin’ichi era vivamente consapevole delle tensioni a cui era sottoposto Deng. Perciò osservò: «La Cina è un paese molto grande e la Soka Gakkai è una piccola organizzazione ma, nonostante ci troviamo in situazioni così differenti, comprendo quanto sia difficile per un leader incoraggiare il popolo e ottenere una nuova crescita in mezzo a grandi e diverse difficoltà. Perché la sua nazione superi le numerose sfide che ha davanti e progredisca verso il futuro, è molto importante che lei tenga ben presente la sua salute. La prego, si prenda cura di sé».
Siamo tutti esseri umani. Fondamentalmente siamo uguali. Incoraggiamento e considerazione sinceri, offerti da un essere umano all’altro, sono la chiave per creare legami profondi tra le persone, a prescindere dalle differenze sociali, generazionali o ideologiche. Un umanesimo autentico ha le proprie radici nell’impulso naturale a offrire parole d’incoraggiamento per un altro essere umano, chiunque esso sia.
Il messaggio che Shin’ichi voleva comunicare sembrò raggiungere Deng, che annuì in silenzio; quindi spalancò gli occhi e disse: «Tutti voi avete trionfato su grandi difficoltà e crisi, facendo compiere progressi al vostro movimento. Sono sicuro che non è stato facile».
La conversazione si spostò poi su temi internazionali e sulla possibilità di una terza guerra mondiale. Deng sottolineò che l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, con i loro imponenti arsenali di armi, sia nucleari che convenzionali, stavano imponendo al mondo una grande minaccia. Aggiunse che la Cina avrebbe dovuto prendere misure appropriate per rispondere pienamente a quella situazione.
La cosa che si notò particolarmente fu che, nel parlare dell’Unione Sovietica, Deng alzava la voce: con timbro stridulo denunciò i conflitti ideologici e le scaramucce di confine avvenute tra loro, accusando l’URSS di cercare l’egemonia. Shin’ichi, tuttavia, non era convinto che questa fosse la vera opinione del vice primo ministro. La Banda dei Quattro esercitava ancora il potere in Cina, e al recente quarto congresso nazionale popolare essa aveva espresso una posizione di deciso antagonismo con l’Unione Sovietica. Indubbiamente il vice primo ministro Deng non aveva altra scelta che aderire alla linea del partito quando parlava ufficialmente.
La realtà è assai complessa. Anche quando l’obiettivo è la pace, molto spesso ci sono interessi contrastanti, antagonismi, ed emozioni condizionate da fattori storici a complicare le cose. Ma proprio questo è il motivo per cui è fondamentale non farsi ostacolare dal passato, o restare intrappolati in un labirinto di antichi rancori e conflitti; al contrario, bisogna possedere la solida visione di un futuro pacifico e compiere passi nuovi in quella direzione.
Shin’ichi Yamamoto fece una domanda diretta al vice primo ministro Deng Xiaoping: «Certamente ci sono fattori storici diversi e complessi, ma penso che la cosa importante sia il futuro. La Cina ha veramente intenzione di costruire rapporti di amicizia con gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e tutte le altre nazioni del mondo?».
Per prima cosa è necessario determinare se l’orientamento di base è desiderio di pace o voglia di guerra. Stabilito questo, diventerà chiaro come dobbiamo procedere.
Il vice primo ministro Deng rispose: «La speranza era migliorare le relazioni con l’URSS, ma siamo ancora impelagati in conflitti ideologici. Potremmo, tuttavia, limitare le nostre differenze a quel settore e non permettere che danneggino i nostri rapporti».
Era un’espressione del desiderio della Cina di migliorare le relazioni con l’Unione Sovietica a favore della pace, e della sua disponibilità a lavorare per quel fine. Se le cose stavano così, per quanto la situazione si presentasse complessa, esisteva comunque una strada. Tutto ciò che serviva era avanzare un passo dopo l’altro, con coraggio, in direzione della pace.
«Riguardo agli Stati Uniti – proseguì il vice primo ministro -, il presidente Nixon e il suo consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger visitarono la Cina nel 1972, e in quel periodo a Shanghai fu emesso un comunicato congiunto. Questo evento ha portato a un notevole miglioramento nelle relazioni bilaterali, e noi speriamo di continuare a muoverci in questa direzione positiva».
Shin’ichi allora chiese al vice primo ministro la sua opinione sulla possibilità di una guerra tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
Il leader cinese rispose: «Il pericolo c’è. I due paesi parlano di pace duratura e di alleggerimento delle tensioni, ma in realtà quelle tensioni crescono, ed entrambe stanno rafforzando il proprio esercito».
«Per quale motivo pensa che stia accadendo?», chiese Shin’ichi.
«Perché entrambi i paesi mirano all’egemonia sul resto del mondo», rispose Deng.
La lotta per l’egemonia stava alimentando la diffidenza reciproca, e approfondiva la spaccatura causata dall’antagonismo.
Una costante sfiducia tra i leader non può che inasprire la minaccia della guerra. E la fonte di questa sfiducia è ciò che il Buddismo chiama oscurità fondamentale. Nichiren Daishonin insegna che tutti gli esseri viventi possiedono innata la natura di Budda e sono entità di Nam-myoho-renge-kyo. L’oscurità fondamentale si riferisce a una condizione d’illusione contraddistinta dall’ignoranza e dallo scetticismo rispetto a questo principio, ed è anche la causa fondamentale del reciproco sospetto e sfiducia. Questo concetto mostra una evidente somiglianza con il monito del poeta ed educatore indiano Rabindranath Tagore (1861-1941) quando parla dell’«atroce peccato di perdere la fede nell'[umanità]».
Shin’ichi avvertiva intensamente l’importanza del fatto che in tutto il mondo si diffondesse l’insegnamento buddista secondo cui tutti gli esseri viventi possiedono la natura di Budda. E quando parlava di pace con i leader dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti, si rivolgeva sempre con la massima sincerità alla natura di Budda innata in ognuno di loro. Col desiderio di vincere la diffidenza e il sospetto e far sbocciare uno spirito di fiducia e di amicizia, egli affrontava ogni incontro quasi come se stesse offrendo una preghiera.
Shin’ichi chiese quindi al vice primo ministro qual era la posizione della Cina riguardo a un possibile trattato di pace e amicizia con il Giappone.
Il comunicato congiunto emesso dalle due nazioni nel settembre del 1972 asseriva che entrambe si opponevano a qualunque nazione, o blocco di nazioni, che tentasse di stabilire un’egemonia nella regione asiatico-pacifica. Tuttavia alcuni gruppi in Giappone erano dell’idea che quella dichiarazione sull’egemonia non avrebbe dovuto essere inclusa nel patto bilaterale: sostenevano che l’espressione “qualunque nazione” in realtà si riferiva all’Unione Sovietica e che inserire quel termine nel trattato avrebbe danneggiato le relazioni del Giappone con tale nazione.
Durante il primo viaggio di Shin’ichi in URSS nel settembre dell’anno precedente, il 1974, egli ricevette la visita di Ivan Kovalenko, addetto alle relazioni col Giappone presso il Dipartimento affari internazionali del Partito Comunista. Quando s’incontrarono, nell’albergo di Shin’ichi, Kovalenko sottolineò la posizione del suo paese secondo cui la clausola anti-egemonia rappresentava un atto di antagonismo nei confronti dell’Unione Sovietica, e chiese che ogni riferimento all’egemonia fosse rimosso dal patto. In quell’occasione, Shin’ichi dichiarò tranquillamente: «È davvero necessario che l’Unione Sovietica si preoccupi del tipo di trattato che Giappone e Cina negoziano tra loro? Tutto ciò che l’Unione Sovietica deve fare è perfezionare il proprio trattato bilaterale con il Giappone, rendendolo tale da creare una relazione ancora più forte e stretta di quella tra Giappone e Cina. Se l’Unione Sovietica agisce con larghezza di vedute, conquisterà la fiducia della gente di tutto il mondo».
Il processo di stesura di un trattato di pace e amicizia tra Cina e Giappone incontrò alcune difficoltà. Per agevolare un patto reciprocamente accettabile, Shin’ichi Yamamoto desiderò ancora una volta chiarire il pensiero che stava alla base dell’insistenza da parte della Cina di includere una clausola anti-egemonia nel trattato.
Si può infatti continuare a sviluppare il dialogo quando si raggiunge un’adeguata consapevolezza e comprensione del pensiero della controparte.
Il vice primo ministro Deng Xiaoping presentò la posizione cinese con tono sicuro: «La clausola anti-egemonia nel trattato di pace e amicizia è in armonia con i desideri dei popoli della Cina e del Giappone. L’anti-egemonia ha due significati. In primo luogo, né la Cina né il Giappone tenteranno di ottenere la supremazia nella regione asiatico-pacifica. A questo proposito, la Cina intende porre dei freni alle proprie azioni. Vale a dire, la Cina di propria iniziativa si assumerà la responsabilità di non voler predominare nella regione asiatico-pacifica. Non è una cosa negativa per le nazioni della regione, Giappone incluso. Inoltre, durante la Seconda guerra mondiale e nell’arco del secolo scorso, l’immagine del Giappone è stata seriamente infangata. Inserire una clausola anti-egemonia nel trattato è un modo di dimostrare che il Giappone riconosce la verità della propria storia. Come tale, essa diventa una dichiarazione necessaria e utile per aiutare il Giappone a recuperare la fiducia e a migliorare le relazioni con i propri vicini».
Mostrando una passione crescente via via che parlava, il leader cinese continuò: «Il secondo significato della clausola anti-egemonia è l’opposizione al tentativo da parte di qualunque paese o gruppo di paesi a ottenere la supremazia in questa regione».
Deng aggiunse che, mentre i contestatori in Giappone continuavano a sostenere che l’inserimento di quella clausola avrebbe danneggiato le relazioni con l’Unione Sovietica, una frase avente un simile intento era già presente nel comunicato congiunto che era stato emesso da Cina e Giappone.
Anche il capo dell’ufficio Relazioni asiatiche del ministero degli Esteri giapponese era presente all’incontro. Shin’ichi, invece di esprimere le proprie opinioni, si interessò soprattutto al punto di vista del vice primo ministro. Riteneva che fosse fondamentale da parte del Giappone comprendere in maniera completa e corretta la posizione cinese prima di prendere in considerazione la risposta da dare. Forse per il fatto che le domande erano formulate da Shin’ichi – un privato cittadino – il leader cinese fu in grado di rispondere liberamente.
La capacità di far emergere i pensieri e i punti di vista dell’interlocutore è un’abilità fondamentale nel portare avanti un dialogo.
Dopo aver sostenuto con decisione l’importanza di includere una clausola anti-egemonia, formulata con chiarezza, in qualunque trattato di pace e amicizia bilaterale, il vice primo ministro affidò a Shin’ichi un messaggio da consegnare al primo ministro giapponese Takeo Miki (1907-88).
«Quando ritornerà in Giappone – dichiarò il vice primo ministro – la prego di dire al primo ministro Miki che deve fare appello al coraggio e alla determinazione. Capisco che si trovi sotto pressione perché in molti desiderano impedire questo processo, ma noi speriamo che egli dimostrerà risolutezza. Se facciamo un passo indietro e non uno in avanti rispetto alla posizione espressa nel comunicato congiunto, non potrà mettersi bene neanche per il primo ministro. Questa è la mia opinione in veste di amico, espressa sulla base della considerazione che nutro per lui».
Shin’ichi allora gli fece una domanda riguardo alla posizione della Cina nei confronti del trattato che il Giappone stava stringendo con l’Unione Sovietica. Sentiva che la questione aveva un impatto importante sulla capacità del Giappone di promuovere rapporti amichevoli sia con la Cina che con l’URSS. Deng rispose: «Su questa questione deve decidere il governo giapponese».
Se da un lato la risposta si prestava a interpretazioni, indicava comunque che la Cina non era necessariamente contraria alla stesura di un trattato tra il Giappone e l’Unione Sovietica.
Shin’ichi formulò un’altra domanda: «Per mia utilità vorrei chiederle ancora una cosa. Ad esempio, sarebbe accettabile che la frase relativa all’anti-egemonia non figurasse come clausola interna al trattato, ma fosse inserita nel preambolo del documento?».
Shin’ichi credeva fermamente che, per il futuro di entrambi i paesi, fosse essenziale che essi riuscissero davvero a stringere un patto di pace e amicizia. In tal senso, sentiva che quella discussione doveva fornire linee guida specifiche secondo cui il governo giapponese avrebbe avuto la possibilità di prendere in esame il trattato. Un dialogo responsabile è qualcosa di tangibile: un nuovo progresso non può derivare da conclusioni nebulose. Scegliendo le parole con cura particolare, il vice primo ministro Deng rispose: «Ci sono possibilità di riflettere su modi diversi di affrontare questo punto all’interno del trattato».
La posizione cinese riguardo al patto era quindi per lo più chiara, pensò Shin’ichi.
Shin’ichi nutriva anche grandi speranze di pace tra la Cina e l’Unione Sovietica. Desiderando introdurre l’argomento, egli osservò: «Credo che anche l’atteggiamento dell’Unione Sovietica verso la Cina e i suoi ottocento milioni di abitanti sicuramente cambierà con il tempo».
(18. continua)