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Per non cadere nella rete - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 16:44

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    Per non cadere nella rete

    Se da una parte l’era digitale facilita la diffusione e la rapidità dell’informazione, dall’altra comporta dei rischi che possono coinvolgere anche la nostra attività buddista, come la freddezza della comunicazione per e-mail e l’impossibilità di controllare la veridicità delle informazioni. Uno strumento da utilizzare con saggezza, dunque, tenendo sempre desta la capacità di discernere e la priorità del cuore

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    Se da una parte l’era digitale facilita la diffusione e la rapidità dell’informazione, dall’altra comporta dei rischi che possono coinvolgere anche la nostra attività buddista, come la freddezza della comunicazione per e-mail e l’impossibilità di controllare la veridicità delle informazioni. Uno strumento da utilizzare con saggezza, dunque, tenendo sempre desta la capacità di discernere e la priorità del cuore

    * Alberto Forni (alberto.forni@me.com) è un appassionato di tecnologia. Ne parla ogni settimana su Radio2, nel programma Dispenser, e ne scrive mensilmente sulla rivista Wired

    Stiamo vivendo un periodo di profondi mutamenti. Forse mai, nel corso della storia, l’umanità ha abbracciato così tante nuove tecnologie capaci di trasformare la vita quotidiana. Sembra passato un secolo da quando i telefonini non esistevano, le notizie arrivavano solo attraverso i giornali o la TV, dovevamo andare a fare i bonifici in banca ed eravamo pieni di videocassette.
    Tutti questi cambiamenti li stiamo ancora digerendo. Adesso, ad esempio, passata l’euforia iniziale dell’e-mail, abbiamo capito alcune cose su questo modo di comunicare, in cui le parole vengono trasmesse in maniera neutra e proprio per questo rischiano di diventare fonte di grossi malintesi. Quindi abbiamo capito che le e-mail sono ottime per scambiare comunicazioni, pessime per parlare o spiegarsi. L’uso della posta elettronica ha avuto una ricaduta anche sul modo di comunicare all’interno dell’attività buddista. Da una parte oggi possiamo informare tutti in maniera veloce e con poco sforzo, dall’altra non bisogna dimenticare che a volte una telefonata è anche l’occasione per sentire una persona e incoraggiarla. Come sempre non bisogna confondere il mezzo con il fine.
    Un’altra cosa con cui dobbiamo ancora prendere le misure sono le notizie, la veridicità delle notizie. All’inizio Internet era diventata la nuova televisione. Il famoso modo di dire “l’ha detto la televisione”, era diventato “l’ho visto su Internet”. Poi qualcuno si è divertito a giocare con il vero/falso, sono venute fuori le prime “bufale” e si è capito che non c’era più una sorta di autorità certificata – il giornalista, la redazione – a garantirci la veridicità di una notizia.
    Inoltre la rete è un mezzo molto democratico che permette a tutti di esprimere la propria opinione: qualunque essa sia e in qualunque modo venga espressa. Tuttavia, parafrasando un famoso detto di Clint Eastwood, «le opinioni sono come lo stomaco, ognuno ha il suo». Quindi se fino a ieri ci facevamo un’idea in base a una personale esperienza diretta o all’opinione di qualcuno di cui in qualche modo – a torto o a ragione – ci fidavamo, oggi può capitare di farci un’opinione basandoci sulle opinioni altrui, magari anche di illustri sconosciuti. Il che non è detto che sia un male, ma non è sempre un bene.
    La stessa cosa vale per i social network, che da un certo punto di vista sono una specie di Far West, dove tutti possono fare tutto. Non sarà sempre così. E comunque qualche limite c’è anche adesso. Qualche tempo fa è arrivata la prima sentenza penale: l’alta Corte di Londra ha condannato tale Grant Raphael che aveva diffamato un collega creando su Facebook un falso profilo molto distante dalla realtà. Certo, da un punto di vista tecnico è una cosa che si può fare, cioè si possono creare account col nome di altri o a nome di altri. Nessuno certifica, nessuno interviene. Si può fare su Facebook, si può fare su Twitter. E siccome questo è il pregio e il difetto di Internet, non ha molto senso interrogarsi se sia un bene o un male perché a fare la differenza devono essere gli utenti e il loro buon senso.
    Se su Facebook apro una pagina di fan dei Rolling Stones nessuno pensa che parli a nome dei Rolling Stones, ma se ne apro una che si chiama Associazione degustatori caffè o Sindacato assistenti di volo si presume che dietro ci sia appunto un’associazione o un suo rappresentante. Non è che posso farlo solo perché bevo il caffè o sono una hostess, cioè posso farlo perché la rete me lo permette, ma non è proprio corretto. Non è che necessariamente solo perché uno svolge una determinata attività, ne diventi il portavoce. Questo vale anche per la pratica. Su Facebook io posso risultare come una persona che pratica il Buddismo di Nichiren o che aderisce alla Soka Gakkai, (e posso liberamente creare il gruppo di quelli che “praticano in ginocchio” o “recitano Daimoku lento”) ma non per questo ne sono portavoce o le mie opinioni rispecchiano quelle del Buddismo o dell’Istituto. Mi viene in mente la risposta che dava Nanni Moretti a inizio carriera a quanti gli chiedevano se rappresentasse la sua generazione: «Non scherziamo – diceva – rappresento a malapena me stesso».
    Ognuno si adatta ai cambiamenti a seconda della propria duttilità. Alcuni abbracciano le novità con entusiasmo, altri preferiscono essere cauti. Ma i tempi cambiano. E i modi anche. Opporsi al mutamento non è possibile; bisogna quindi assecondarlo. Magari facendo in modo che un mezzo rimanga sempre e solo un mezzo e venga usato in maniera responsabile.

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    Falsi d’autore

    Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
    e questa siepe, che da tanta parte
    dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

    Eugenio Montale

    Potrebbe esservi capitato. Avete trovato su Internet una rarissima e inedita incisione di Bob Dylan. Peccato che non sia Dylan ma uno sconosciuto folk singer degli anni ’60. Oppure avete scoperto che le meravigliose fotografie del Madagascar che quel vostro amico vi ha fatto vedere, in realtà sono prese da Google.
    È il bello del digitale, dell’entertainment “liquido”, dell’era del copia/incolla, dove tutto si mischia e si ricombina, in un blob mediatico di cui a volte si fa fatica a distinguere le singole parti, figuriamoci il punto di origine.
    Sulle pagine de Il Nuovo Rinascimento è già stata affrontata la questione del materiale di dubbia provenienza, spesso distribuito nel corso di riunioni o incontri. Si tratta di poesie, guide, spiegazioni di princìpi fondamentali o magari piccole frasi pregne di significato come quelle dei Baci Perugina.
    Nella maggior parte dei casi la firma è quella di Josei Toda o, meglio ancora, Daisaku Ikeda. Un nome, una garanzia.
    È il caso, ad esempio, di poesie divenute ormai “storiche” come Risveglio, Il sogno impossibile e Osa credere. La prima è stata scritta da un membro italiano, la seconda è tratta da un musical ispirato a Don Chisciotte, l’ultima viene da uno spettacolo realizzato dalla SGI-UK.
    Un altro esempio è la poesia Balla come se nessuno ti vedesse, attribuita a Ikeda, che compare anche in forma di video su YouTube. Ormai gli interventi su questo testo sono così numerosi che è difficile risalire alle fonti. Pare tuttavia che il titolo, Dance like no one is watching, sia attribuibile allo scrittore e filosofo australiano Alfred D. Souza, mentre il testo spesso associato (e che recita: Siamo convinti che la nostra vita sarà migliore quando saremo sposati) provenga dal libro Midnight Muse della poetessa Crystal Boyd. Insomma più che una poesia di Ikeda, un vero e proprio Frankenstein letterario.
    La problematica è talmente radicata, che in alcuni casi si arriva a risvolti comici: quando in un blog viene pubblicata la poesia Prometto a me stesso di Christian Larson (che gira a nome di Ikeda col titolo L’abbondanza della vita), qualcuno commenta: «Ho l’impressione che si tratti di una scopiazzatura di uno scritto del filosofo buddista Daisaku Ikeda. Se così fosse, peccato… l’originale era più profondo».
    Da dove deriva tutta questa passione del frammento e dell’inedito? Difficile dirlo. In realtà esiste da sempre. E l’era digitale non ha fatto che moltiplicarne le applicazioni e la diffusione. Risponde all’innata voglia di avere qualcosa che vada oltre i canali ufficiali, qualcosa che sembri fatto su misura per noi. L’importante è che porti la magica firma. «L’ha detto Ikeda», come controbattere?
    Restando in tema di blog, vero e proprio regno del copia/incolla, anche qui per dipanare la materia ci viene in soccorso una recente sentenza, secondo la quale chi tiene un blog non è responsabile dei commenti che vengono postati. Di quello che pubblica lui, però, sì. E qui si apre anche la questione del diritto alla privacy. Se io pubblico un’esperienza su Il Nuovo Rinascimento non è poi detto che sia d’accordo a vederla comparire su decine di blog, dei quali magari non condivido l’impostazione. Prima di tutto perché viene decontestualizzata e poi perché magari si tratta di un’esperienza che risale a qualche tempo fa e oggi non mi rappresenta più. Non è che la mia autorizzazione a far diventare “pubblico” qualcosa che in partenza è privato, valga in assoluto e per ogni contesto.
    Poi è vero che su YouTube si trovano video in cui Tina Turner mostra come si recita Gongyo a un talk show americano o videoclip dove Nam-myoho-renge-kyo si è trasformato nel testo di una canzone. Però, per fare in modo che non finisca tutto – come si suol dire – “a rotoli”, è necessario che la rete si trasformi in un luogo in cui prevalgono comportamenti virtuosi. O quanto meno responsabili. (a.f.)

    (La poesia iniziale, ovviamente, non è di Eugenio Montale, ma di Giacomo Leopardi)

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    Il gruppo è mio e lo gestisco io

    In pochi anni Facebook, come i social network in genere, è diventato uno strumento di comunicazione di massa. Cosa dobbiamo sapere per usarlo al meglio?

    Il Wall Street Journal l’ha definita “culture of humiliation”, cultura dell’umiliazione, riferendosi all’uso violento dei social network dove è facile (e al momento privo, o quasi, di rischi legali) prendere di mira qualcosa o qualcuno e sparare a zero. Così se il gruppo “Usiamo i bambini down come bersagli” è diventato subito un caso mediatico ed è stato fatto chiudere nel giro di poche ore, centinaia di altri gruppi – dagli intenti non proprio costruttivi – continuano a proliferare. D’altra parte, alla tastiera, siamo tutti più coraggiosi e il confine fra goliardia e crudeltà diventa sempre più labile. Un esempio su tutti: i gruppi contro l’intemperante giocatore dell’Inter Mario Balotelli, che nascono come funghi e si alimentano di scherno, odio e razzismo non proprio velato.
    Purtroppo oggi, nel tentativo di trovare un compromesso accettabile, al rischio del troppo controllo contrapponiamo una sorta di libertà assoluta. Una libertà che, non incontrando limiti esterni, spesso risulta incapace di porseli da sola.
    Su Facebook chiunque può creare un gruppo e diventarne amministratore, col privilegio di poter poi cambiare a piacere nome al gruppo o deciderne la linea, diciamo così, “editoriale”.
    Può quindi capitare che un gruppo faccia diretto riferimento alla pratica buddista o all’organizzazione, attirando quindi un gran numero di iscritti (che significano comunque visibilità e riscontro), ma con l’andare del tempo cambi completamente la propria ragion d’essere arrivando a criticare, o magari calunniare, la stessa organizzazione.
    E qui entra in gioco la responsabilità degli utenti, che dovrebbero in qualche modo seguire, o comunque essere al corrente, delle discussioni che avvengono in un gruppo al quale sono iscritti: visto che il nome di quel gruppo compare nelle proprie informazioni personali ed è (o almeno dovrebbe essere) indicativo della propria persona.
    In realtà, si sa, non è così. Sull’onda dell’entusiasmo, e del fatto che in fin dei conti basti un “click”, ci si iscrive a decine e decine di gruppi col risultato di contribuire soltanto alla confusione generale, a questa sorta di rumore mediatico di fondo: «Di cosa faccio parte? Boh, non lo so, c’è scritto Buddismo».
    A scorrere la lista dei gruppi presenti su Facebook – e che raccolgono da qualche decina di sostenitori fino a migliaia – sembra di assistere a quelle consultazioni elettorali dove si affollano centinaia di partiti e partitini dai nomi quanto meno fantasiosi: Amici di kosen-rufu, 100 Daimoku per kosen-rufu, Kaikan a Roma entro il 3 maggio, Sensei Nobel per la pace 2010, Soka Gakkai Biella, Insieme “indipendentemente” per kosen-rufu, Realizziamo kosen-rufu nelle Marche, Quelli che… si preparano al 16 marzo, I giovani protagonisti della Puglia per kosen-rufu, Facciamo Daimoku per…, Soka Gakkai Basketball e persino Il tango nella Soka Gakkai italiana. C’è spazio anche per un gruppo Anti Soka Gakkai e per quello Ex membri Soka Gakkai che si definisce un “sito privato per conteggiare tutti gli ex membri”.
    Insomma, è importante rendersi conto che in rete c’è spazio per tutto e per tutti e che i comportamenti “digitali” che adottiamo non possono ricalcare quelli della vita reale. E siccome sulla rete si trova di tutto – e questo tutto non possiamo accettarlo nella sua globalità – siamo costretti a fare delle scelte. E queste scelte dipendono da noi, sono una nostra precisa responsabilità. Perché alla fine non è solo questione di un “click”.

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