Continua il profondo e informale colloquio tra il premio Nobel per la pace Sato e Shin’ichi Yamamoto. L’intento di entrambi era quello di concretizzare ciò che i rispettivi maestri non erano riusciti a realizzare quando erano in vita. Shin’ichi, da parte sua, era determinato a creare sinceri legami di fiducia con figure di spicco in ogni campo
«I leader politici – si lamentava il primo ministro Sato – dovrebbero offrire un esempio di integrità morale, ma hanno fallito in questo compito. Questa è una grande sfortuna». Dava l’impressione di aver ragionato a lungo su come fare per elevare lo spirito della gente.
Dopo cena, Shin’ichi Yamamoto [pseudonimo di Daisaku Ikeda, n.d.r.] fu introdotto nello studio di Sato. Sulla scala Shin’ichi intravide una fotografia incorniciata appesa alla parete. Mostrava Sato accanto a Shigeru Yoshida (1878-1967), uomo politico e anch’egli ex primo ministro, noto per aver aperto la strada alla ripresa postbellica del Giappone. «Questo è il mio maestro», disse orgogliosamente Sato. Osservando il modo in cui rispettava il suo maestro e lo presentava ad altri con grande orgoglio, Shin’ichi sentì di potersi fidare totalmente di lui.
Le persone che perseguono la verità e il miglioramento di se stessi cercano sempre un maestro. E coloro che portano in cuore un maestro possiedono una personalità che emana forza interiore e dignità. Come scrisse Seneca (4 a.C. – 65), il filosofo dell’antica Roma: «Se non sentissi di dovere a un uomo simile tutto l’amore che rivolgo a quelli cui mi legano vincoli di profondissima gratitudine, sarei davvero ingrato».
Sato era considerato uno dei principali protetti di Yoshida, cui offrì il proprio sostegno saldo e sincero, considerandolo come un padre. Gli rimase fedele persino nel 1955, quando le forze politiche conservatrici si fusero nel Partito liberal democratico, preferendo rimanere indipendente per un periodo prima di unirsi al nuovo partito di maggioranza. Rimase fedele a Yoshida per tutta la vita.
«Fu Toda il suo maestro, vero?» chiese Sato.
«Sì, Josei Toda. È stato lui il mio maestro – rispose Shin’ichi con orgoglio -. Era un esperto matematico, educatore e uomo d’affari. Toda mi dette personalmente lezioni su una grande varietà di argomenti, regalandomi un’educazione impareggiabile». Sato sorrise, annuendo. I due proseguirono la conversazione nello studio, al piano superiore.
«Toda era un’ottima persona – commentò Sato – e la Soka Gakkai è un’organizzazione davvero notevole, dalla quale abbiamo molto da imparare». Niente rende un discepolo più felice di quando viene rivolta una lode al proprio maestro. Shin’ichi decise in cuor suo che la sua missione come discepolo sarebbe stata quella di impegnarsi al massimo per fare in modo che il mondo potesse apprezzare la grandezza del suo mentore.
Era l’ottobre del 1967 quando Sato, che si trovava nelle Filippine per una visita di stato, venne a sapere della morte del suo maestro. Egli rimase stordito dalla notizia e pianse per il dolore. Si mise subito in contatto con il Giappone dando istruzioni per organizzare i funerali di stato. Non c’erano precedenti di un evento simile nel Giappone postbellico e alcuni si opposero. Ma Sato andò avanti, deciso a fare in modo che al suo maestro venissero tributati i più alti onori. Appena atterrato all’aeroporto di Haneda, a Tokyo, Sato si recò direttamente a casa di Yoshida. Provò un brivido alla vista del maestro defunto. Quale promessa gli fece allora?
Il mese successivo Sato si recò in visita negli Stati Uniti, portando sul tavolo della discussione la restituzione al Giappone delle isole occupate di Ogasawara e Okinawa. In particolare riuscì a ottenere un accordo secondo cui gli Stati Uniti avrebbero restituito Ogasawara di lì a un anno, il che era stato un desiderio a lungo cullato da Yoshida. Durante i negoziati per il trattato di pace con il Giappone, conosciuto anche come il trattato di pace di San Francisco del 1951, Yoshida era riuscito a fare in modo che gli Stati Uniti riconoscessero la “sovranità residua” del Giappone sugli arcipelaghi di Amami, Okinawa e Ogasawara; ciò voleva dire che, anche se i territori erano sotto il controllo temporaneo di una potenza straniera, gli Stati Uniti, potevano essere restituiti al Giappone. In questo modo Yoshida aveva lasciato la strada aperta per il futuro ritorno di queste isole sotto la sovranità giapponese.
Amami era già stata restituita al Giappone nel 1953 e solo Okinawa e Ogasawara rimanevano sotto il controllo statunitense. La visita di Sato negli Stati Uniti segnò un ulteriore passo verso la realizzazione del desiderio di Yoshida. In cuor suo, Sato sicuramente raccontò con orgoglio questo successo al suo mentore. I discepoli si impegnano a realizzare la visione del maestro. I discepoli dovrebbero portare a compimento tutto ciò che il maestro desiderava ma non è riuscito a realizzare mentre era ancora in vita: questo è il sentiero di maestro e discepolo.
Sato ricoprì la carica di primo ministro per sette anni e otto mesi, il periodo più lungo nella storia del Giappone. In quel periodo, tra i suoi straordinari successi, ci sono la restituzione di Okinawa al Giappone, l’accordo sui diritti dei lavoratori con l’Organizzazione internazionale del lavoro e la firma del trattato sulle relazioni di base tra Giappone e Repubblica della Corea.
Nove anni erano passati dall’ultimo incontro di Shin’ichi con l’ex primo ministro a Kamakura. Con un sorriso caloroso e spensierato che sembrava cancellare gli anni trascorsi, Sato parlò del futuro del Giappone e del mondo. Quella sera di febbraio del 1975 Shin’ichi Yamamoto ascoltò attentamente ogni parola di Sato e percepì con chiarezza che nutriva grandi aspettative per il suo futuro. Shin’ichi e Mineko continuarono a salutare affettuosamente Sato e sua moglie Hiroko, mentre questi si allontanavano dal ristorante a bordo di un’auto. In seguito Hiroko Sato inviò loro una garbata lettera di ringraziamento in cui scriveva: «Solitamente mio marito è taciturno, ma durante il nostro incontro sembrava un chiacchierone. Si è detto colpito dai progressi da lei compiuti, presidente Yamamoto, ed è felicissimo di vedere che sta facendo del suo meglio per il Giappone». Tre mesi dopo, l’ex primo ministro ebbe un collasso e il 3 giugno morì. Quando nel 1993 venne costruito il Makiguchi Memorial Hall a Tokyo, nel suo giardino Shin’ichi e Mineko piantarono un ciliegio in memoria dei Sato.
Shin’ichi ebbe in seguito incontri e colloqui con svariate personalità di spicco. Nel gennaio del 1968 e poi nel maggio del 1972, incontrò l’economista Ryokichi Minobe (1904-84), noto come il primo governatore riformista di Tokyo.
Minobe era il figlio di Tatsukichi Minobe (1873-1948), un noto legislatore, il quale sosteneva che la Costituzione giapponese Meiji del 1890 poneva lo stato come effettivo detentore dell’autorità amministrativa e l’imperatore come nient’altro che un organo dello stato. Queste idee gli procurarono un’accusa di lesa maestà che lo costrinse a dimettersi dalla Camera dei Pari. Fu anche aggredito e ferito gravemente da un violento sostenitore della destra.
Gli incontri di Shin’ichi con il governatore Minobe erano iniziati su richiesta di quest’ultimo. Gran parte del tempo trascorso insieme fu occupato dallo scambio di opinioni personali, lasciando da parte ciò che riguardava l’amministrazione cittadina.
Nel dicembre del 1974 Shin’ichi incontrò Kenji Miyamoto (1908-2007), presidente del comitato centrale del Partito comunista giapponese, e con lui ebbe uno scambio di idee sulla vita e su vari altri argomenti.
Shin’ichi era determinato a creare legami di fiducia e amicizia con figure di rilievo in ogni campo, al di là del partito politico di riferimento, al di là dell’ideologia, della nazionalità, dell’appartenenza etnica o della religione. Credeva che interazioni personali come quella potessero creare una corrente propulsiva verso la pace e l’umanesimo.
Nel momento in cui diamo testimonianza della nostra comune umanità, ci rendiamo conto che siamo tutti uguali nella nostra essenza. In origine niente ci separa. Come disse una volta il Mahatma Gandhi: «Il mio scopo è l’amicizia con il mondo». Shin’ichi nutriva lo stesso sentimento.
Il 14 febbraio Shin’ichi andò a trovare il rettore dell’Università Tokai, Shigeyoshi Matsumae (1901-91), presso il campus Shonan della scuola a Hiratsuka, nella prefettura di Kanagawa. Sia il rettore Matsumae che Shin’ichi erano fondatori dell’università, ed erano entrambi impegnati a migliorare le relazioni tra il Giappone e l’Unione Sovietica. Sulla base dei loro interessi comuni, intrecciarono una conversazione piacevole e vivace. Toccarono argomenti d’importanza internazionale, come la salvaguardia delle risorse marine, il ruolo del Giappone in Asia e le prospettive di una pace globale.
Il giorno seguente Shin’ichi ebbe un colloquio con Anatoli V. Sofronov (1911-90), commediografo sovietico e curatore del settimanale La piccola luce. Il 21 febbraio incontrò il professor Yuri S. Kukushkin, capo del Dipartimento di storia dell’Università statale di Mosca, e il giorno dopo fece visita al dottor Alexander A. Kwapong, vice rettore dell’Università del Ghana e in seguito incontrò l’ex ambasciatore giapponese in Francia, Yoshihiro Nakayama. Due giorni più tardi ebbe un incontro con Li Lianqing, consigliere dell’ambasciata cinese in Giappone.
I responsabili più alti della sede centrale della Soka Gakkai erano veramente stupiti per l’energia che Shin’ichi profondeva nel dialogare con così tante persone. Mentre Shin’ichi parlava con alcuni responsabili della Divisione giovani, uno di questi gli chiese: «Le persone con cui ha dialogato negli ultimi anni provengono sia da ambiti che da paesi diversi nel mondo. Da un punto di vista ideologico ci sono leader di nazioni sia socialiste che democratiche, e anche seguaci di religioni diverse. Dopo questi incontri, poi, tutti esprimono verso di lei rispetto e una profonda fiducia. Qual è l’atteggiamento per conquistare una tale approvazione e simpatia da parte di persone che hanno ideologie e valori così diversi fra loro?».
Con un sorriso Shin’ichi rispose: «Le differenze tra le persone sono un dato di fatto. Questo è ciò che rende ogni persona unica, ciò che rende il nostro mondo un luogo così incredibilmente variegato, come un giardino in cui sbocciano a profusione fiori di ogni genere. Questo è il motivo per cui non solo dobbiamo ammettere che le persone sono diverse, ma dobbiamo anche rispettarle, e imparare le une dalle altre. Questo è il punto di vista da cui partire. Perciò, a prescindere dal credo religioso, dobbiamo sempre rispettare gli altri prima di tutto come esseri umani».
Con le parole della poetessa giapponese Misuzu Kaneko (1903-30): «Tutti diversi, tutti perfettamente giusti». Questa è una prospettiva fondamentale. Shin’ichi Yamamoto era pieno di passione ogni volta che parlava con i giovani. Sapeva che sarebbero stati proprio i giovani a rafforzare i ponti che lui aveva costruito e che sempre loro avrebbero allargato i sentieri da lui tracciati in ampi percorsi di pace. «Le persone si differenziano in moltissimi modi – disse – ma in comune hanno anche alcuni aspetti che superano quelle diversità. Per prima cosa siamo tutti esseri umani che vivono nello stesso pianeta. Secondo, ci impegniamo tutti nel migliore dei modi per la felicità e la pace, mentre affrontiamo le realtà legate alla nascita, vecchiaia, malattia e morte. Tenendo in mente questi elementi universali, dovremmo riuscire a riconoscere gli ideali che tutti noi condividiamo: il rispetto per la dignità della vita – diritto inviolabile per tutta l’umanità – e il diritto alla felicità. Su questa base, la guerra è assolutamente inaccettabile. Questa convinzione sulla sacralità della vita è sostenuta dalla filosofia di Nichiren Daishonin, secondo cui tutti gli esseri viventi sono intrinsecamente dei Budda. Questo è il motivo per cui il presidente Toda, sosteneva l’idea della famiglia globale e rivendicava l’abolizione delle armi nucleari».
Shin’ichi nutriva l’obiettivo di condividere questi elementi universali con chiunque parlasse e di creare un terreno favorevole per la pace. Egli credeva nel bene, presente negli esseri umani, ed era convinto che se le persone si aprivano e parlavano con sincerità, erano sicuramente in grado di instaurare una reciproca comprensione, armonia e fiducia.
Shin’ichi continuò: «Le persone sono afflitte da molte questioni, come l’interesse nazionale e la posizione sociale. Il dialogo può essere considerato come il processo attraverso il quale ci ispiriamo l’un l’altro per superare tali preoccupazioni, per sostenere i valori universali e per trasformare la diffidenza in fiducia. Il dialogo richiede perciò perseveranza, forza d’animo, saggezza e convinzione. Inoltre attraverso di esso siamo in grado di interagire con caratteri e modi di pensare diversi, possiamo apprendere conoscenze, saggezza e idee nuove. Il dialogo è il sentiero diretto per elevarci come individui».
Come osservò una volta il pensatore francese Michel de Montaigne (1533-92): «A gusto mio l’esercizio più fruttuoso e naturale della nostra mente è la conversazione».
Shin’ichi quando pensava al suo obiettivo di costruire attraverso il dialogo un’alleanza di umanesimo, desiderava solo poter avere un po’ più di tempo a disposizione. La vita è breve. Perdere tempo è come sprecare la vita. Shin’ichi era determinato a non sciupare un solo momento.
In quel periodo Shin’ichi scriveva moltissimo. Mensili, settimanali e diversi giornali gli stavano chiedendo relazioni e saggi sui due viaggi in Cina e gli incontri con i leader di Unione Sovietica, Cina e Stati Uniti.
Nel febbraio 1975 una serie di articoli sulla sua visita in Unione Sovietica, apparsi in diversi periodici, furono raccolti e pubblicati in forma di libro con il titolo Il mio viaggio in Unione Sovietica. Il Quotidiano economico del Giappone riportò frammenti autobiografici che Shin’ichi scriveva per la rubrica “I miei ricordi”. In realtà erano due o tre anni che il Quotidiano gli chiedeva di scrivere per questa rubrica, ma lui aveva rifiutato, dicendo che una persona giovane come lui non aveva abbastanza ricordi da raccontare. Tuttavia il giornale continuò a insistere, e così alla fine aveva deciso di accettare l’offerta.
I contributi di Shin’ichi alla rubrica “I miei ricordi” furono pubblicati giornalmente dagli inizi di marzo. Egli fece partire la storia dalla sua nascita, il 2 gennaio 1928. Nella prima puntata scrisse del padre ostinato, che dai vicini era conosciuto come il “signor Testadura”. Nelle successive puntate ricordò di come aveva aiutato la famiglia nell’attività di raccolta e lavorazione delle alghe marine, e raccontò delle consegne dei giornali che aveva fatto da ragazzo. Raccontò del lavoro in una fabbrica militare, e di come durante l’addestramento militare a scuola fosse quasi crollato sul campo di esercitazione, sputando sangue a causa della tubercolosi.
Shin’ichi ricordò il tempo in cui le autorità confiscarono la casa di famiglia e la demolirono per creare una cessa come protezione contro i bombardamenti in tempo di guerra a Tokyo, e di come la loro nuova casa fu distrutta da un attacco aereo la notte prima che vi si trasferissero. L’unico oggetto che riuscirono a strappare alle fiamme della casa fu una cesta contenente una serie di bambole usate per la “festa delle bambine” e un ombrello. Negli altri episodi: la morte in guerra del fratello maggiore, il suo desiderio di studiare dopo la sconfitta del Giappone e il primo incontro con il suo maestro, Josei Toda.
I suoi articoli della rubrica “I miei ricordi” rappresentavano un richiamo alla pace basato sull’esperienza personale. Shin’ichi credeva che fosse responsabilità di chi era cresciuto durante la guerra prendere costantemente la parola in nome della pace. L’epoca in cui si nasce può essere considerata come il proprio karma e anche come la propria missione.
(13. continua)