Marco, detenuto. Lorenza, insegnante. Due vite che si incrociano e determinano un cambiamento reciproco. Si può essere reclusi sia fuori che dentro il carcere: questo è quello che hanno capito grazie alla condivisione degli insegnamenti del Daishonin. Un’esperienza che li ha arricchiti e che in conclusione ha dato a entrambi una nuova forma di libertà: per uno materiale, per l’altra spirituale
La luce dentro
di Marco Lentini
Ho cinquant’anni, trenta dei quali trascorsi a delinquere. In questo mio percorso ho abitato a lungo nei mondi di Inferno, Avidità e Animalità, in cui fanno da protagonisti la droga, la violenza, le depravazioni, le sopraffazioni e ho frequentato per quattordici anni il carcere.
Il mio ravvicinamento verso una vita “normale” è iniziato alcuni anni fa, ma il vero punto di svolta l’ho avuto nel conoscere il Buddismo di Nichiren Daishonin, quando ho capito che diventare una persona onesta sarebbe stato il punto di partenza anziché di arrivo.
Ho conosciuto il Buddismo nel 2007, mentre mi trovavo in carcere, tramite un’insegnante, Lorenza, che dopo avermene parlato, ha iniziato a spedirmi libri del presidente Ikeda e copie delle riviste dell’Istituto. Per alcuni mesi, pur leggendo il materiale che quasi ogni settimana mi inviava, non ho mai avuto il coraggio di recitare Nam-myoho-renge-kyo, nonostante i suoi inviti ripetuti. Fu nel gennaio 2008 che, durante uno dei miei primi permessi, un po’ per gioco, e provando quasi vergogna per il fatto che mi sentivo ridicolo, iniziai a recitare Daimoku. Già nell’arco di pochi giorni arrivarono i primi benefici.
In primo luogo trovai lavoro, e nella mia situazione era tutt’altro che scontato; non solo, lo stesso giorno uno degli editori a cui avevo inviato un mio romanzo, mi offrì un contratto.
Da allora è iniziato il mio percorso lungo il quale mi sono stati vicini alcuni compagni di fede, in particolare Lorenza, che mi ha trasmesso la passione per lo studio del Gosho e delle guide del presidente Ikeda. È grazie a ciò che ho ottenuto il beneficio visibile più importante: la libertà.
Nella primavera-estate dello stesso anno, il Tribunale di sorveglianza stava discutendo la mia ammissione al regime di detenzione domiciliare. La decisione era stata già rinviata due volte e la data del 26 giugno sembrava quella giusta. Tutti i grandi o piccoli ostacoli che fino ad allora avevano impedito la mia scarcerazione erano stati rimossi e nulla sembrava frapporsi fra me e il mio ritorno a casa, nulla se non l’imprevedibile. E così accadde: ancora una volta la decisione venne rinviata. Quel giorno mi crollò il mondo addosso. Erano cinque mesi che recitavo Daimoku: dagli iniziali cinque minuti ero passato alla mezz’ora fino all’ora piena nei giorni precedenti la camera di consiglio. Proprio in virtù dell’impegno che avevo messo nella pratica come nello studio, mi sentii tradito. Tradito da Nam-myoho-renge-kyo, dal Gohonzon, dal Buddismo. La conseguenza fu che in me svanì la mia ancora debole fede. Nel frattempo Lorenza per sostenermi mi scriveva quasi giornalmente finché, il giorno precedente la nuova camera di consiglio fissata per il 22 luglio, mi arrivò una sua lettera in cui diceva che per tutta la mattinata del giorno seguente, avrebbe recitato Daimoku per me. La cosa mi colpì e decisi che, per riconoscenza nei suoi riguardi, avrei recitato almeno per mezz’ora. Quel 22 luglio mi svegliai alle quattro e, seduto sul water, iniziai a recitare sottovoce per non disturbare il mio compagno di cella. Cominciai con noia e con fastidio sperando che quella mezz’ora trascorresse il più in fretta possibile. Daimoku dopo Daimoku, sentii qualcosa cambiare dentro di me e con sorpresa mi resi conto che la noia e il fastidio erano spariti sostituiti da un forte desiderio di continuare. Quella mezz’ora divennero due ore fatte con gioia, con una pace e una serenità che nei mesi precedenti non avevo mai conosciuto; avvertivo una forza che mi spingeva ad andare avanti, a non fermarmi, fin quando, a un certo punto mi sentii libero. Attorno a me non c’erano più mura, sbarre, cancelli o dolore. In quel momento non ero più in carcere, ma ero libero. Libero come l’aria, libero come il pensiero. Libero di ridere e gioire di quella libertà. Continuai a recitare ancora qualche minuto e poche ore più tardi ero davvero una persona libera.
Poco dopo la scarcerazione, ho iniziato a collaborare con l’Istituto Buddista attraverso il gruppo impegnato a sostenere i praticanti che si trovano in carcere.
Il passo successivo è stato decidere di ricevere il Gohonzon, cosa avvenuta nel dicembre del 2008, e da quel momento la mia vita ha avuto un’ulteriore accelerazione. Nell’arco di una settimana ho avvertito ancora più forte il desiderio di recitare, così sono passato a un’ora e mezza di Daimoku quotidiano e nel contempo ho deciso di impegnarmi più a fondo nell’attività, così ho iniziato a fare protezione al Centro culturale.
Tuttavia, se i benefici materiali sono importanti per la situazione nella quale mi trovavo, e in fondo tuttora mi trovo in quanto sottoposto a parecchi vincoli – il mio fine pena è nel 2019 -, per me molto più importanti sono stati i benefici invisibili.
Ho finalmente trovato il rispetto verso la mia e le vite altrui. Ho imparato a vivere i desideri come stimolo per il loro raggiungimento senza però farne né un’ossessione né motivo di sofferenza, esattamente il contrario di come mi comportavo in precedenza, quando ogni azione per avere tutto e subito, era ai miei occhi lecita. Mi sono tolto la maschera che indossavo da decenni e questo mi ha permesso, per la prima volta, di essere me stesso, di avere il coraggio di affrontare le mie debolezze e far emergere la sensibilità, l’emotività, la compassione, l’altruismo, l’umiltà, volutamente relegati nell’angolo più buio del mio cuore.
Questo mio modo di essere ha preso il posto dell’arroganza e della presunzione dietro cui mi nascondevo e così ora riesco a dialogare, ad ascoltare e spesso capire le ragioni altrui permettendo a idee e opinioni diverse dalle mie di entrare a far parte del mio bagaglio. Ho smesso di soffrire per quella gabbia di emarginazione e solitudine nella quale io stesso, col mio atteggiamento, mi ero rinchiuso.
Tuttavia, per quanti benefici abbia ricevuto, ve n’è uno che sta alla base di tutto, senza la cui soluzione il mio percorso sarebbe rimasto incompleto e arenato nel mio passato: riuscire a perdonarmi per aver causato la morte di una persona.
Il peso di quanto fatto continuava a tormentarmi fino a diventare un’enorme palla al piede che mi ancorava al suolo. E così, impossibilitato a spiccare il volo, ero quasi timoroso nel confrontarmi con gli altri perché mi ritenevo “sporco”, ossia non meritevole di venire trattato alla pari da chi invece non aveva fatto alcun male. Questo mio essere legato al passato inoltre non mi permetteva di esprimere il mio potenziale perché, colpevolizzandomi, non ritenevo di meritare alcun traguardo importante. In sostanza non riuscivo a riconoscere la Buddità insita in me. Non mi è facile vivere ogni giorno con questa ferma consapevolezza, ogni tanto riaffiora la mia oscurità, ma so come tenerla sotto controllo: ponendomi obiettivi ambiziosi. Nel momento in cui ho deciso di raccontare la mia esperienza a una riunione, una casa editrice mi ha contattato per la pubblicazione di un libro autobiografico dove, fra l’altro, racconto di come ho conosciuto il Buddismo.
Nell’introduzione all’edizione russa delle Lezioni sul Sutra del Loto è scritto: «Chiunque voi siate, qualsiasi azione malvagia possiate avere commesso o per quanto siate caduti in basso, il Budda non vi abbandonerà mai. La vostra vita non perde di valore. Con pazienza e tenacia il Budda insegna, ammonisce, rimprovera e perdona».
Quando lessi per la prima volta questa frase pensai che fosse stata scritta appositamente per me, ora ne ho la certezza.
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Le catene del mio io
di Lorenza Cenacchi, Ferrara
volevo piacere a tutti, ma non piacevo a me stessa. Quarantott’anni spesi alla ricerca dell’approvazione degli altri, schiava delle catene del giudizio degli altri, prigioniera delle paure. Ho cominciato a praticare nel 1986 e dopo un lungo cammino ho capito quale fosse il nodo da sbrogliare andando là, dove le catene ci sono veramente e non sono virtuali, come le mie. Catene materiali, di metallo pesante. Proprio là dove l’uomo perde la libertà e vive di continue negazioni del sé, della propria dignità, della propria umanità, naufrago in un mare di disperazione, perché non sa come salvarsi, in quella “terra impura”, priva di fiducia nelle potenzialità dell’essere umano: il carcere.
Là ho capito. Ho capito quanto sia bella la vita e come noi, fuori, non ce ne rendiamo conto. Non solo. Ho capito quanto siano importanti i rapporti umani, aprirsi, condividere, lasciarsi andare, avere coraggio di credere, avere fiducia. Qui fuori, quei rapporti, li trascuriamo, li diamo per scontati. Ho imparato ad avere fiducia, nella natura illuminata mia e dell’altro. Ho capito che la massima espressione di questa fiducia si esprime nel rendere partecipe una persona degli insegnamenti del Budda.
Negli ultimi tre anni ho ricevuto due incarichi di docenza dal centro permanente per l’educazione per preparare alcuni detenuti agli esami. Sono stata molto indecisa sul fare shakubuku, e ho lottato internamente con il Daimoku per abbattere il muro della sfiducia. Mi sono quasi fatta violenza ma fatto il primo passo, sono stata ricompensata a piene mani con una gioia, uno stato vitale mai provati prima. Ho capito che anche “loro” sono Bodhisattva della Terra che stanno aspettando di essere risvegliati, ecco quindi la mia missione.
L’incontro con Marco: molte resistenze iniziali, poi finalmente i primi Daimoku. Con pazienza gli ho parlato per corrispondenza di Buddismo attraverso i fatti della mia vita, rendendolo partecipe delle mie esperienze di pratica, della mia lotta per la rivoluzione umana: ogni parola era filtrata dal Daimoku. È nata una grande amicizia fatta di sostegno e di sfide per raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi. Gli ho mandato una quantità imponente di materiale mentre era ancora detenuto. Abbiamo preso contatto con il gruppo che sostiene i praticanti detenuti, e abbiamo iniziato entrambi a scrivere per trasmettere questa fiducia. «È il cuore che è importante», il cuore sincero, anche se racchiuso in alcune parole scritte, non importa se non ci si può guardare negli occhi o non si sente la voce.
Questa attività ci ha permesso un grande passo in avanti. In seguito ho fatto lezione a tre detenuti in regime speciale e uno di loro ha cominciato a recitare Daimoku. Il mio desiderio è che anche loro abbiano un’occasione per liberarsi delle catene, come sono riuscita a fare io con le mie.
Per tutti i miei shakubuku nutro un affetto profondo, quasi fossero miei figli. O i miei genitori. Anche se non ci sentiamo per periodi più o meno lunghi, ci incontriamo sempre nei momenti in cui uno ha bisogno dell’altro, di sostegno, di incoraggiamento, è la massima espressione della solidarietà umana, la base per la realizzazione di una società pacifica.