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La danza della mia vita - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 18:15

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La danza della mia vita

Beppe Tulli, Roma

Ogni giorno è un nuovo giorno. A volte penso a come potrebbe essere la mia vita se non potessi più ballare e quello che mi dico è che la mia missione sarà quella di continuare a vivere e incoraggiare gli altri

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Ogni giorno è un nuovo giorno. A volte penso a come potrebbe essere la mia vita se non potessi più ballare e quello che mi dico è che la mia missione sarà quella di continuare a vivere e incoraggiare gli altri

Giuseppe, o meglio Beppe come si fa chiamare dagli amici, oggi ha quarantadue anni e pratica da ventitré. Da quando, cioè, scoprì appena diciannovenne di essere sieropositivo. È molto conosciuto a Roma, dove vive dopo essersi trasferito dalla Ciociaria a cui è particolarmente legato, perché la sua esperienza ha toccato moltissime persone. La racconta ogni volta che si presenta l’occasione. Che capita non solo nei corsi o in riunioni particolari: Beppe spesso si avventura in vere e proprie “trasferte” in giro per l’Italia, per incoraggiare anche una sola persona. E in effetti di cose da raccontare ne ha parecchie, dal momento che è riuscito a sconfiggere molte malattie gravi, tutte conseguenze dell’HIV, come per esempio due tumori al fegato. Lo abbiamo intervistato perché vorremmo capire quale è la visione del Buddismo e della vita di una persona che ha affrontato sfide così grandi. E perché non vuole passare per “miracolato”.

Beppe, hai vinto su tante malattie, lottando per non morire. Ma come hai fatto a non scoraggiarti mai?
La mia fortuna è stata quella di avere avuto fiducia fin dal primo momento in cui ho abbracciato il Buddismo. Mi sono affidato immediatamente all’insegnamento di Nichiren, coltivando un rapporto diretto con Ikeda, Toda e Makiguchi. Questo è il mio “segreto”, grazie al quale non ho avuto mai paura perché sentivo di avere già la soluzione alla mia sofferenza.
Non posso dimenticare un periodo in cui ero costretto a letto da tantissimo tempo e a seguito di quattro collassi polmonari mi trovavo intubato in ospedale. Più recitavo Daimoku e più il mio stato vitale cresceva. La cosa divertente era che chi mi veniva a trovare credeva di trovarmi moribondo e invece usciva incoraggiato. Credo che tutto ciò sia successo unicamente grazie alla grande fede che ho avuto fin da subito, dall’essermi fidato pienamente, come fossi un cieco preso per mano e guidato.

Quando racconti la tua esperienza esprimi sempre gratitudine e il desiderio di realizzare kosen-rufu.
Realizzare kosen-rufu è una promessa che ho fatto al Gohonzon. Quando fui costretto a sottopormi a un’operazione in cui avevo solo l’un per cento di possibilità di sopravvivere, i miei genitori avevano già comprato la bara. Per loro ero già morto. Ma non ho ceduto a quanto mi stava accadendo. Ho recitato Daimoku per due giorni di seguito con un solo pensiero: «Gohonzon, se la mia missione per kosen-rufu è finita qui, lo accetto con grande gratitudine. Se devo continuare, però, lo farò senza risparmiarmi per dimostrare la forza di Nam-myoho-renge-kyo». Da quell’esperienza sono uscito vincitore e oggi continuo a fare il mio lavoro, ballare. Ma quello che più conta è che con la mia vita sono riuscito a incoraggiare gli altri. Non posso fare diversamente, non posso che esprimere la mia gratitudine e ripagarne il debito offrendo il mio tempo per kosen-rufu con il desiderio che tutti siano davvero felici. Andrò in qualsiasi posto anche per una sola persona.

Ma non hai mai pensato: «Questa non è vita»?
Da ventun’anni soffro di forti dolori fisici. Anche adesso sto combattendo: mi hanno diagnosticato l’herpes agli occhi e dei tumori al sangue, un’altra conseguenza dell’HIV. In effetti si tratta di una sofferenza continua, che devo decidere ogni volta di trasformare. Mi metto davanti al Gohonzon con la massima fiducia e rimango sempre stupito di come funzioni! Altrimenti questa Legge non sarebbe mistica.
L’ultima volta che sono stato in pericolo di vita risale al dicembre 2008. I medici mi avevano dato otto ore di vita. Mi trovo a un controllo di routine, faccio una lastra al torace e mi siedo in sala d’aspetto. Nel frattempo recito nella mia mente. I medici mi chiamano allarmati, mi dicono che ho dei valori dell’emoglobina così bassi da rischiare un infarto da un momento all’altro. Eppure mi sentivo benissimo. Avevo appena finito uno spettacolo. Mi sottopongono in un attimo a delle trasfusioni e mi fanno rimanere in ospedale un mese e mezzo.
Ho capito che è un continuo combattere. Ogni giorno è un nuovo giorno. A volte penso a come potrebbe essere la mia vita se non potessi più ballare e quello che mi dico è che la mia missione sarà quella di continuare a vivere e incoraggiare gli altri anche su una sedia a rotelle. Vorrebbe dire che la mia vita si evolve in questo senso. E io voglio continuare a vivere senza rancore e odio o tanto meno gelosia.

Dopo tutto questo come consideri la sofferenza?
Per me si tratta di un meraviglioso trampolino di lancio per arrivare alla felicità eterna. È un percorso che inizia con la sofferenza, ma grazie a una fede profonda, senza essere sviati e avere dubbi, si trasforma in saggezza e felicità. Oggi mi rendo conto che superando molte difficoltà, anche di tipo familiare e sociale, sono riuscito a costruire un vero amore per me stesso. Non me ne accorgevo, ma in realtà non sapevo cosa volesse dire. Credevo di volermi bene, eppure amavo gli altri per colmare la mia mancanza d’amore. Ma poi sono arrivato alla consapevolezza che se non si ama se stessi non si può essere davvero amati, così come se non si è felici non si può dare felicità.

Tu incoraggi tanto le persone, che cosa ti colpisce di più della sofferenza altrui?
Quello che mi sembra più evidente è che si soffre tanto perché si pensa di non avere il mezzo per trasformare il dolore. A volte vorrei fare shakubuku a chi sento così in difficoltà, ma mi sento quasi un “venditore” e quindi recito affinché queste persone possano avere la fortuna di ricevere il Gohonzon.

Non ti senti mai intollerante verso chi sembra bloccato da problemi meno urgenti e gravi di quelli che hai affrontato tu?
Cerco sempre di non fare confronti. Ognuno ha la propria sofferenza. All’apparenza può essere banale e superficiale. Ma ognuno ha il suo karma, la sua missione, che deve affrontare davanti al Gohonzon, usandola come una spinta e non come l’oggetto di culto. È davanti al Gohonzon che dobbiamo andare per trasformare le nostre difficoltà. Siamo tutti uguali. Quello che desidero è che ognuno possa dire che può vincere. Solo se ci facciamo dominare dalla mente siamo perdenti. Dobbiamo invece esserne padroni. E ricordarci che è nel momento cruciale che diamo la botta finale. È come una roccia che si sgretola con la centesima goccia. Tutto il percorso è importante, ma l’ultima goccia è quella fondamentale.

Che cosa pensi che arrivi agli altri della tua esperienza?
Cerco di non far arrivare la sensazione che la mia esperienza sia un miracolo. Desidero anzi che possano comprendere che quello che ho vissuto finora non è altro che la trasformazione dell’oscurità in Buddità. Se pensiamo al miracolo ci togliamo anche il senso di responsabilità e non è così. Piuttosto è un nostro diritto risolvere i problemi che ci affliggono, vincerli impegnandoci al massimo e diventare felici senza compromessi, senza accontentarsi.

Parli di vittorie interiori?
Sì, la cosa più bella per me è riuscire ad amare la vita in ogni momento, per il solo fatto di esserci, come insegna Nichiren. Spesso rifletto su come la malattia sia stata un catalizzatore per la mia rivoluzione umana. Intendo dire che, per esempio, uno dei benefici più importanti che ho avuto riguarda la mia famiglia. Desideravo che per il Natale del 2008 tutta la mia famiglia si riunisse. Mentre recito Daimoku un giorno mia madre mi chiama per sapere se avremmo partecipato tutti al pranzo del 25. Per la prima volta siamo stati tutti insieme, e non ognuno per fatti propri. Ecco la risposta del Gohonzon. In quell’occasione ho detto alla mia famiglia: «Non ce la faccio da solo. Ho bisogno di avervi vicino. Devo combattere un’altra grande malattia. Volete aiutarmi?». Tra le lacrime ho sentito un sì sincero dei miei fratelli e dei miei genitori che si è manifestato nel corso del mio ennesimo ricovero in ospedale, quando ho sentito per la prima volta l’amore dei miei che mi hanno detto: «Ti vogliamo bene». Pensavo che non sarebbe mai accaduto. Ecco perché sono davvero convinto che la malattia sviluppi lo spirito di ricerca, la ricerca dell’oasi della serenità.
Quando ero piccolo correvo a piedi nudi in un campo di grano giallo ocra. Mi sembrava di volare. Quella sensazione è una delle peculiarità del Buddismo: quella grande capacità di vincere con leggerezza e non con superficialità.

Un’ultima domanda. Tu che hai lottato tanto per vivere hai paura della morte?
Sinceramente no. E vorrei che anche chi sta lottando contro una grave malattia fosse consapevole che ognuno di noi ha una missione propria. Dobbiamo illuminarla. E anche se il nostro karma fosse immutabile, se non si può guarire e si muore, la vita è comunque eterna. È l’attaccamento che ci fa soffrire, che ci impedisce di considerare la morte come una fase della vita stessa.

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