Fingevo di stare bene, di avere il controllo della situazione, ma stavo malissimo e, nonostante una voce interna mi ripetesse che il Gohonzon non funziona, mi mancava da morire quell’inno alla vita che è Nam-myoho-renge-kyo
Pratico il Buddismo dal 1996. Nell’agosto del 2003 avevo perso tutto: era finita una lunga relazione sentimentale e il progetto societario di cui facevo parte era fallito. Ero pieno di debiti e l’ansia mi provocava violenti attacchi di panico.
Mi ritrovai, a trentasette anni, in una situazione disperata e mi affidai al Gohonzon con la determinazione di risolverla assolutamente. Sentivo il bisogno di approfondire la fede e decisi di fare attività di protezione al Centro culturale europeo a Trets durante un corso della SGI-UK.
Il presidente Ikeda ci incoraggia a “non lesinare” la nostra vita e lì dedicai anima e corpo all’attività di protezione, senza risparmiarmi. Creai delle profonde relazioni con i membri inglesi, specialmente con una donna campana che viveva a Londra, città, come lei diceva, dalle mille opportunità. Un giorno mentre recitavo Daimoku sentii una perfetta fusione con il Gohonzon e un’energia vitale mai provata prima. Nessuna paura, nessuna preoccupazione; sentivo di avere uno stato vitale capace di contenere il mondo intero. Quel giorno feci voto di dedicare la mia vita a kosen-rufu. Mi sentivo rinnovato, pieno di gioia e di forza. Al rientro trovai un cospicuo rimborso del fisco che aspettavo da circa sei anni e ciò mi permise di saldare dei debiti e con rinnovata energia iniziai a cercarmi un lavoro. Dopo due mesi trovai impiego come ragioniere, lavoro che però detestavo. Per anni avevo esercitato la libera professione e per la prima volta sperimentai cosa significava lavorare “in nero” ed essere sottopagato, ma quel pessimo ambiente lavorativo altro non era che il riflesso del mio stato vitale. A quei tempi non capii bene questo punto e resistetti solo pochi mesi, ritrovandomi nuovamente disoccupato e senza prospettive.
Fu allora che ripensai ai membri inglesi e, nonostante l’idea mi terrorizzasse, decisi di trasferirmi a Londra. Una volta lì per due settimane cercai un impiego, ma non conoscevo la lingua e questo mi creava molti problemi.
Nonostante le difficoltà oggettive recitai Daimoku e trovai un lavoro proprio nel pub sotto casa, come tuttofare. Misi da parte l’orgoglio e decisi di mettere in pratica le parole di sensei che incoraggia a dedicarci con gratitudine e impegno sul proprio posto di lavoro. Quella cucina di venti metri quadrati doveva diventare la terra del Budda.
La Soka Gakkai inglese mi accolse come una grande famiglia, a braccia aperte, affidandomi addirittura la responsabilità di un gruppo. Lavoravo tantissimo e, tra hamburger e patatine, studiavo il Gosho, provavo le canzoni del coro e riflettevo. Per otto mesi mi sfidai in questa direzione dando il massimo di me stesso.
Finché, una notte di novembre, ricevetti una telefonata da casa. Per la terza volta io e la mia famiglia ci trovammo ad affrontare il dolore della perdita: prima la morte di mio fratello a ventisette anni in un incidente, poi quella di mio padre suicidatosi a seguito di una profonda crisi depressiva e, ora, la perdita di mio cognato colto da un malore.
Con la morte di mio padre, grazie al Daimoku, avevo vissuto una bellissima esperienza di fede, e speravo di non dover più affrontare eventi così dolorosi. Per anni mi ero dedicato con passione all’attività per kosen-rufu pregando col desiderio che in casa mia regnassero gioia e serenità. Ero deluso, arrabbiato, ma ancora di più ero stanco di lottare e per quanto mi sforzassi il dubbio cominciò a farsi strada.
Rientrai in Italia per sostenere quella situazione e tornai a esercitare, mio malgrado, al posto di mio cognato, la mia vecchia professione di commercialista a fianco di mia sorella, lavoro da cui ero scappato dieci anni prima e che non volevo assolutamente svolgere. Mi ritrovai solo e con un peso enorme sulle mie spalle ma ormai non potevo tirarmi indietro. Ricominciarono gli attacchi di panico e per un anno soffrii di insonnia. Mi chiedevo continuamente a cosa valesse fare tanti sforzi nella pratica se poi nella mia vita ritornavo ogni volta al punto di partenza. I miei “demoni” presero il sopravvento, mi chiusi in me stesso e senza rendermene conto smisi di praticare. Privo di energia vitale facevo i conti con i miei vecchi atteggiamenti distruttivi e ricominciai a fare uso di alcol e di droghe leggere.
Tutte le mattine mi alzavo demotivato, con una grande pesantezza; per due anni mi sono sforzato cercando di dedicarmi con senso del dovere al lavoro, ma senza passione. Mi sentivo in trappola. Fingevo di stare bene, di avere il controllo della situazione, ma stavo malissimo. Nonostante una voce interna mi ripetesse che “tanto il Gohonzon non funziona”, mi mancava da morire quell’inno alla vita che è Nam-myoho-renge-kyo. Nel Gosho Risposta a Kyo’o (RSND, 1, 365) Nichiren dice che il leone prima di sferrare un attacco indietreggia e raccoglie tutte le sue forze. Demotivato, raccolsi quel poco di energia che mi era rimasta e nel 2008 decisi di partecipare al corso estivo di Fiuggi. Ero ritornato a casa, alla grande famiglia della Soka Gakkai. Troppa gioia attorno a me per non rimanerne contagiato. Fui incoraggiato a rinnovare la fede anche per aiutare gli altri. Dipendeva da me poter mettere a tacere quel demone interno che diceva: «Tanto non ce la farai». Rientrai in Sicilia con una consapevolezza diversa.
È stato duro riprendere a praticare dopo tanta “siccità”. Riaprii il Gohonzon con rinnovata energia e cominciai a partecipare intensamente alle attività del mio settore, ricordandomi il voto fatto a Trets cinque anni prima: «Dedicare la mia vita a kosen-rufu».
Decisi che tutti i miei sforzi non sarebbero stati più una pesantezza ma la gioia della mia vita. Così, con nuova determinazione e incoraggiato dalle parole di sensei ovvero che un giorno avremmo capito il significato delle nostre esperienze, esaminai sotto una nuova luce la mia situazione personale comprendendo l’unicità della mia missione per kosen-rufu. Desideravo condividere con la mia famiglia questa lotta togliendomi ogni maschera e mostrandomi per quello che ero. A darmi man forte in questa avventura è arrivata mia nipote che da alcuni mesi ha cominciato a praticare. E da quel momento le cose sono cambiate. Sono diventato consapevole della negatività interiore che causava la mia sofferenza. Se la mia vita mi portava di nuovo a un lavoro che non mi piaceva, era lì che dovevo svoltare. Ho iniziato a provare gratitudine per quello che avevo e da lì ho ricevuto nuovi incarichi professionali. Oggi il settore di Caltanissetta vede l’impegno straordinario di membri e simpatizzanti che con sforzo e passione stanno determinando l’avvio di una nuova era. Ognuno di loro sta vincendo nella propria vita e qualcosa di profondo è cambiato. Il numero di praticanti è raddoppiato contando la presenza di tanti nuovi giovani che rappresentano il nostro futuro e sento sempre di più di appartenere alla mia meravigliosa terra: la Sicilia.
Per il momento un’altra battaglia è vinta.