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Una speranza di libertà e dignità - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 15:56

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Una speranza di libertà e dignità

Daniela Di Capua è direttrice del Servizio Centrale dello SPRAR di Roma, l’ufficio di coordinamento del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Si occupa di assistere tutti i progetti e di monitorarne la qualità dei servizi. L’obiettivo di questi progetti gestiti dagli enti locali e dalle associazioni è di tutelare e sostenere i richiedenti asilo e i rifugiati accompagnandoli lungo un percorso di (ri)conquista della propria autonomia

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Daniela Di Capua è direttrice del Servizio Centrale dello SPRAR di Roma, l’ufficio di coordinamento del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Si occupa di assistere tutti i progetti e di monitorarne la qualità dei servizi. L’obiettivo di questi progetti gestiti dagli enti locali e dalle associazioni è di tutelare e sostenere i richiedenti asilo e i rifugiati accompagnandoli lungo un percorso di (ri)conquista della propria autonomia

Come vivi la pratica buddista nella tua vita quotidiana?
La mia pratica non è mai separata da tutto quello che faccio (famiglia, lavoro, amici, attività). A me praticare dà molta gioia di vivere, una grande energia, senza che sia un mio obiettivo specifico. Questa leggerezza che mi sostiene tantissimo mi viene riconosciuta dagli altri senza che io faccia nulla di particolare. È proprio vero che lo stato vitale influenza l’ambiente. Pratico da ventisei anni e, nonostante tutto, continuo ancora a sorprendermi di questo.

Cosa significa per te la parola clandestino?
È sintomo di una cecità. Chi usa questo termine non vede al di là del fatto formale di una persona che entra nel nostro Paese privo di documenti regolari. Queste sono persone coraggiosissime che intraprendono viaggi che talvolta durano anni e lo fanno per ottenere il diritto di vivere come donne e uomini liberi. Sono perseguitati per i motivi più disparati: perché hanno scelto una religione piuttosto che un’altra, perché hanno orientamenti sessuali differenti, perché vogliono essere liberi di indossare o meno un indumento o fare un determinato lavoro. Se ognuno di noi vedesse quanto tutto questo sia legato allo squilibrio universale in cui viviamo, non userebbe la parola “clandestino”. Un clandestino è chi ti entra in casa di nascosto, ma i migranti in fuga non si vogliono nascondere, aspirano anzi a una nuova vita, una speranza di libertà e dignità.

Il 5 aprile 2011 la Presidenza del consiglio dei ministri ha pubblicato un decreto che riconosce “misure umanitarie di protezione temporanea” ai cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa, arrivati su territorio italiano. Puoi spiegare come affrontate in pratica questa emergenza?
In Italia, la prima tappa per l’accoglienza dei richiedenti asilo avviene in grandi centri collettivi gestiti dalle prefetture e solo in un secondo momento possono essere trasferiti nei progetti dello SPRAR a essi specificamente dedicati, a seconda che si tratti di donne sole, uomini soli, famiglie, minori senza parenti, vittime di tortura, persone disabili eccetera. Purtroppo però le risorse stanziate dal governo non sono sufficienti a garantire a tutti coloro che ne hanno necessità l’accesso a questo sistema di seconda accoglienza. Noi non ci occupiamo dei primi arrivi, ma partecipiamo da alcuni mesi al Tavolo di coordinamento nazionale per la gestione della cosiddetta “Emergenza Nord Africa” che è stata affidata alla Protezione civile. La protezione temporanea è stata introdotta come misura specifica per i cittadini tunisini in fuga, ma in realtà il novanta per cento delle persone in arrivo a Lampedusa è ormai costituita da cittadini provenienti da altri stati africani, soprattutto Somalia, Eritrea, Etiopia, Libia. Si tratta quindi di richiedenti asilo che vengono accolti nei centri collettivi governativi, o nei progetti SPRAR, o in strutture attivate appositamente in tutta Italia per questo afflusso straordinario. La situazione è caotica e tuttora disomogenea, ma stiamo lavorando affinché l’accesso ai diritti riconosciuti sia possibile a ognuno.

Le misure di accoglienza organizzata sono state istituzionalizzate nel 2002 con la costituzione dello SPRAR. Ci spieghi come funziona?
Abbiamo un sistema centrale di coordinamento, che in questo caso è il mio ufficio. Poi c’è l’obiettivo comune di trasferire il sistema a livello locale sviluppando dei progetti attraverso le strutture di accoglienza di piccole dimensioni, diffuse e organizzate in maniera omogenea. Attualmente ci sono centocinquantatré progetti per oltre quattrocento strutture. Questo sistema è legato all’idea della diffusione e della distribuzione. Non facciamo assistenzialismo, ma mettiamo in atto uno scambio, cerchiamo di costruire delle reti tra realtà diverse (i rifugiati e i residenti) affinché tutti ne traggano beneficio, non solo coloro che arrivano come stranieri da accogliere.

Ci fai un esempio pratico?
Prendiamo il caso di una famiglia numerosa che da Lampedusa è stata accolta in un grande centro della Sicilia e che successivamente ci viene segnalata per una sistemazione nello SPRAR. Noi verifichiamo che ci sia posto per loro nel progetto di un certo Comune di medie dimensioni: a questo punto, la famiglia viene inserita in un alloggio che divide con un’altra famiglia. Gli adulti vengono accompagnati nell’espletamento delle procedure burocratiche, i bambini iscritti a scuola, tutti usufruiscono dell’assistenza sanitaria e di corsi di italiano, se necessario anche di supporto psicologico. La loro presenza nel condominio può essere vista con paura e diffidenza in un primo momento, ma gli operatori del progetto organizzano una festa in piazza o una partita di calcio o una cena comune, e in questo scambio informale si produce un contatto fra persone piuttosto che fra identità culturali e religiose differenti, aprendo un varco a nuove relazioni e contaminazioni reciproche. Una ricchezza per tutti.

Negli ultimi anni il numero dei rifugiati e richiedenti asilo è aumentato notevolmente. Come ti senti quando sei impossibilitata a inserire nei progetti di accoglienza coloro che lo richiedono?
Tutti gli operatori del sociale dovrebbero avere il distacco necessario per capire che non possono salvare tutti altrimenti si va in burn out, per usare il termine tecnico, cioè si scoppia. Tu non puoi risolvere tutto il problema e non puoi risolvere i problemi di tutti, ma devi essere consapevole che fai parte di un sistema e che comunque il vero obiettivo è fare in modo che il sistema rimanga e funzioni anche senza di te. Allora davvero hai costruito del valore. Non risolvo mai il cento per cento, ma cerco di risolvere sempre qualcosa in più di ieri.

Come si può far comprendere alle persone il concetto buddista di origine dipendente?
Un po’ con l’esempio, comportandosi in ogni momento in modo coerente, con tutte le persone. Quando si ha lo stesso atteggiamento in ogni circostanza, e si è coerenti con cio’ che ci circonda, secondo me inviamo un messaggio che viene recepito anche inconsapevolmente. Servono dei modelli di vita. Con il Daimoku puoi acquisire la saggezza per tirare fuori in ogni situazione quello che può essere utile per creare delle relazioni forti, indipendentemente dalle posizioni di ognuno. Al mio “vicino di casa” direi di guardare le cose da un altro punto di vista, e non semplicemente dal punto di vista umanitario, ma anche da quello tecnico. Se si cambia punto di vista si capisce che ogni evento in ogni situazione produce conseguenze che ricadono inevitabilmente su tutti noi, su tutto ciò che ci circonda, e quindi si comprende che tutto ci riguarda. Se per esempio sei nella tua bella casa, circondata dalle cose e dalle persone che ami, ti puoi illudere di avere tutto ciò di cui hai bisogno. Ma se un giorno, affacciandoti alla finestra, ti accorgi di essere circondata da alti palazzi grigi e di quanto ti manchino gli alberi, allora diventa naturale darsi da fare per trasformare la vivibilità del tuo quartiere. È importante guardare a un mondo universale che accolga i bisogni e i desideri di tutti. Rinunciando a un po’ di noi stessi, possiamo costruire forti alleanze con l’ambiente e attivare il nostro miglior potenziale.

La tua è una missione sociale che richiede molto coraggio. Cos’è che ti infonde fiducia?
Lavorare in un ufficio e trasformarlo in un posto dove tutti vorrebbero stare aiuta ad avere un riferimento concreto per credere nel cambiamento. Un altro fattore che mi aiuta a riprendere la direzione è quando sono presente al cento per cento in quello che sto facendo anche con il rischio di sbagliare. Quando mi vivo il presente, godendomelo e facendo del mio meglio per superare un limite, anche piccolo che so esistere solo dentro di me, allora ecco che mi sento “brava”!

Quali sono le problematiche dei minori e cosa sogni per i giovani immigrati?
Gli stranieri provenienti da altri continenti, sono diversi in tutto da noi, ma in realtà anche noi siamo tanto diversi uno dall’altro. L’integrazione, l’inclusione, sono processi reciproci non a una sola via. Sul piano del diritto d’asilo abbiamo minori non accompagnati (cioè arrivati senza genitori o parenti) e bambini che stanno qui con le famiglie. Per loro mi auguro che possano essere il punto di partenza di un vero percorso di integrazione perché sono proprio i giovanissimi a inserirsi per primi, andando a scuola e facendo amicizia. Ikeda dice sempre che i giovani sono come una chiave per aprire delle porte.

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