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Libertà - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:54

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Libertà

In questo speciale parliamo della libertà in molti dei suoi aspetti: libertà dalla paura, dal senso di colpa, dal senso di inadeguatezza. Con la mente rivolta alla convinzione che, contrariamente a quanto troviamo scritto sui dizionari, «libertà non significa assenza di limitazioni» ma «possedere un’irremovibile convinzione di fronte a qualsiasi ostacolo». Come ci ricorda Daisaku Ikeda

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Dedicare la propria vita alla conquista della libertà. All’abbattimento di barriere e ostacoli. Al superamento del karma. Perché le frontiere sono luoghi dell’anima ed è quelle che bisogna aprire se vogliamo ritrovarci in un mondo nuovo, nel nostro nuovo continente. È questa la promessa che Nichiren fa ai suoi seguaci, è questa la strada che Daisaku Ikeda ci esorta a seguire in una pratica costante e quotidiana, ferma e fiduciosa. È questo l’obiettivo dei Bodhisattva della Terra: scoprirsi liberi. Dovunque e comunque. Una strada costellata da timori e qualche volta insuccessi, cadute e nuovi inizi. Eppure l’unica strada, perché il Buddismo è vincere o perdere. E noi vogliamo vincere. «Libertà non significa assenza di limitazioni. Possedere un’irremovibile convinzione di fronte a qualsiasi ostacolo: questa è la vera libertà» (D. Ikeda, Giorno per giorno, 7 settembre, Esperia). Essere convinti di farcela, sapere che la vita stessa è lo strumento che ci permetterà di diventare persone libere.

La chiave della vittoria

«Non dimenticatelo, i nostri nemici potranno toglierci la vita ma non ci toglieranno mai la libertà». Ricordate l’eroe scozzese di Brave­heart? Con queste parole si rivolse al suo esercito. Un esercito di uomini affamati, laceri, male armati. Un esercito che scelse di combattere nonostante tutto e che vinse la sua battaglia. La vinse sul campo e la vinse nel cuore, perché la libertà va oltre la vita ed esiste anche quando una vita si spegne. Non si tratta di un concetto astratto ma della condizione che oltrepassa i limiti dell’individualismo e del quotidiano per entrare in quella realtà universale che richiamiamo ogni volta che recitiamo Nam-myoho-renge-kyo. È in questo modo che vita e libertà si fondono. «La vita è libertà senza restrizioni – ci ricorda il presidente Ikeda -. È caratterizzata da quest’apertura all’universo intero e da una libertà armoniosa» (D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, Esperia 1999, vol. 1, pag. 19). Una libertà che rimane nell’aria anche quando non sappiamo trovarla, che rimane a portata di tutti, che non ha restrizioni e che aspetta di essere riconosciuta. Proprio come la Buddità, che possiamo raggiungere in questa esistenza.
Cos’è che fermava i soldati male armati dell’esercito scozzese? Cos’è che frena lo slancio per superare l’ostacolo? Cos’è che ci fa sentire schiavi di catene invisibili? La paura, solo la paura. Nei lavori preparatori alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, enunciò la dottrina delle quattro libertà. Una di queste era: la libertà dalla paura. È la paura infatti che blocca la capacità di osare e credere nella vittoria, di agire laddove le circostanze sembrano a sfavore, di mettersi in gioco in un progetto maestoso. È la paura che ci rende prigionieri e vittime di quel pregiudizio che ci fa sentire sempre più piccoli di quello che siamo e allo stesso modo non ci lascia intravedere il valore e le capacità altrui.
Eppure, che grande possibilità risalire da queste sabbie mobili e spiccare il volo! Perché Nam-myoho-renge-kyo è la chiave che apre le porte di ogni prigione. Ed è quella libertà non scritta, non traducibile, non soggetta al cambiamento di stati e governi.

Non una concessione ma una conquista

Nei secoli il concetto e la difesa della libertà sono stati elaborati secondo i tempi e i luoghi e, non a caso, hanno subito variazioni e riletture condizionate dai momenti della Storia, dalle credenze religiose, dall’avanzamento civile e sociale di un paese. Così la libertà è stata comunque spesso associata unicamente al campo del diritto. Qualcosa da definire con espressioni precise – libertà di opinione, libertà di movimento, libertà di religione ecc. – e da difendere con norme, regolamenti ed eventuali punizioni in caso di violazioni. Ma la libertà è davvero frutto di una concessione? Il riconoscimento di un diritto, sia esso sociale, economico, politico, ci rende davvero più liberi?
Nelson Mandela, nell’ultima pagina della sua autobiografia scrive: «Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzandomi di non esitare […] Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare» (N. Mandela, Lungo cammino verso la libertà, pag. 579, Feltrinelli). Mandela ha lottato per sconfiggere l’apartheid in Sud Africa e lo ha fatto soprattutto dietro le mura del carcere, dove ha trascorso ventisette anni. Lui può dirlo: conquistata una libertà ce n’è sempre un’altra per cui lottare, c’è sempre una nuova battaglia da cominciare per garantire il rispetto della dignità umana. Sono battaglie importanti, indispensabili e senza le quali oggi il mondo sarebbe peggiore. Sono le battaglie per i diritti umani che lo stesso Toda (attraverso, ad esempio, la dura condanna agli armamenti nucleari) ha portato avanti. Sono le battaglie per i diritti umani che il presidente Ikeda rilancia nei suoi messaggi ai membri e al mondo intero attraverso le annuali proposte di pace. Sono azioni umanitarie, di civiltà e impegno sociale.
Ma noi buddisti portiamo avanti anche un’altra battaglia per il raggiungimento di una libertà ancora più profonda. «Il Daishonin ci insegna […] questo: la Legge mistica e la fede che noi nutriamo in essa sono l’unica via che ci consenta di liberarci dalle catene del nostro destino individuale» (D. Ikeda, La rivoluzione umana, pag. 180, vol. 7, Esperia). Così spiegava Josei Toda sottolineando quindi quanto il lungo cammino verso la liberazione dal karma fosse probabilmente difficile ma non impossibile. Anche in questo caso riuscirci dipende da noi, dalla nostra fede, dalla nostra determinazione. Ma sicuramente il primo passo è riconoscere la paura e dirle: «Non mi fermerai!». Nessun karma è immutabile ed è sicuro che la strada per la libertà passa attraverso questo cambiamento.

Un sistema basato sul coraggio

L’elemento più bello di una libertà così profonda, una volta riconosciuta, è che non può restare una vittoria solo personale. Perché non si tratta della piccola soddisfazione individuale che gratifica il piccolo io, ma è quell’espansione che – come la Buddità – deve in qualche modo diventare manifesta e spargersi a beneficio di tutti. Nichiren e i nostri maestri hanno trovato il modo di condividerla. Hanno aperto il loro cuore, hanno cercato i mezzi più giusti per farci capire che questo tipo di libertà esiste e che può diventare anche nostra. Qui e ora. «Non è un leader colui che riesce a liberare la gente dalle proprie sofferenze?» (D. Ikeda, La rivoluzione umana, pag. 118, vol.3). Soffriamo perché ogni cosa sembra rappresentare un ostacolo, perché ci sentiamo incapaci di librarci in volo, perché a volte non riusciamo a entrare in contatto col grande io a cui il Daimoku ci indirizza. Quel luogo, quella condizione in cui la libertà, una volta giunti, è più facile da conquistare perché va solo respirata. Perché non è una libertà concessa e quindi non può essere tolta. È uno stato in cui bisogna entrare lasciando fuori il timore che non la meritiamo o il pensiero che si tratti di un’utopia. La strada per arrivarci esiste, bisogna riuscire a imboccarla. E non aver paura di farlo. Ma credere che, come scriveva il poeta francese Charles Péguy «La libertà è un sistema basato sul coraggio».

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Diversi: più uniti, più liberi

Scoprire la specificità dell’altro. Abbandonare la paura di potere essere migliori di ciò che siamo. Questi sono due passi fondamentali per superare i propri limiti e crescere insieme

Ne L’eredità della legge fondamentale della vita si legge che se le persone sono in itai doshin realizzeranno tutti i loro scopi. Il principio di itai doshin ha la doppia valenza di rispettare e apprezzare le differenze tra le persone (itai: diversi corpi) e di avanzare uniti nella fede nel Gohonzon con l’obiettivo comune (doshin: stessa mente) di realizzare una società pacifica. Il nostro maestro ci ricorda spesso che ogni persona ha una missione preziosa e insostituibile: «Come indica l’insegnamento buddista dei fiori di ciliegio, pesco, prugno e susino selvatico ogni persona può essere considerata un fiore speciale e distinto. È il potere della Legge mistica che permette a ognuno di noi di sviluppare pienamente il nostro potenziale e di adempiere la propria peculiare missione. Ogni individuo ha le proprie capacità caratteristiche e la propria preziosa funzione. Ecco perché è importante far crescere e sostenere i nuovi membri con tutto il cuore» (Una rivoluzione della leadership, Esperia, pag. 71). Fiori diversi emanano diverse fragranze e l’aria diventa una sinfonia profumata che addolcisce il respiro.
«Quando si realizza itai doshin, non solo vengono realizzati gli obiettivi personali, ma le vittorie dei singoli membri divengono automaticamente le vittorie dell’umanità» (Il Buddismo di Nichiren Daishonin, Esperia, pag. 240). Le differenze individuali aumentano la vitalità di un gruppo, portano ricchezza perché permettono di compensare i punti deboli. Più uniti significa più forti e vitali e anche più protetti e più liberi. In un passo della Rivoluzione umana il presidente Ikeda insegna ai membri di Aomori come sviluppare unità: li invita a disporsi in cerchio, intorno al responsabile di capitolo e ad appoggiare le braccia l’uno sulle spalle dell’altro. «Se i nove responsabili di settore si coalizzano attorno a quello di capitolo nessuno sarà in grado di distruggere una tale solidarietà […]. Se proteggete le persone, anche voi a vostra volta sarete protetti, questa è la legge di causa ed effetto» (NRU, 4, 14)
Imparare ad avanzare uniti, verso lo scopo comune, apprezzare le diversità e desiderare di diventare felici insieme agli altri, nessuno escluso, conduce alla realizzazione di una società in cui si armonizzano al massimo grado le diversità, una società dove si può contare su comprensione e apprezzamento, dove c’è una rete di protezione che sostiene ogni persona, un luogo “bello” dove è possibile vivere liberamente.

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Cosa sei disposto a fare?

Molti ricorderanno Gli intoccabili, quel bellissimo film che racconta la storia della piccola squadra anti-crimine che a Chicago, durante il Proibizionismo, riuscì ad arrestare Al Capone per evasione fiscale. Jimmy Malone (Sean Connery), il poliziotto del gruppo, fa spesso questa domanda all’agente federale Eliot Ness (Kevin Kostner): «Che cosa sei disposto a fare…?».
Non è facile arrivare a porsi questo interrogativo. Abituati ai soliti problemi e sofferenze, consideriamo la Legge mistica e la nostra Buddità accessori deboli e inefficaci capaci solo di fare il solletico a quelle montagne apparentemente inespugnabili. Tempo fa ho scoperto che praticavo il Buddismo come se avessi il freno tirato: «Mah, finora, nonostante tutti gli sforzi, non ho realizzato granché…» pensavo in fondo. Pur recitando Daimoku, partecipando alle attività e cercando di fare tutto al meglio, c’era come un filo di seta, invisibile ma resistente, che mi tratteneva, poco o tanto che fosse. Togliere quel freno può portarci a scoprire, per esempio, che abbiamo paura di cambiare, abbiamo paura di essere felici. E intanto, continuiamo a soffrire.
La paura è frutto del nostro egoismo. Il “piccolo io”, consunto dall’ego, inizia a battere i piedi in terra per impedirci di guardare oltre e se osiamo farlo, ci dipinge il possibile cambiamento come uno scenario spaventoso, portatore solo di sciagure e altra sofferenza. Proprio questo è il momento di intensificare la recitazione di Daimoku e, se possibile, di migliorarne la qualità, perché siamo entrati nel vivo della battaglia. Può essere utile chiedersi per esempio: «Perché voglio ancora dare retta a questo pensiero frenante, a questa convinzione? Perché voglio crederci ancora? È possibile che non ci sia altro?». Un pensiero e un’azione coraggiosa ci può sospingere in avanti di chilometri fino a farci pensare che anche noi possiamo essere liberi, leggeri, aperti, pronti a riscrivere tutto daccapo, a cambiare film e scenario. La vita ama la gratitudine. A ben guardare il freno tirato è un atteggiamento indice di lamentela mentre è la gratitudine, la vera chiave di apertura di ogni giorno, di ogni istante, di qualunque situazione.

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Le catene si trasformano in ali

Quando si cambia la prospettiva allora anche la sostanza delle cose cambia e le situazioni si ribaltano. I principi buddisti possono far sprigionare la forza per avviare queste trasformazioni

L’assoluta libertà è uno degli attributi del Budda.
Daisaku Ikeda nella spiegazione del Gosho Felicità in questo mondo scrive: «Il Budda di assoluta libertà è un Budda che, pur rimanendo una persona comune, vive e usa liberamente la gioia senza limiti della Legge» (BS, 118, 11).
Ma quanto riusciamo a sperimentare questa condizione nella nostra vita? Per quanto mi riguarda ci sono momenti in cui mi sembra di avere catene invisibili saldate alle ossa. Come se fossero parte di me. E trovare la forza necessaria per spezzarle diventa un’impresa titanica.
«Se siete passivi, vi sentirete intrappolati e infelici anche nel più libero degli ambienti, – ci incoraggia Ikeda – ma se avete un atteggiamento attivo e sfidate le circostanze sarete liberi a prescindere da quanto restrittiva la vostra situazione possa di fatto essere» (I protagonisti del XXI secolo, vol. 2, Esperia, pag. 4).
Ecco la risposta: cambiare prima di tutto la prospettiva, superare la paura, ricordarsi che la vita è in continua trasformazione, che il mio inferno contiene anche la mia Buddità, che anche io posso vivere sulla mia pelle quel principio che si chiama mutuo possesso dei dieci mondi, secondo il quale ogni stato vitale possiede potenzialmente anche gli altri. Recitando Nam-myoho-renge-kyo divento forte e posso spezzare tutte le catene. A partire da questo momento.
Ogni volta che la mia vita non è come la vorrei, ogni volta che mi sento inadeguata, ogni volta che sento spuntare una catena, ho la possibilità di brandire la spada affilata del Daimoku e riconquistare la mia “assoluta libertà” sull’oscurità innata, sul mio karma, sul piccolo io, su tutto quello che non riconosce e che mi tiene lontana dalla mia Buddità.
Il Sutra del Loto afferma che il veleno della nostra vita, in qualsiasi forma esso si manifesti, sofferenza, paura, rabbia, angoscia, senso di colpa, dipendenza dalle circostanze esterne e da chi ci sta intorno, può diventare una benefica medicina grazie al potere della Legge mistica.
Per ottenere questo è necessario nutrire ogni giorno la vita con abbondante Daimoku, consolidare costantemente la nostra fede e approfondire la consapevolezza di poter manifestare la condizione di Budda, qui e adesso. Assolutamente liberi.
Ma come avviene questa trasformazione? Che cosa succede dentro la nostra vita? Il Sutra del Loto, tramite i princìpi di “i desideri terreni sono Illuminazione” (in giapponese bonno soku bodai) e “le sofferenze di nascita e morte sono nirvana” (shoji soku nehan), ci insegna che per diventare liberi non dobbiamo eliminare i desideri terreni, le illusioni e gli attaccamenti, come insegnava il Buddismo antico, bensì possiamo illuminarli. Con il Sutra del Loto eliminare diventa illuminare. E questa trasformazione è il principio di soku.
Soku indica qualcosa che potenzialmente è già qualcos’altro. T’ien-t’ai spiegò soku usando l’esempio di un frutto acerbo che, esposto alla luce del sole, si trasforma in un frutto maturo. Il frutto acerbo e quello maturo sono diversi, di aspetto, di colore, di sapore, ma la trasformazione avviene all’interno del frutto stesso.
Allo stesso modo, con il sole del Daimoku il veleno si trasforma in medicina, i desideri si illuminano, il comune mortale diventa un Budda.
L’importante è riconoscerlo, crederci e agire di conseguenza. Ogni volta che ci sentiamo vittime di un karma pesante, in balìa degli eventi e scoraggiati, ricordiamoci di spostare la prospettiva. E nel momento in cui decidiamo di mettere in atto la trasformazione recitando Daimoku il pesante fardello karmico si alleggerirà, o meglio, noi saremo più forti nell’affrontarlo e non ci sentiremo più vittime. Quando sentiamo di avere un “cuore che crede nella Legge mistica” l’oscurità fondamentale diventa Illuminazione, la paura lascia il posto al coraggio, l’ansia alla convinzione, l’angoscia alla fiducia.
«Ma cosa si intende qui con il termine “cuore”? Si tratta della traduzione dell’ideogramma kokoro o shin, che non ha equivalenti in italiano in quanto denota e abbraccia la totalità di mente, spirito, emozioni e volontà. Viene tradotto con “cuore” o “mente”, o più generalmente “vita”. Dunque parlando di “cuore” non si vuole intendere la “sede dei sentimenti” separata dalla mente in quanto “sede del pensiero”» (BS, 137, 61).
Con la fede di un cuore che crede dirigeremo la nostra vita intera (non solo la mente, non solo il cuore) verso il Gohonzon, sperimenteremo l’assoluta libertà del Budda e le pesanti catene si trasformeranno in ali leggiadre sempre pronte a farci spiccare il volo.

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«Un regno di assoluta libertà»

«Anche se, poiché sono nato nel dominio del governante, sembra che io lo segua nelle azioni, non lo seguirò mai nel mio cuore»
(La scelta del tempo, RSND, 1, 520)

«Anche le trentaquattro manifestazioni del Bodhisattva Suono Meraviglioso e le trentatré manifestazioni del Bodhisattva Percettore dei Suoni del Mondo costituiscono un’ulteriore prova. Infatti, secondo il commentario, “se egli non avesse acquisito il mistico potere della perfetta libertà di azione attraverso la meditazione sul Sutra del Loto, come avrebbe potuto manifestarsi in queste trentatré forme diverse?”»
(L’entità della Legge mistica, RSND, 1, 376)

«Nello stesso sutra si legge: «Maestro dei segreti, in tal modo questi uomini misero da parte il concetto di non io per arrivare a capire che la mente vive in un regno di assoluta libertà e che la mente individuale non ha mai conosciuto nascita [o morte]»
(L’apertura degli occhi, RSND, 1, 240)

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Il domani non mi spaventa

La pratica mi ha dato una forza enorme per affrontare tutte le situazioni, non ho timore di quello che verrà domani, vivo il presente, solo così il domani sarà bello! Recitando Daimoku la rabbia e lo spavento si sono trasformate in gratitudine, sentimento che provo ogni giorno per il fatto di stare bene e di non avere più paura

di Mara Don, Mestre (VE)

Non potrei più concepire la mia vita senza Nam-myoho-renge-kyo. Quando mi diagnosticarono la sclerosi multipla mi sentii persa, mi sembrò che la mia vita si sarebbe fermata lì, che non sarei riuscita mai a uscire da quel buco di sofferenza provocato dal sapere e dal sentire come il mio corpo reagiva a questa nuova realtà.
Ero piena di paura e di rabbia perché, malgrado la cura che seguivo, non riuscivo a recuperare la vista e mi sentivo soffocare da quella semioscurità che aveva pervaso i miei giorni. Pensavo con timore a come sarebbe stato il mio futuro. Come avrei vissuto?
A causa dei lunghi periodi di malattia e per i miei problemi alla vista, avevo perso anche il mio lavoro di impiegata. Ero spaventata, arrabbiata e mi chiedevo: «Perché doveva capitare proprio a me?».
Io che avevo sempre condotto una vita tranquilla, senza vizi né eccessi.
Dopo pesanti cure di cortisone ci fu una lenta ripresa, periodi di benessere alternati alle ricadute, tre in cinque anni. È stato dopo la terza ricaduta che ho iniziato a praticare. Devo dire che non mi sono avvicinata al Buddismo solo per la malattia. Lutti e assenze di persone care, la più dolorosa quella di mia madre, deceduta di parto alla mia nascita. Da questo evento è nato un rapporto difficile con mio padre che, anche senza darmelo a vedere apertamente, mi faceva capire di essere la causa della sua sofferenza. Tutte queste circostanze sono state all’origine di tanti malesseri e ora capisco che il mio corpo aveva risposto così. Una bella frase di Gosho dice: «Nam-myoho-renge-kyo è come il ruggito di un leone. Quale malattia può quindi essere un ostacolo?» (Risposta a Kyo’o, RSND, 1, 365).
La pratica mi ha dato una forza enorme per affrontare tutte le situazioni, non ho timore di quello che verrà domani, vivo il presente, solo così il domani sarà bello! Recitando Daimoku la rabbia e lo spavento si sono trasformate in gratitudine, sentimento che provo ogni giorno per il fatto di stare bene e di non avere più paura. Da quando pratico il Buddismo, e sono quattro anni, non ho più avuto ricadute.
Il Gohonzon rappresenta la mia rinascita come persona, è lo specchio della mia anima e del mio cuore. Mi è capitato di ringraziare persone che mi avevano creato sofferenza, perché proprio grazie a loro ho scoperto l’immenso valore di Nam-myoho-renge-kyo.
Ora posso guardare in faccia la mia vita, mi sento più forte, e come dice Nichiren in tante lettere indirizzate ai suoi discepoli: «È il cuore che è importante».
Sento una profonda gratitudine per avere una bella famiglia, mio marito e la mia splendida figlia che mi hanno sempre sostenuto.
Oggi sono responsabile di un gruppo e ho trovato delle compagne di fede che mi sostengono e partecipare alle attività di protezione mi fa sentire bene.
Nichiren spiega l’importanza del cuore e dice: «D’ora in poi, qualunque cosa accada, non devi vacillare minimamente [nella fede]» (GZ, 1090). Io come devota del Sutra del Loto desidero imparare a non esitare nella lotta.

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Liberarsi dal senso di colpa

In questi anni in alcune carceri italiane sono nati molti gruppi buddisti. Ma come si pratica in un penitenziario e quali sono le esperienze di chi sta scontando una pena? Ex detenuti, guardie carcerarie, direttori di Istituti di pena  si sono incontrati al Centro culturale di Firenze, il 12 giugno, per la seconda riunione nazionale sull’attività nelle carceri di Opera, Voghera, Torino, Bologna, Firenze, Rebibbia, Regina Coeli, Viterbo, Fossombrone, Civitavecchia. Con un chiaro input finale: facciamo rete! Non solo per condividere esperienze, ma anche per favorire lo sviluppo di legami di fede più profondi e duraturi. Di seguito un approfondimento specifico sul senso di colpa, uno dei temi dibattuti durante la giornata. Un altro resoconto nella sezione dedicata alle notizie

Carcere. Luogo in cui la sofferenza domina la vita, luogo di deprivazione sociale e affettiva, isolamento e abbandono. E poi, soprattutto, luogo in cui il senso di colpa regna sovrano. «Mi sono trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato», afferma qualcuno. Già, ma come si può decidere di ripartire?
Marco Lentini, pseudonimo dietro al quale si cela l’autore del testo autobiografico Io, l’assassino, risponde così alla domanda su come la pratica di Nam-myoho-renge-kyo l’abbia aiutato: «Non possiamo cambiare il passato, però possiamo darvi un significato, e valorizzarlo nel presente. Per parecchio tempo il senso di colpa è stato un macigno che portavo dentro. Io sono stato la causa della morte di una persona, ora cerco di vivere anche per quella persona che non c’è più. Vado nelle scuole, faccio attività di sensibilizzazione per allontanare quanto più possibile i giovani dai tranelli della malavita. È anche un modo per fare shakubuku, perché durante questi incontri parlo anche di come la pratica buddista mi abbia aiutato a prendere consapevolezza di quello che avevo fatto, e a convertire quella grave azione contro la vita in un’azione a sostegno della vita. Era un percorso che dovevo intraprendere quello che, dall’omicidio commesso, mi ha portato a prendere consapevolezza del valore della vita».
«E come si fa a superare il giudizio, la colpa che tanto spesso riconosciamo negli altri?» chiedo a Massimo Di Minno, che sta facendo attività buddista in carcere, specificatamente nel carcere di Alta sicurezza di Voghera (dove sono reclusi detenuti per reati gravi): «Bisogna innanzitutto perdonare se stessi, e poi dare fiducia all’altro, e credere nella sua natura di Budda, a prescindere dal suo passato. Cosa certo non facile».
A Roberto Buconi, ex detenuto (nel lontano 1988) per rapina a mano armata che, una volta scontata la sua condanna, tre giorni prima di ricevere il Gohonzon viene nuovamente arrestato con una pesante accusa, rivelatasi poi infondata, e resta recluso in carcere per un anno intero, chiedo: tu avevi già intrapreso un grande cambiamento interiore, eri alla soglia di ricevere il Gohonzon, come hai vissuto questa esperienza? «La lotta contro il proprio karma non si risolve solamente cambiando qualcosa. Bisogna cambiare a livello profondo, fino a trasformare radicalmente la propria sofferenza. Mi ha aiutato molto una frase che Nichiren scrisse a una madre il cui figlio si era macchiato di gravi colpe: “Un ago affonda nell’acqua […] Anche una grande roccia può galleggiare sul mare se viene trasportata da una barca […] Anche una piccola colpa può condurci sui sentieri del male se non ce ne pentiamo,ma anche una grave colpa può essere cancellata se ce ne pentiamo» (Lettera a Konichi-bo, RSND, 1, 591). Come incoraggeresti dunque a liberarsi dal senso di colpa? «Accettando se stessi, e riconoscendosi come Budda». E come si fa? «Recitando Daimoku con l’ardente desiderio di trovare il Budda».

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Ci si può anche scherzare su

Ho recitato tanto Daimoku, chiedendomi perché lui non riuscisse a capire, perché non cambiasse e perché io restassi ancora piena di rancore. Poi, nell’istante in cui ho compreso dove stava il problema, ho sorriso

di Michela Monti, Sant’Agata sul Santerno (RA)

Sono figlia di genitori divorziati, come mille altre persone. La mia famiglia si è creata e scomposta altrettanto in fretta. Mio padre a vent’anni non era pronto ad assumersi nessuna responsabilità e mia madre, cresciuta in un ambiente ferreo, non poteva permettere che la sua vita fosse limitata da un contesto chiuso come quello in cui volevano restasse. Ci sono voluti quattro anni di strilli prima che si separassero, ma era solo l’inizio. Le ostilità sono continuate per anni. Durante l’adolescenza ho iniziato a ignorare completamente la mia famiglia paterna: la sua seconda moglie, i miei nonni, mia sorella. Li ritenevo inutili, e trovavo mio padre un egoista che dimenticava di venirmi a prendere quando c’erano le gare di sci. Con mia madre non andava molto meglio. Era una lite continua. La rabbia e il senso d’impotenza nei suoi confronti mi logoravano. Io davo il massimo, puntavo a essere la migliore, ma lei si limitava a dire che era quello che dovevo fare. Così mi chiudevo.
Col tempo sono diventata una ventenne aggressiva e arrabbiata col mondo, che trovava inutile qualsiasi legame familiare, finché a fine estate 2003 ho incontrato una ragazza che mi parlava di causa ed effetto, di karma e di stato vitale. Annuivo, ma non capivo. Curiosavo e, più lo facevo, più il Buddismo di Nichiren Daishonin m’intrigava. Lessi vari libri che spiegavano come essere responsabile delle proprie scelte, della propria felicità e di come prendere in mano la propria vita. Cose importanti. Così ho iniziato a praticare, smuovendo la melma stagnante che tenevo ben ferma dentro di me, e poi è stato impossibile fermarsi. All’inizio fare Gongyo e Daimoku regolarmente non era semplice, ma mi davano una gran forza. La convinzione di non aver problemi svanì in fretta, per cui decisi di andare a fondo: se il nodo era la mia famiglia, lo avrei affrontato. Il primo passo fu avvicinarsi a mia sorella che stava attraversando una brutta crisi adolescenziale. Me ne sono presa cura vedendo mio padre in difficoltà con lei. Ho recitato tanto Daimoku, chiedendomi perché lui non riuscisse a capire, perché non cambiasse e perché io restassi ancora piena di rancore. Poi, nell’istante in cui ho compreso dove stava il problema, ho sorriso. Mio padre, l’uomo che tanto avevo criticato, in realtà non aveva la più pallida idea di cosa dovesse fare della sua vita. Come poteva davvero aiutare gli altri? Da quel momento ho iniziato a recitare Daimoku per lui, soprattutto quando mi sono accorta che le sue mancanze, anche verso se stesso, continuano imperterrite, e insieme ci scherziamo sopra. Con mia madre è stato diverso, ma ugualmente efficace. Praticavo già da più di un anno, quando mio nonno paterno ci lasciò. Chiamai mia mamma in lacrime e lei rispose bruscamente qualcosa come: «Non fare tragedie», prima di riattaccare. L’istinto fu di sbattere il telefono per terra, poi iniziai a recitare Nam-myoho-renge-kyo a bassa voce, scivolando in ginocchio sul pavimento. Chiusi gli occhi, e per la prima volta vidi davvero mia madre: una ragazza cresciuta in una famiglia rigidissima, mai soddisfatta dell’impegno che lei metteva in ogni cosa. Studiava, suonava il piano e lavorava, eppure non faceva abbastanza.
Ecco ciò che non avevo saputo guardare, perché arrabbiarsi è più comodo. In quell’attimo il telefono suonò: era la mamma che, come mai aveva fatto prima, mi chiedeva scusa. Allora ho visto com’ero diventata: distaccata, arrogante, sempre con la lancia in resta, pronta all’attacco. Per cosa poi? L’aggressività perde sempre contro un cuore pronto alla comprensione, quello che il Buddismo mi ha donato. Ikeda scrive: «Quando ci impegniamo a dialogare, dovremmo avere presente che stiamo parlando a un’altra persona che, come noi, deve affrontare inevitabilmente queste sofferenze. Se riusciamo a fare questo, possiamo comunicare con chiunque» (NR, 446, 6). Mio padre resta se stesso, mia madre ha iniziato a smussare gli spigoli, ma quel che è importante è che sono cambiata io, e la mia felicità dipende solo ed esclusivamente da me.

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Essere se stessi

Ognuno di noi è artefice della sua vita. Essere succube dell’ambiente non è un destino ineluttabile, ciascuno può scegliere di diventare un protagonista della sua trasformazione

Nelle pieghe del quotidiano faccio i conti con me. Dove sono, dove vorrei essere. Le mie azioni coerenti con i miei sogni, con i miei pensieri. E poi gli sguardi degli altri proiettano schemi di come sei percepito, immagini che condizionano il mio comportamento. A volte per non sopportare il peso della mia diversità assecondo le loro aspettative: una parola non detta per non suscitare reazioni, un’azione rimandata solo per comodità, ma la verità è che in fondo non penso di essere abbastanza capace, neppure di essere me stessa. E così, da quelle che sembrano azioni per venire incontro agli altri, nascono tempeste. Il senso di oppressione, l’infelice sensazione di non essere libera mi attanaglia. È proprio da questo campanello d’allarme che riparto, mi chiedo cosa sto facendo. Nichiren nel Gosho Felicità in questo mondo afferma: «”Felici e a proprio agio” non vuole forse dire che i nostri corpi e le nostre menti, le nostre vite e i nostri ambienti, sono entità dei tremila regni in un singolo istante di vita e il Budda di assoluta libertà?». Ognuno di noi, artefice della sua vita, può scegliere di essere succube dell’ambiente o protagonista della sua trasformazione. «Se siete passivi -, scrive Daisaku Ikeda – vi sentirete intrappolati e infelici anche nel più libero degli ambienti, ma se avete un atteggiamento attivo e sfidate le circostanze sarete liberi a prescindere da quanto restrittiva la vostra situazione possa di fatto essere». Pratico il Buddismo e se ci credo davvero, posso mettere questo concetto alla prova. Ripartire dalla voglia di fare un’esperienza, da una sfida che ha come presupposto il cuore del Sutra del Loto: lì dove sono, proprio ora, decido di sentire di avere le potenzialità del Budda.
Ritorno nel mondo, questa volta non voglio più temere, dico e faccio quello che sento, senza paura. Dopo aver recitato sinceramente Daimoku, sono determinata a illuminare le mie caratteristiche particolari. Affronto quei pensieri che mi fanno dubitare di me e vado. Mi sento più vicina alla determinazione di Nichiren, Makiguchi, Toda, Ikeda, persone come noi, che hanno sfidato l’impossibile, libere di manifestare la loro Buddità. Fino in fondo.

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Micro e macro

Puntiamo l’attenzione sul processo costante di automiglioramento per incoraggiare gli altri nella stessa direzione e cambiare ciò che sembra impossibile

«L’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni e le decisioni comportano rischi. E poi quali sono i criteri su cui può basare le sue decisioni?». Sono le parole del testamento spirituale di Eric Fromm, psicanalista e sociologo del Novecento, ne Il coraggio di essere, in cui l’umanità è al centro della sua riflessione, che mi conducono, ancora una volta, al pensiero buddista.
Partire da noi stessi è la chiave per uno sviluppo illimitato, è il primo passo in ogni tipo di rivoluzione per rendere l’umanità forte, consapevole, attiva e, in una parola, libera.
Il pensiero di Nichiren ci insegna un concetto ben diverso di libertà: autonomia nel determinare le nostre scelte, la forza di superare ogni ostacolo, emancipazione dal dolore, dalle illusioni, dagli attaccamenti, il riscatto dalla paura. «Ma oggi la società è pervasa da un senso di impotenza e di disperazione. Come posso sperare di ottenere qualcosa io, un singolo individuo? Qualsiasi cosa faccia, non cambierà niente… Il dubbio ci divora il cuore. […] Adesso dobbiamo risvegliarci al fatto che la determinazione interiore racchiusa in ogni vita individuale in ogni istante ha il potere di cambiare il mondo» (D. Ikeda, Un’onda globale di pace, Esperia, pag. 29).
Dunque, riflettori puntati, prima di tutto, sul nostro carattere, sul nostro comportamento, sul processo costante di automiglioramento e sulle nostre azioni come persone, e cittadini del mondo, per incoraggiare gli altri nella stessa direzione e trasformare, così, insieme, ciò che sembra apparentemente impossibile.
«Sorge a questo punto la domanda: cosa può produrre un cambiamento nel carattere? Nella pratica buddista, per raggiungere l’autocontrollo è necessario coltivare la consapevolezza della propria condizione vitale e fare sforzi costanti e diligenti per elevare questa condizione. Ciò costituisce la pratica della “rivoluzione umana”» (D. Ikeda, Per il bene della pace, Esperia, pag. 22).
È a questo incoraggiamento che ritorno ogni volta che mi sento piccola, impotente e “sola” davanti al mondo nel mio percorso di autoriforma individuale.

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Ingabbiata nel giudizio

«La sfortuna viene dalla bocca e ci rovina, la fortuna viene dal cuore e ci fa onore» (Gosho di Capodanno, RSND, 1, 1008)

di Lisa Michieletto, Scorze (VE)

Capire che cosa voglia dire sentirsi liberi è importante, perché spesso significa avere sperimentato l’opposto, ovvero la prigione dell’essere impossibilitati a compiere le azioni che si vorrebbe. Considerando che nel Buddismo il concetto di “azione” comprende non solo le azioni in sé e per sé, ma anche i pensieri e le parole, il non sentirsi liberi di pensare, parlare e agire come si vorrebbe è ancor più limitante. Essere liberi non necessariamente significa sentirsi liberi. Viceversa, ci si può sentire liberi anche a dispetto di circostanze che di fatto ostacolano la nostra libertà.
Mi trovavo, fino a poco più di un anno fa, in una situazione in cui la mia vita disponeva di tutte le caratteristiche per cui una persona si poteva sentire libera oltre che a proprio agio: single, autonoma anche economicamente, in buonissima salute, con un’ottima famiglia alle spalle e molti amici eccezionali.
Niente poteva andare meglio. Ma l’inizio di una relazione difficile in quanto non “convenzionale” e un fortissimo litigio con una cara amica hanno fatto sì che mi chiudessi in me stessa per un lungo periodo, fino a rialzarmi grazie alla recitazione del Daimoku davanti al Gohonzon per capire che cosa potevo cambiare in me per trasformare in medicina quella situazione velenosa. Eppure io e quel ragazzo stavamo bene assieme, si condividevano molte cose, fra le quali anche la pratica buddista. Con quella mia amica c’era stato un rapporto di profonda amicizia, di scambio e sostegno sincero. Ma come mai si era creato così tanto malessere? Non sopportavo che quella amica si permettesse di fare osservazioni sulle mie scelte, sul mio modo di essere. In realtà, con la pratica e il tempo avevo capito che ero io a non sopportarmi più.
Il principio di esho funi ci ricorda che fra vita e ambiente non c’è dualità: se volevo cambiare il mio ambiente dovevo inevitabilmente cambiare il mio atteggiamento. Se dunque il problema era il giudizio, era arrivato finalmente il momento di domandarmi quanto in me ci fosse la tendenza a giudicare gli altri e soprattutto me stessa. Se giudicare significa puntare il dito verso quello che non ci piace, per me la controtendenza diventava quella di riconoscere certe mie scelte passate – fino a prima condannate – ugualmente degne di rispetto. Il Daimoku e l’attività di responsabile di gruppo sono stati forti alleati in questa mia inversione di marcia.
È stato solo dopo avere preso coscienza della prigione di giudizio in cui mi trovavo che per me libertà significava per prima cosa accettare le cose e le persone per quello che erano. La mia relazione nel frattempo era terminata ma non senza la consapevolezza che amare è creare valore insieme, liberi di essere se stessi. La sofferenza nata dal litigio con la mia amica mi ha portato a trasformare il mio atteggiamento di critica: non mi ero resa conto che per quasi trentadue anni non avevo fatto altro che lasciarmi andare al giudizio, mio sugli altri e altrui su di me, un vero stato di inferno. Tuttavia, se non avessi sperimentato proprio quello stato di prigione, non avrei poi assaporato la sensazione di libertà derivante dall’eliminazione della gabbia di giudizio dentro la quale per tanto tempo avevo avuto l’illusione di essere libera.

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Proposte per la pace

Sono quelle che Ikeda invia ogni anno all’ONU e al mondo intero. Al centro delle scelte politiche, economiche e sociali deve esserci il rispetto della dignità della vita

Parlare di libertà dal punto di vista buddista significa sentirsi liberi dentro prima di tutto, liberi di scegliere, grazie alla consapevolezza che ci dà la fede nella lettura buddista del funzionamento della vita. Niente nel Buddismo è solo un effetto esterno, ma tutto parte da una rivoluzione interiore della coscienza dell’individuo (rivoluzione umana). Quindi, come produrre l’effetto tangibile di una società “libera” dove non esista il monopolio del potere, che schiavizza le popolazioni con la negazione dei diritti umani, con la povertà e la paura? L’insegnamento del Sutra del Loto ci dice che il Budda di assoluta libertà è colui che vive felice e a proprio agio a prescindere dalle condizioni esterne. Josei Toda dietro le sbarre ha raggiunto l’Illuminazione e l’arresto e la morte di Makiguchi in prigione non hanno impedito la libera trasmissione dei suoi insegnamenti in tutto il mondo. Tuttavia il Buddismo ci dice anche che la felicità individuale non è la vera felicità e che la gioia del singolo è legata a quella degli altri. Ricercare la felicità solo per se stessi non porta a raggiungere lo stato di “Budda di assoluta libertà”, la prima azione da fare consiste nel superare i limiti dettati dal proprio egoismo e cooperare per il bene comune. Così in parallelo anche la nostra vita personale migliorerà. «Accendere una lanterna per l’altro, è illuminare anche il proprio cammino» scrive Nichiren. Per il Buddismo la libertà è in primo luogo l’effetto che deriva dall’agire nel rispetto della dignità della vita, di tutti gli esseri viventi, nessuno escluso. «Possano tutti stare bene e sicuri, possano tutti gli esseri essere felici» ha detto Shakyamuni (cfr. BS, 146, 32). La libertà, dal punto di vista dell’insegnamento buddista, si può verificare solo nelle società che hanno realizzato una convivenza armoniosa, dove la dignità della vita del singolo è al centro di ogni politica economica e sociale, costruite grazie alla partecipazione e alla “competizione umanitaria”, secondo un concetto usato dal presidente Ikeda nella proposta di pace del 2009.
Di recente, il filosofo e pensatore Zygmunt Baumann, presente a Trento per il festival dell’economia, ha lanciato il monito: «Responsabilità incondizionata, condita da incertezze e ansie: questo è il motore del consumismo odierno, questo l’impulso che ci spinge a fare sempre di più, a produrre sempre di più. Ma ciò non è possibile, le risorse sono sempre limitate. Forse il momento della verità è vicino. Ma possiamo fare qualcosa per rallentarlo: intraprendendo un cammino autenticamente umano, un cammino fatto di reciproca comprensione».
La Soka Gakkai opera dai suoi esordi nel 1930 a oggi per diffondere attraverso il Buddismo di Nichiren Daishonin questo tipo di convinzione. Daisaku Ikeda, presidente della SGI, invia all’ONU il 26 gennaio di ogni anno, a partire dal 1983, una proposta per la pace globale. «È fondamentale trasfondere nella società un’etica che incoraggi le persone a prendere l’iniziativa per far rispettare e proteggere la dignità della vita sotto ogni profilo, per ottenere ed esercitare i propri diritti, promuovendo in tal senso educazione e formazione» si legge in uno degli incipit della proposta di pace 2011. E proprio nell’educazione la Soka Gakkai da sempre ha individuato lo strumento principe per la costruzione globale di una cultura di pace. Tre sono per Ikeda i punti irrinunciabili per cavalcare la sfida: «La salvaguardia dell’ambiente, la protezione della dignità umana e la mobilitazione per un disarmo atomico totale con la definitiva dichiarazione di illegalità delle armi nucleari». Per questo sensei da sempre ha chiamato tutti noi a contribuire alla diffusione della cultura dei diritti umani. Nel cui preambolo si legge: «Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo…».

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Mi sento libero quando…

Esiste un mondo senza barriere: lo dipingono i bambini con la fantasia rispondendo alla domanda sul significato di essere liberi. In questo luogo «che fa chiarire le idee e rende felice», si può dipingere e giocare con gli amici. E va condiviso con gli altri «perché quando sono in difficoltà, io li incoraggio e dico che ce la possono fare»

I piccoli hanno una straordinaria capacità: quella di rendere semplici anche i concetti più complessi come quello di libertà. Intervistando questi bambini dai sei agli undici anni, ho avuto la sensazione di entrare in una dimensione molto più spaziosa e semplice di quella a cui siamo abituati, come si legge dalle parole di Emma: «La libertà è dove tutto è in natura», Efi: «Giocare con le mie amiche» o Pietro «Vorrei che la mia mamma mi lasciasse giocare a calcio con i miei amici e che nessuno dicesse stupidaggini quando gioco a calcio. Vorrei che al mondo non avessero inventato le parolacce».
La concretezza che ascolto nelle parole di Jonas mi fa riflettere: «Per me la libertà è un’emozione che tutti possiamo provare se vogliamo. Non bisogna usare le mani ma parlare e metterci d’accordo, questa è libertà. Libertà è amicizia, amore, gioia e tristezza. La libertà è speciale, serve molto alle persone. È un arcobaleno che fa tanti cerchi colorati intorno alla terra e dura all’infinito. Mi sento libero quando posso giocare con i miei amici, quando dipingo, quando imparo qualcosa che non so. Mi sento molto libero quando sono con tutta la mia famiglia e sono tutti contenti. Mi sento molto libero di scrivere ed essere un poeta»; Livia: «Secondo me la libertà è una cosa meravigliosa, perché sono libera di fare quello che voglio (ma non le cose che danneggiano gli altri). Penso di poter distribuire la libertà agli esseri umani e alla natura con l’incoraggiamento, perché quando loro sono in difficoltà io li incoraggio e gli dico che ce la possono fare a essere liberi e felici». Per Zoe, invece, «è un diritto che fa chiarire le idee e ti rende felice». Insomma, il mondo senza confini dei bambini sembra proprio quello che non conosce barriere, come dice Anna: «Per me la libertà è se al mondo le persone sono libere senza qualcuno che le comanda». (a.c.)

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Potete imprigionare solo il mio corpo

Aung San Suu Kyi e Nelson Mandela sono diventati due simboli della lotta contro l’ingiustizia e la violenza. Fra carcere e arresti domiciliari hanno trascorso mezzo secolo in stato di reclusione. Le loro parole hanno ispirato – e continuano a ispirare – individui e popoli nel mondo

Aung San Suu Kyi

«L’autentica rivoluzione è quella dello spirito, quella nata dalla convinzione della necessità di cambiamento degli aspetti mentali e dei valori che modellano il corso dello sviluppo di una nazione».  A pronunciare queste parole è stata Aung San Suu Kyi, una donna birmana che, influenzata dagli insegnamenti del Mahatma Gandhi, ha sposato la lotta nonviolenta contro la feroce dittatura che controlla il suo paese. Una scelta questa pagata con l’obbligo di trascorrere la maggior parte degli ultimi ventidue anni agli arresti domiciliari, senza poter vedere nessun membro della sua famiglia, ma senza mai venire meno al suo proposito di liberare il popolo birmano dalla tirannia.

«Una rivoluzione finalizzata semplicemente a trasformare le politiche e le istituzioni per migliorare le condizioni materiali ha poche probabilità di successo. Senza una rivoluzione dello spirito, le forze che hanno prodotto le iniquità del vecchio ordine continuerebbero a operare, rappresentando una minaccia costante al processo di riforma e rigenerazione. Non basta limitarsi a invocare libertà, democrazia e diritti umani. Deve esistere la determinazione compatta di perseverare nella lotta, di sopportare sacrifici in nome di verità imperiture, per resistere alle influenze corruttrici del desiderio, della malevolenza, dell’ignoranza e della paura un popolo che vuole costruire una nazione in cui siano fermamente stabilite istituzioni salde e democratiche […] deve anzitutto imparare a liberare la propria mente dall’apatia e dalla paura» (Libera dalla paura, Sperling & Kupfer, Milano 1998)

Nelson Mandela

Tra il 1948 e il 1990 il governo sudafricano ha imposto al paese un sistema di divisione della popolazione in quattro gruppi razziali: bianchi, neri, meticci, asiatici. Alle popolazioni di questi quattro gruppi era vietato ogni contatto, in particolare ai neri e ai meticci venne tolto ogni diritto, compreso quello di cittadinanza. Questo sistema venne chiamato apartheid, che in lingua afrikaans significa “separazione”. Nelson Mandela, ha dedicato tutta la vita alla lotta contro l’apartheid, per conquistare la libertà del suo popolo. Per la sua statura morale e la convinzione con cui ha vissuto in favore degli altri è diventato il simbolo del Sudafrica. Dopo ventisette anni in prigione, ha vinto le prime elezioni libere diventando il primo presidente nero del Sudafrica, ruolo che ha ricoperto guadagnandosi il rispetto di tutto il mondo per il suo sostegno alla riconciliazione nazionale.

«È stato in quei lunghi anni che la sete di libertà per la mia gente è diventata sete di libertà per tutto il popolo, bianco o nero che sia. Sapevo che l’oppressore era schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della loro umanità» «Perché la libertà non è soltanto spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri» (Lungo cammino verso la libertà, Feltrinelli, Milano 1995)

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