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Il sole in famiglia - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 16:01

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Il sole in famiglia

Daniela Rachini, S.Piero a Ponti (FI)

Così è iniziata la nostra storia: una storia d’amore fra una figlia e una mamma che si sono conosciute da “grandi” dove mi ci vuole il Gohonzon tutti i giorni per fare ciò che è giusto per lei e non ciò che disturba o fa piacere a me

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Così è iniziata la nostra storia: una storia d’amore fra una figlia e una mamma che si sono conosciute da “grandi” dove mi ci vuole il Gohonzon tutti i giorni per fare ciò che è giusto per lei e non ciò che disturba o fa piacere a me

Pratico dal 1988 e in tutti questi anni ho sperimentato tante situazioni che mi hanno portato, con grandi sforzi, a trasformare alcuni aspetti di me stessa e a vivere una vita realizzata.
Nel 1993 mi colpì una strana malattia. Inizialmente mi fu diagnosticata una grave forma di allergia: ebbi tre shock anafilattici da farmaci e da alimenti e i medici mi sottoposero a una dieta ferrea, composta di soli dieci alimenti, che avrei dovuto seguire per tutta la vita. Dopo alcuni anni arriva la diagnosi giusta: angioedema ereditario, una malattia inguaribile di origine immunologica, con gravi manifestazioni allergiche. Vivevo perennemente con questa spada di Damocle sulla testa: qualunque piccolo stress o trauma poteva generare uno shock anafilattico procurandomi la morte. Nel frattempo mi vennero anche gli attacchi di panico.
Come se non bastasse, la mia vita sentimentale era un disastro: desideravo tanto una persona al mio fianco con cui creare una famiglia e avere figli, sia miei che adottati o in affidamento, ma naturalmente di uomini con cui realizzare questa grande famiglia neppure l’ombra.
Mi chiedevo quindi se stavo praticando correttamente. Ero profondamente trasformata sia nel modo di vedere le cose sia nel farle ma, data la situazione, decisi di chiedere un consiglio sulla fede. Mi fu detto che ero sul trampolino di lancio verso la vittoria, e che fino ad allora tutta la mia pratica era servita per approfondire e cambiare la mia percezione della vita. Fui incoraggiata a non mollare e ad andare fino in fondo.
Fu così che, grazie a delle condizioni favorevoli, nel giro di un anno mi comprai la casa, trovai un compagno, che poi ho sposato, e la mia salute si stabilizzò. Questo periodo positivo durò dieci anni. Guarii anche dall’angioedema ereditario, pur rimanendo un soggetto a rischio, e scomparvero gli attacchi di panico.
Nel 2003, con molto dolore, mi separai da mio marito. Tutta la mia vita fino ad allora era stata basata sugli altri: la famiglia, gli amici, i compagni di fede, i figli che non avevo avuto. La mia esistenza era stata in funzione di ciò che faceva piacere, o pensavo facesse piacere, agli altri: essere una brava figlia, una brava moglie, una brava amica, una brava responsabile buddista.
Mi sentivo non amata, giudicata in ogni cosa che facevo e continuavo a mettermi in discussione: «Dove sbaglio? Cosa posso fare per migliorare?». Mi ponevo questi interrogativi con estrema severità e rigidità: ero io la prima a non accettarmi per com’ero.
Quando non amiamo la nostra vita, essa può manifestarci il suo dissenso facendo scaturire la malattia: saltarono fuori due piccoli fibromi all’utero, di per sé non gravi, ma che a causa di tutte le mie patologie precedenti non potevo curare. L’assunzione di farmaci era legata a lunghe degenze ospedaliere e non potevo essere operata per l’allergia agli anestetici.
Con tanto Daimoku iniziai a fare dei piccoli passi per provare ad accettarmi com’ero, per perdonarmi quando sbagliavo, per guardarmi allo specchio e pensare di me stessa: «Che meraviglioso Budda!». Quella grande donna piena di contraddizioni ma anche di tanto amore stava prendendo la giusta direzione: amare e rispettare se stessa e gli altri.
Intanto i miei fibromi crescevano e con loro maturava la consapevolezza che non era fondamentale avere o meno dei figli. Quando ho imparato a volermi bene “naturalmente mille Budda sono corsi incontro per sostenermi”.
Faccio un passo indietro. Casualmente all’inizio del 2005 ero venuta a sapere che il Comune cercava famiglie affidatarie per bambini in difficoltà. Avevo fatto domanda e dopo un corso di preparazione alla fine ero stata considerata idonea. Mi chiamarono dal Centro Affidi e mi furono affidate temporaneamente due bambine per un anno. Dopo di loro, decisi di continuare questo “viaggio” con il Centro. In genere le famiglie affidatarie soffrono per la separazione e non proseguono, ma dal momento che avevo fatto questa scelta per aiutare qualche ragazzo o bambino in difficoltà, decisi comunque di andare avanti in questo percorso. Ho sempre pensato che la mia sofferenza era un’inezia in confronto alla loro e che magari potevo fare poco, ma era sempre meglio di niente. Così mi parlarono di Cristina: viveva da otto anni in un istituto, era stata tolta ai genitori naturali quando aveva sei anni e al Centro cercavano una famiglia a cui poterla affidare in modo totale.
Il primo istinto fu quello di fuggire. Come potevo essere in grado di gestire una ragazza di quattordici anni con un vissuto così pesante? Inoltre un affidamento totale mi avrebbe completamente cambiato la vita: lavoravo a tempo pieno, avevo le mie storie e la mia attività da portare avanti. Non se ne parlava nemmeno. Chiesi una settimana di tempo per pensare anche se dentro di me sapevo che gli avrei risposto di no.
La paura mi attanagliava. Ho recitato Daimoku con il desiderio che questa ragazza fosse felice indipendentemente da ciò che sarebbe successo. La settimana successiva comunicai al Centro Affidi che non me la sentivo di affrontare una situazione così pesante, ma che volevo conoscere Cristina e che magari avrei fatto un po’ di volontariato nell’istituto dove era lei. Durante il nostro primo incontro le chiesi di parlarmi un po’ di sé e lei mi disse: «Sono l’ultima di dodici figli, i miei genitori sono rom, mio padre picchiava mia madre, io ho un pessimo carattere, sono permalosa, aggressiva e non vado d’accordo con nessuno». La guardai e le dissi: «Bene, questo è il tuo passato. Per il futuro cosa desideri?». Lei mi rispose molto semplicemente: «Una famiglia». Tutti hanno il diritto di sognare, specialmente i giovani; perché dovevo negarle ciò che desiderava? Le risposi allora che forse non ero capace di fare la mamma, ma che ci avrei provato. Così è iniziata la nostra storia: una storia d’amore fra una figlia e una mamma che si sono conosciute da “grandi” dove mi ci vuole il Gohonzon tutti i giorni per fare ciò che è giusto per lei e non ciò che disturba o fa piacere a me.
È una lotta continua contro la sua sfiducia di potercela fare a cambiare vita totalmente e contro i pregiudizi della gente. Ora lei è una meravigliosa ragazza di diciannove anni che ha fatto un grande cambiamento. Non sto a raccontare le difficoltà che abbiamo avuto nel nostro rapporto, a scuola e anche per i documenti, ma abbiamo sempre incontrato persone meravigliose che ci hanno aiutato.
A luglio 2009, durante una riunione al Centro Affidi, pensando alla sua felicità, senza averne parlato ancora con nessuno, chiedo se nella mia condizione di single avrei potuto adottarla. Il 22 febbraio eravamo davanti al giudice per i minori che ci ha accolto esclamando: «Ecco una bella storia!». Ora siamo ufficialmente madre e figlia: è stata fatta un’adozione speciale. Cristina, poi, di sua iniziativa, il 9 maggio è diventata membro dell’Istituto. Il presidente Ikeda scrive: «Non c’è alcun bisogno di tormentarsi rimanendo schiavi del passato, pensando a cosa ci è successo, a quello che è avvenuto finora. La cosa importante è quali semi piantiamo “ora”. […] “Ora” è il momento di cambiare il nostro ichinen, di rivoluzionare la nostra vita. Questa è la gioia che scaturisce dalla rivoluzione umana. La vittoria futura sta qui, in questo momento presente. Ogni cosa inizia da qui, proprio da ora» (NR, 440, 3) e questo è semplicemente il mio modo di portare avanti la mia missione per kosen-rufu.

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Ciao papà, sappi che ti voglio bene e ti terrò sempre nel cuore. Sbagliare è umano ma l’importante è capire dove abbiamo sbagliato e chiarire.
Io ho cercato di farlo con te attraverso questa lettera.
Ti ringrazio di avermi dato la vita e sinceramente le difficoltà mi sono servite per crescere… in meglio e capire degli aspetti in me diversi.
Cristina

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