Più che un collega mi sentivo uno schiavo. Stavo male, ero sempre nervoso e stanco, mi sentivo umiliato e privo di valore e riversavo questo stato d’animo nei confronti delle persone più care. Una sera, dopo una giornata più pesante del solito, ho cominciato a recitare un Daimoku “disperato”
di Roberto M., Milano
Ho iniziato a lavorare all’età di sedici anni, interrompendo gli studi molto presto con la scusa di non riuscire a studiare. In verità volevo coprire la mia balbuzie e di conseguenza la mia timidezza che mi portava sempre a evitare di parlare con le persone. Ho cominciato come apprendista e mi piaceva, dovevo muovere le mani e non c’era bisogno di parlare. Però in dieci anni ho cambiato cinque posti di lavoro perché la situazione era sempre la stessa: io non avevo il coraggio di chiedere niente ai miei datori di lavoro e loro, nonostante la mia crescita professionale, continuavano a pagarmi come un apprendista. L’unica volta che timidamente provai a fare una richiesta, il mio principale mi rispose che se avesse dato un calcio a un albero di mele, ne sarebbero caduti a decine come me. Anche mio padre, quando parlavo con lui, mi diceva che in fondo non potevo pretendere di meglio perché non avevo un titolo di studio.
Proprio quando mi ero ormai rassegnato a quella situazione, ho conosciuto il Buddismo. Da subito ho avuto vari benefici, anche se la mia situazione lavorativa e la mia timidezza esitavano a trasformarsi. Però avevo Nam-myoho-renge-kyo e sentivo la speranza di poter cambiare. Quattro anni fa iniziai a lavorare come aiutante meccanico in uno stabilimento vicino casa mia. Si trattava di una grande azienda, specializzata nel montaggio di grandi ventilatori industriali, che ha molti uffici in Europa e si occupa di impianti sparsi in tutto il mondo.
In realtà, questo lavoro, all’inizio mi sembrava un incubo. Non solo si trattava di un mestiere per me nuovo ma i miei diretti colleghi – quattro, fra i quali c’era astio e invidia – erano in competizione e cercavano solo di dimostrare al direttore di essere uno più bravo dell’altro. In questa situazione, a me toccavano le pulizie e i lavori più sporchi e faticosi. Nessuno mi dava la possibilità di vedere i lati più tecnici e interessanti di questo mestiere.
Addirittura un collega, quello con cui dovevo lavorare fianco a fianco, non mi salutava mai e mi rivolgeva la parola solo per darmi degli ordini. Naturalmente, quando qualcosa non andava, era quasi sempre colpa mia: più che un collega mi sentivo uno schiavo.
Stavo male, ero sempre nervoso e stanco, mi sentivo umiliato e privo di valore e riversavo questo stato d’animo nei confronti delle persone più care.
Una sera, dopo una giornata più pesante del solito, ho cominciato a recitare un Daimoku “disperato” credendo fermamente alle parole di Nichiren Daishonin: «Raccogli tutta la tua fede e prega questo Gohonzon. Allora, cosa non può essere realizzato?» (Risposta a Kyo’o, RSND, 1, 366). Così ho determinato di realizzare un obiettivo impossibile: trasformare il mio ambiente lavorativo in un posto di valore e diventare il miglior tecnico che questa azienda avesse mai avuto. Sottolineo “tecnico”, non meccanico, quindi andando al di là persino delle capacità dei miei colleghi e senza tenere conto del fatto che ho solo la terza media: in pratica un obiettivo più che impossibile, impossibilissimo.
Poco tempo dopo mi venne proposta la responsabilità di un gruppo; parlare alle riunioni era per me una grande sfida. Iniziai anche a fare attività di protezione al Centro culturale di Milano. Fare attività mi trasformava senza che me ne rendessi conto, perché il fatto di sfidare i miei limiti di socializzazione, dedicandomi agli altri senza risparmiarmi si rispecchiava nella mia vita e nel mio lavoro. Così, ogni mattina, andavo dal mio collega-capo – quello che non mi salutava mai – e riuscivo ad augurargli una buona giornata in maniera sincera. Lui, inizialmente, mi squadrava dalla testa ai piedi, ma col tempo ha cominciato a salutarmi e in una particolare situazione mi ha persino protetto parlando bene di me al direttore e facendomi ottenere un contratto a tempo indeterminato. Nei momenti più bui leggevo il Gosho e cercavo l’incoraggiamento di sensei nelle riviste. Un giorno mi ritrovai a parlare con un compagno di fede, Luigi, e gli raccontai qual era il mio obiettivo e come stavo pensando di realizzarlo e lui, giustamente, mi consigliò di mettere un’azione concreta, dire cioè al direttore il mio scopo. Mentre Luigi parlava, sentivo che anche i miei demoni mi stavano parlando: «Parla così perché non conosce la situazione… non sa quanto è scontroso e burbero il direttore… non hai neanche un titolo di studio… pensa se cominci a balbettare mentre glielo chiedi, che figura! Forse ha ragione papà, non fantasticare…». Questa specie di battaglia interiore andò avanti tutta la notte. Il giorno dopo ero ancora molto esitante ma pensai che avevo fatto tutto e che adesso mancava solo l’azione. Così mentre il direttore andava avanti e indietro per la ditta, con le mani giunte dietro la schiena, io cercavo di avvicinarmi anche se poi per paura tornavo indietro. Alla fine, arrabbiatissimo coi miei limiti, andai da lui urlandogli praticamente in faccia il mio scopo: «Signor direttore, voglio diventare tecnico. Voglio andare in giro per il mondo a rappresentare l’azienda, posso farlo!».
In quel momento ho provato una sensazione indescrivibile, una liberazione da un enorme peso, visto che ora persino i demoni erano ammutoliti. Come del resto il direttore che, in mezzo al rumore dell’officina, mi ha guardato come se fossi matto, ha fatto un cenno affermativo con la testa e ha continuato la sua camminata. Non so cosa pensava e cosa sarebbe successo ma io ero libero, leggero e felice per aver sfidato una paura immensa.
Un mese dopo il direttore mi ha fatto chiamare e mi ha detto che l’azienda avrebbe investito su di me e che quindi mi avrebbero fatto fare corsi tecnici e di lingue; il resto del discorso non l’ho sentito: pensavo al Gohonzon, al mio maestro, ai compagni di fede e alla magnificenza di questo Buddismo. L’impossibile era diventato possibile!
In seguito, dei colleghi che mi avevano ostacolato, uno è andato in pensione, un altro è sempre all’estero, mentre uno è stato cambiato di reparto. Quello che invece è rimasto ha cambiato atteggiamento, tanto che ora siamo quasi amici. Io sto facendo corsi tecnici e d’inglese; sono già uscito in trasferta come tecnico, supervisore e capocantiere con risultati molto positivi. Ora sono uno dei pochissimi tecnici che va in giro per il mondo a rappresentare l’azienda e si fidano di me. Amo il mio lavoro e ora che sono nella posizione per farlo, combatto le ingiustizie e come avevo determinato l’ambiente di lavoro sta cambiando.
Per quanto riguarda la mia balbuzie, sono molto migliorato. Sì, ogni tanto, ancora, quando parlo mi “inceppo”, ma ormai è diventata una cosa quasi impercettibile e soprattutto ho imparato ad apprezzarla perché oltre a essere una mia particolarità è anche ciò che mi ha costretto a sfidarmi e a cambiare e alla fine a essere felice per quello che sono. Per gli scioglilingua invece… mi sto attrezzando!